PAGLIARI, Giorgio
PAGLIARI, Giorgio. – Nacque nel comune di Bosco (oggi Borgo Marengo in provincia d’Alessandria) nel 1545 da Giacomo Maria e Fiordiana di Bartolomeo Mallio.
Nel 1567 fu ammesso nel collegio fondato a Pavia da Pio V, anche’egli nativo di Bosco; in esso venivano formati per sette anni ragazzi privi di mezzi provenienti in prevalenza da località dell’Alessandrino. I rogiti di nomina del collegio riportano che Pagliari conseguì il titolo di studio di «dottore in utroque»; in seguito si trasferì a Roma come uditore del cardinal nipote Michele Bonelli, protettore del collegio.
Grazie a questo sostegno Pagliari ottenne riconoscimenti di rilievo fino a conseguire cariche di alto livello presso la curia romana: arciprete, protonotario apostolico, cameriere segreto di Innocenzo IX, consulente di Clemente VIII. Nell’aprile 1580 ritornò a Pavia, dove divenne prefetto del collegio Ghislieri e prevosto della chiesa di S. Michele della città; nel 1587 fu nominato vicario nella diocesi di Veroli (Albano) di cui Bonelli era vescovo e, in quanto suo procuratore, prese possesso del feudo di Bosco.
Nel 1598 raccolse, su mandato del cardinale Bonelli, tutti gli atti ufficiali concernenti la fondazione del collegio Ghislieri nel Transumptum omnium et quorumque iurium, actionum et bonorum Venerandi Collegij Ghislieriorum (Pavia, A. Viani). Nel 1611 pubblicò a Milano un’opera che ebbe immediato riconoscimento: le Osservazioni sopra i primi cinque libri de gli Annali di Tacito, alla cui composizione era stato incoraggiato da Gregorio XIII.
Il volume venne dedicato, con una lettera siglata da Pavia il 2 novembre 1610, a Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza, ed ebbe due successive ristampe (1612 e 1622). Si tratta di un commentario ai primi cinque libri degli Annali di Tacito mediante 618 osservazioni, che sono numerate con la precisa finalità di offrire una trattazione sistematica dei temi principali della vita politica e delle istituzioni civili. Esplicita è l’adesione al genere della trattatistica del tacitismo: il contributo di Pagliari – che s’inserisce in un filone letterario promosso e alimentato dalla Curia romana nel periodo della Controriforma – è considerato dalla critica minore a confronto della più significativa produzione tacitista (Barcia, 1990). L’esposizione e il commento del testo tacitiano costituiscono un dispositivo discorsivo di sicuro rilievo: i riferimenti agli autori e agli avvenimenti esemplari della storia antica e moderna vengono intrecciati con riflessioni e con argomenti tratti dai maggiori pensatori del Cinquecento. Da un lato, abbiamo i richiami continui agli autori classici greci e latini, soprattutto Aristotele e Tacito; dall'altro lato, incontriamo l’utilizzazione, non sempre dichiarata, di Jean Bodin, di Giovanni Botero e degli scrittori della trattatistica della ragion di Stato.
Un rapporto particolare lega Pagliari agli scritti e al pensiero di Niccolò Machiavelli. La precettistica machiavelliana viene assimilata ed esposta in una cornice di ragionamenti prudenziali; allo stesso tempo, il segretario fiorentino – nominato il Discorsivo in quanto autore dei Discorsi – è condannato in quanto figura esemplare di scrittore ateo che istiga i principi a commettere scelleratezze e crudeltà estreme seguendo l’esempio di Cesare Borgia: «Scrive il Guicciardino che Cesare Borgia sotto Alessandro VI fece crudelmente uccidere e gettare nel fiume il duca di Candia suo fratello, per spretarsi e darsi a uccellare alla più bella e florida parte dello Stato ecclesiastico, con si fatt'arte e industria che poscia da Discorsivo, condannato da Santa Chiesa, fu proposto al mondo per un esemplare della pernitiosa Ragion di Stato in cambio di sepelire quell'atroce esempio di sì cruda azione nell'eterna oblivione» (n. 2).
Come accade nel genere della trattatistica tacitista, Pagliari stabilisce un legame discorsivo – certamente improprio e destinato tuttavia a imporsi nei secoli successivi – tra Machiavelli e le tecniche perverse della prudenza conservativa descritte dai trattatisti della cattiva ragion di Stato. A suo avviso invece esiste una lecita e utile ragion di Stato, messa in opera dai sovrani prudenti e devoti (n. 264): egli introduce quella nozione senza darvi in apparenza grande rilievo; commentando il passo di Tacito Pauca admodum vi tractata, quo caeteris quies esset (Annales l, 9, 20), riferito a Tiberio, afferma: «Questa è per avventura quella ragion di Stato la quale fu posta in prattica da uno dei più benigni e savi prencipi che mai fossero» (n. 38). Tiberio costituisce la figura tacitiana ridisegnata da Pagliari come quel soggetto che, con Machiavelli, si può definire il principe nuovo; costui può usare tecniche di ragion di Stato a condizione che siano rivolte all’utilità generale e non all’interesse personale. Esiste allora una ragion di Stato non perniciosa, poiché non affetta dai precetti malvagi del fiorentino Discorsivo; in questo caso, il principe è benigno pure se pratica tecniche di dissimulazione o di deroga della legge civile. Pagliari argomenta in sintesi che «i casi di necessità sono sì rari che non se ne può far regola, e le cose di Stato sono tanto fragili e gelose, che non s'hanno a mettere in farsi, né a fidarsi sopra la speranza d'aver a mancar di fede» (n. 158).
Per quanto concerne la nozione di popolo, a differenza del giudizio machiavelliano, l’autore di Bosco vede nel popolo il soggetto collettivo per eccellenza servile, malfido (nn. 53 e 76), ignorante (n. 91); la moltitudine deve dunque essere disciplinata affinché impari a temere e a rispettare il principe; il popolo non può offendere, né ribellarsi al principe, anche se costui sia palesemente crudele e inidoneo al governo (n. 38). Le rivolte popolari sono sempre da condannare (nn. 9, 62, 221); il modo più rapido e sicuro per soffocare le congiure è quello di sfruttare le rivalità trai rivoltosi e, in linea preventiva, il principe deve fomentarle con suoi infiltrati (n. 56); prima che la situazione si aggravi, bisogna isolare i capi e gli esasperati con l'istituzione di pesanti taglie facilmente conseguibili e con la promessa dell'impunità per chi si pente (n. 101).
Secondo Pagliari, alla Chiesa spetta il primato del potere temporale poiché essa costituisce la guida morale dei comportamenti umani e riesce a conseguire l’obbedienza dei fedeli. Il principe deve organizzare e governare lo Stato cristianamente, con «una disciplina simile a quella della dottrina cristiana ordinata dal Sacro Concilio di Trento intorno a’ rendimento della fede nostra» (n. 428). Pagliari lamenta che la Chiesa abbia perduto il controllo effettivo sui principi e esalta i tempi passati in cui i pontefici deponevano imperatori e re, e imponevano la pace, la guerra e le leggi «secondo che il bene e la quiete publica ricercava» (n. 428). Sostiene dunque il legame necessario tra potere spirituale della Chiesa e potere temporale; si tratta della concezione teocratica risalente a Bonifacio VIII che la chiesa tendeva ora a restaurare con misure come quelle adottate da Sisto V, che nel 1590 aveva condannato un nutrito gruppo di autori, tra i quali Roberto Bellarmino e Françisco de Vitoria, che negavano la signoria temporale dei papi, e non aveva esitato a dichiarare decaduti Enrico di Navarra e il principe di Condé (bolla 21 settembre 1585), mettendo in atto la prerogativa papale di deporre un sovrano dichiarato eretico. In definitiva, Pagliari considera la subordinazione al potere spirituale il mezzo di cui il principe si può servire per governare al sicuro e più a lungo. Nella visione di Pagliari, identica a quella di Botero, il principe svolge una funzione esplicitamente conservativa; al fine di perseguire il mantenimento dello Stato, egli deve utilizzare congiuntamente i mezzi della politica e la devozione religiosa (n. 486). Ecco delineata dal commentatore tacitista la figura del buon principe cristiano: egli si sottomette alla religione e all’autorità della Chiesa, conseguendo in questo modo l’obbedienza dei sudditi e la pace del suo regno. Questo ideale di comunità politica dovrebbe rafforzare il quadro della nuova stagione di Controriforma e consentire ai principi italiani un periodo di tregua duratura a fronte delle aggressioni straniere.
Morì in luogo sconosciuto il 3 aprile 1612, secondo quanto riporta la lapide collocata nel collegio Ghislieri di Pavia, dove svolse la funzione di prefetto fino agli ultimi mesi precedenti alla morte. Nel testamento dispose lasciti alle chiese di Bosco e di Novi e un fondo consistente per istituire un Monte di Pietà in questi comuni.
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