LOREDAN, Giorgio
Nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Canciano, tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, ma certamente prima del 1404, da Marco di Fantino e da una donna di ignoto casato. Sono sconosciuti anche il nome della moglie del L. (una figlia di Nicolò Gabriel) e l'anno del matrimonio. Questa reticenza delle fonti riguardo alla vita privata del L. può essere spiegata col fatto che non ebbe figli, così come l'unico fratello, Andrea, per cui con essi si estinse questo nucleo della famiglia.
Il L. faceva parte del cospicuo ramo dei Loredan di S. Canciano, che proprio nel XV secolo diede alla Repubblica i più prestigiosi comandanti dell'Armata marittima, tutti pervenuti alla dignità procuratoria, sicché non stupisce che la prima notizia che lo riguarda lo trovi appunto a servire sul mare; non fu lui peraltro, ma l'omonimo fratello del capitano generale Pietro Loredan, il comandante della piccola squadra cretese che il 14 ag. 1431 a ricevere dal Senato l'ordine di incrociare tra Corfù e Capo Colonne per intercettarvi le navi genovesi, mentre il grosso della flotta penetrava nel Tirreno. Né questa è la sola omonimia in cui ci si imbatte nel ricostruire la biografia del L.: in quel torno di anni fu politicamente attivo anche un Giorgio Loredan di Francesco, per cui le tre compresenze comportano non pochi problemi di identificazione, specialmente quando le fonti non precisano il nome del padre o non forniscono altri elementi utili.
Era tuttavia sicuramente il L. colui che il 5 marzo 1434 provava di aver compiuto i trent'anni, così da poter assumere il comando di una galera della "muda" di Fiandra; tre anni dopo (1437) il L. era alla guida dell'intero convoglio, benché su di una rotta più breve, quella di Beirut. Il viaggio ebbe termine nel gennaio 1438, quando il L. fu convocato in Senato per riferire sulla situazione dei mercanti veneziani in Siria, ai quali il sultano d'Egitto impediva di lasciare Damasco per via di certe pendenze riguardanti il pagamento di una grossa partita di pepe; qualche mese dopo fu nominato podestà a Chioggia, mentre si stava riaccendendo il conflitto con Milano, nel quale il L. fu coinvolto.
A causa del passaggio tra le file viscontee del marchese di Mantova, Gianfrancesco Gonzaga, Venezia stava approntando una squadra di galere e navi armate da impiegare sul Po contro la rocca di Sermide; l'11 luglio 1438 il Senato ordinò al L., che aveva lasciato Chioggia per portarsi sull'Adige presso Legnago, di inviare Maffeo Molin, capitano delle barche armate, "ad custodiam Atticis Policini Rodigii et Paduani" (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Deliberazioni, Secreta, reg. 14, c. 138v). La podesteria del L. si risolse pertanto in un'opera di supporto alle navi che operavano sull'Adige e sul Po, benché con esiti poco felici, visti i replicati insuccessi ai quali andarono incontro.
Il L. tuttavia svolse il suo compito con apprezzabile capacità, dal momento che il 1° giugno 1439 fu eletto nel novero dei tre savi alla Guerra: proprio allora Venezia si era assicurata l'apporto di Francesco Sforza, mediante il quale si mirava a spezzare l'assedio di Brescia, che le truppe di Niccolò Piccinino serravano dall'ottobre dell'anno precedente; ciononostante il conflitto procedette a fasi alterne.
Il 14 genn. 1440 il L. fu nominato capitano di nave e il 25 gennaio ufficiale alle Cazude, una magistratura finanziaria di scarso rilievo che tenne per pochi mesi, dal momento che il 6 giugno lasciava Venezia alla guida della muda di Fiandra, la stessa di cui aveva fatto parte sei anni prima in qualità di semplice comandante di galera. Al ritorno fu eletto capitano a Zara, dove fece il suo ingresso il 23 ott. 1441, sostituendo nell'incarico Antonio Pesaro; fu a sua volta rilevato da Marino Sanuto il 21 marzo 1444. Al termine del mandato fu consigliere ducale dall'ottobre 1444 al settembre 1445, quindi riprese a servire nella flotta col grado superiore di capitano in Golfo; l'interminabile conflitto con Milano stava per riaccendersi e di lì a poco avrebbe conosciuto una svolta radicale con la morte di Filippo Maria Visconti (13 ag. 1447). Qualche mese prima, il 23 maggio, il Senato scrisse al L., che si trovava con la flotta ad Ancona, di inviare all'Arsenale le armi (lance e archi) da lui rinvenute in una nave catturata al largo di Pesaro (con qualche ritardo, sette anni dopo, il 23 giugno 1454, il Collegio provvedeva a bonificare al L. la quarta parte del valore stimato di tali armi, secondo quanto previsto dalla legge); ancora, il 23 maggio 1447 si ordinava al L. di portarsi a Ravenna, per difenderla da un eventuale colpo di mano dello Sforza, che stava risalendo dalle Marche verso la Lombardia; successivamente avrebbe dovuto riprendere a scorrere la riviera adriatica sino ad Ancona. L'improvvisa morte del Visconti fece precipitare la situazione; dopo i primi successi dei Veneziani, lo Sforza riconquistò Cremona senza che alcun aiuto potesse essere offerto dalle trentadue barche armate inviate sul Po con Andrea Querini, né dalle quattro galere che le affiancavano sotto il comando del Loredan.
La guerra continuava ancora quando il L. fu eletto capitano a Padova, dove nell'agosto 1449 subentrò a Zaccaria Bembo; la vivacità economica e culturale della città (vi era allora attivo Donatello) richiamava l'interessata attenzione di diversi gruppi di potere, alcuni riconducibili alla parentela dello stesso doge, Francesco Foscari, altri alla spodestata famiglia da Carrara. Il L. dovette pertanto cimentarsi con una complessa rete di intrighi, oltre che provvedere ai rifornimenti delle truppe, incessantemente sollecitati dalle urgenze di un conflitto che si combatteva su due fronti, fluviale e terrestre.
Il L. rientrò a Venezia nel luglio 1450; in ottobre fu nominato per la seconda volta consigliere ducale del sestiere di Cannaregio, incarico che ricoprì fino al settembre del 1451; in seguito fu eletto capitano delle quattro galere della muda di Aigues- Mortes, ma preferì rinunciare, e il 5 marzo 1452 il Senato provvide alla sua sostituzione. Nuovamente consigliere di Cannaregio dall'ottobre di quell'anno, alla scadenza del mandato entrò a far parte per la prima volta del Consiglio dei dieci, come si ricava da una sentenza del 31 luglio 1454 in cui compare il suo nome. In seguito il L. fu nuovamente eletto capitano di Padova, dove prestò la sua opera, in un contesto meno difficile rispetto a cinque anni prima, fino al 1456, quando fu sostituito da Leonardo Contarini. Il 1° ottobre di quell'anno entrò ancora a far parte del Consiglio dei dieci sino al settembre 1457, ma la sua presenza è documentata pure tra i savi del Consiglio nel periodo compreso fra il 16 dic. 1456 e il 14 marzo 1457.
Era un momento particolarmente delicato per la politica interna veneziana: il 19 ott. 1457, infatti, fu proprio il Consiglio dei dieci a imporre l'abdicazione al vecchio doge Francesco Foscari, e molta parte di storiografia ha voluto ricondurne le ragioni all'odio mortale che da decenni opponeva i Foscari ai Loredan (nella circostanza, tra i capi dei Dieci vi era Giacomo Loredan). Comunque siano andate le cose, il L. non ne ebbe parte diretta, essendo scaduto dalla sua carica da quasi tre settimane; tuttavia è verosimile che un evento di tanta importanza e ufficialmente motivato solo dall'età troppo avanzata del doge, che gli impediva di assolvere alle sue funzioni, fosse stato dibattuto e preparato ormai da qualche tempo, e che pertanto il L. abbia preso parte alle discussioni preliminari (nel settembre 1457 era capo dei Dieci), poi avviate a conclusione dal suo parente Giacomo.
Era stato certamente il L., invece, ancora capo del Consiglio dei dieci, a istruire il processo (giugno 1457) contro la "congiura" di trentasette patrizi che si sarebbero accordati fra loro per favorirsi reciprocamente nelle ballottazioni del Maggior Consiglio e del Senato; a tale scopo qualche giorno prima, il 28 maggio, i Dieci ne sollecitavano il ritorno a Venezia, da dove si era momentaneamente allontanato, per poi recarsi a Treviso a interrogare il podestà Alvise Baffo in merito al comportamento del figlio Lorenzo, di Francesco Bon di Alvise, Andrea Corner di Giorgio, Francesco Canal di Cristoforo, Alvise Lombardo di Bartolomeo e Bartolomeo Pisani di Pietro, quest'ultimo ricercato "per detestabili eccessi"; quasi tutti finirono poi condannati all'esilio. Terminata la sua permanenza tra i Dieci, il L. fu eletto senatore (1° ott. 1457 - 30 sett. 1458) e savio sopra le Camere (tale risulta essere il 27 sett. 1458); poi, a testimonianza del prestigio conseguito, il 1° ott. 1458 entrava nuovamente a far parte del Consiglio dei dieci, di cui fu capo nel dicembre 1458 e nel marzo 1459.
Un'ulteriore conferma dell'ascesa politica (ed economica) del L. ci viene offerta dalla sua presenza fra i procuratori del ricco ospedale dei Ss. Giovanni e Paolo (6 marzo 1459); il 24 giugno fu eletto consigliere ducale per il sestiere di Cannaregio, ma la nomina venne cassata per essersi egli trasferito da qualche mese alla Giudecca, nel sestiere di Dorsoduro, sicché al suo posto subentrò il cugino Lorenzo di Daniele. Da S. Canciano, dunque, il L. aveva portato la sua residenza alla Giudecca, esattamente come aveva fatto, qualche anno prima, Alvise Loredan di Giovanni: la qual cosa può forse suggerire l'ipotesi di un perdurante legame fra i diversi nuclei della famiglia, un tempo riuniti tutti nella contrada di S. Canciano, a Cannaregio.
A riprova, il 30 giugno 1459 il L., che le fonti d'ora in avanti definiscono "maior", entrò a far parte dei savi del Consiglio per tre mesi, e alla scadenza del mandato, il 3 ottobre, gli subentrò Giacomo Loredan, con cui in questo torno di anni il L. si alternò più volte nel Collegio. Appunto come savio del Consiglio, il 28 luglio 1459 proponeva di convocare per l'indomani il Senato, onde deliberare sull'invio di ambasciatori alla Dieta di Mantova, che avrebbe dovuto realizzare una lega di principi cristiani in funzione antiturca. Era Pio II l'anima dell'iniziativa, poiché dopo la caduta di Costantinopoli l'Europa sembrava assistere senza reagire alla progressiva espansione degli Ottomani nell'Egeo e nei Balcani, dove il solo Scanderbeg (Giorgio Castriota) sapeva opporre una eroica ma insufficiente resistenza; il Senato, però, era diviso: in molti, infatti, era forte il timore di ritrovarsi a combattere contro il potente nemico senza un concreto comune apporto, come altre volte era avvenuto. Al termine del dibattito, si decise di inviare a Mantova due legati, che vennero scelti nelle persone del cavaliere Orsotto Giustinian e del dottore Ludovico Foscarini; le commissioni, però, tardavano a essere rilasciate dal Senato, per cui, di fronte alle proteste della S. Sede, il 3 settembre il L., con il collega Matteo Vitturi e il savio di Terraferma Paolo Morosini, riuscì a far votare la data di partenza, che venne fissata il 15 settembre.
Non sono note le ragioni di questa presa di posizione del L., non sappiamo cioè se si trattasse semplicemente di un atteggiamento filopontificio oppure della volontà di opporsi risolutamente a Maometto II; si può tuttavia rilevare che il L., nel corso della prossima lunga guerra sostenuta dalla sola Repubblica contro la Porta (1463-79), non ricoprì alcun incarico nell'Armata marittima, come invece sarebbe toccato ai suoi parenti Alvise, Antonio e Giacomo, mentre il 5 marzo 1460, assumendo una volta ancora le funzioni di capo del Consiglio dei dieci, faceva cassare un provvedimento del Senato in materia di benefici, lesivo degli interessi del cardinale Pietro Barbo, vescovo di Padova e futuro papa Paolo II.
Il 1° ott. 1459 il L. entrava di nuovo a far parte del Consiglio dei dieci, di cui fu capo per il mese di dicembre e nel marzo 1460; a fine anno fu eletto avogador di Comun, e poi fu tra i 41 elettori che il 12 maggio 1462 scelsero il nuovo doge nella figura di Cristoforo Moro, di età molto avanzata ma - perlomeno negli interventi verbali - deciso fautore della "crociata" antiottomana strenuamente propugnata da Pio II.
Sennonché, quando l'anno dopo Venezia entrò davvero in guerra contro la Porta, il Moro cercò in tutti i modi di evitare qualsiasi coinvolgimento diretto (ma dovette recarsi a incontrare il papa ad Ancona, nell'agosto 1464) e il L., come si è detto, non vi ebbe la più piccola parte. I suoi ultimi anni li trascorse a Venezia, continuando a ricoprire cariche prestigiose nell'ambito della Signoria, ma non centrali riguardo alla politica estera del governo, dal momento che il suo nome non compare più tra i savi del Collegio.
Fu così nuovamente consigliere ducale dall'ottobre 1466 al settembre 1467, quindi avogador di Comun nel 1468, tra i Cinque correttori della promissione ducale nell'elezione del doge Nicolò Tron nel novembre del 1471, tra i 41 elettori del doge Nicolò Marcello il 13 ag. 1473; poi, il 28 ott. 1474, risultò eletto procuratore di S. Marco de ultra.
I meriti del L., a cercarli, si trovano soprattutto nella lunga azione di "polizia politica" esercitata fra i Dieci: un operare, questo, silenzioso e oscuro, certo importante e delicato, ma non di tale rilievo da motivare un così grande onore, specie in considerazione del fatto che allora, a Venezia, non mancavano cospicue emergenze; pertanto non è da escludere l'ipotesi che con questa nomina il Maggior Consiglio abbia inteso premiare la famiglia Loredan nel suo complesso, per le grandi benemerenze acquisite al servizio della patria nell'Armata marittima, non meno che con la tenace opposizione alla prevaricante condotta pubblica e privata dei Foscari, resa ancor più evidente dalla specchiata onestà e modestia economica di gran parte dei Loredan. Il ramo di S. Canciano, infatti, aveva goduto della dignità procuratoria con Pietro, Alvise e Giacomo; rispetto a questi il L. era soltanto un parente non troppo vicino, ma la sua elezione avrebbe rappresentato un anello nella catena di congiunzione che, nel 1478, avrebbe portato alla Procuratia il nipote del grande Pietro, Antonio di Giacomo Loredan. A conferma di ciò, il ruolo del L. fu, come doveva essere, puramente simbolico; egli infatti non aveva discendenza e poco dopo rinunciò alla Procuratia; così Priuli: "E carico di anni, finalmente, come libero da ambizione, goduta la Procuratia non più di cinque mesi, la rifiutò et morì poco dopo con nome di illustre e di valoroso capitano e senatore".
Morì a Venezia nel 1475, nel sestiere di Cannaregio dove era tornato a risiedere, probabilmente nell'avita parrocchia di S. Canciano.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, IV, pp. 319, 343; Avogaria di Comun, Prove di età per patroni di galera e altre cariche, reg. 177, c. 58v; Segretario alle Voci, Misti, regg. 5, c. 19v; 6, c. 87; 14, cc. 99r, 106r, 130r; Collegio, Notatorio, regg. 9, cc. 18r, 21r, 152r, 161r, 173v, 176r; 10, c. 159v; 11, c. 1r; Consiglio dei dieci, Misti, regg. 13, c. 2v; 14, cc. 99r, 106r, 130r; 15, cc. 10r, 108r, 124v-125r, 136r, 160r, 189v, 193r, 197r; Senato, Deliberazioni, Secreta, regg. 14, c. 138v; 17, cc. 139v-140v; 19, c. 55v; 20, cc. 109r, 177v, 187r; Senato, Terra, reg. 4, c. 112r; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 3782: G. Priuli, Li pretiosi frutti del Maggior Consiglio, II, c. 150r; M. Sanuto, Le vite dei dogi a cura di A. Caracciolo Aricò, 1423-1457, Venezia 1999, pp. 240 s., 290, 292, 329, 429, 528, 627; M.A. Sabellico, Historiae rerum Venetarum…, in Degl'istorici delle cose veneziane…, I, Venezia 1718, p. 668; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, II, Venezia 1754, p. 106; G.B. Picotti, La Dieta di Mantova e la politica de' Veneziani, Venezia 1912, pp. 151-153, 161 s., 270, 301, 355, 410 s., 418, 425-429, 488, 495 s.
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