EMO, Giorgio
Nacque a Venezia il 15 dic. 1450 da Giovanni di Giorgio e dalla sua prima moglie, Chiara Priuli di Giacomo, sposata nel 1448.
Il padre fu una delle figure più rappresentative della famiglia che illustrò con una brillante carriera politica in una Venezia all'apice della sua potenza. Ricopri infatti molti incarichi di prestigio nelle più alte magistrature marciane, nel governo della Terraferma e nella diplomazia. Dopo la morte della prima moglie si era risposato, nel 1457, con Elisabetta di Giovanni Molin che gli diede altri quattro figli maschi, Bertucci, Pietro, Gabriele, Leonardo, e un numero imprecisato di figlie. Mori nel 1485 mentre partecipava alla guerra di Ferrara in qualità di provveditore in campo.
L'E. ebbe il battesimo politico il 21 nov. 1469, grazie all'estrazione della balla d'oro che permetteva ai patrizi tra i diciotto ed i vent'anni di anticipare il loro ingresso nel Maggior Consiglio. Debuttò nella carriera politica - stando ai dati disponibili - solo nel 1488, in un ufficio di carattere tributario, i Cinque savi in Rialto. Più tardi, nel 1492, fu provveditore sopra le Acque. Ma fu nel 1494, allorché entrò in Senato nel numero della zonta, che l'E. operò quel salto di qualità che lo avrebbe portato a far parte, per circa un trentennio, della cerchia di patrizi che contavano. Era l'anno della discesa di Carlo VIII che veniva a conquistare Napoli. L'E. fu tra coloro che vedevano con favore questa venuta perché avrebbe favorito la politica di egemonia che Venezia andava perseguendo, in particolare nei tre poli di Romagna, Puglia e Pisa. In questo frangente egli ricevette l'incarico di svolgere una delicata missione diplomatico-militare a Rimini, il cui signore, Pandolfo V Malatesta, vistosi in pericolo, aveva chiesto aiuto a Venezia. L'E. vi giunse il 14 agosto e vi restò per tre mesi, operando con zelo ed energia per consolidare la presenza veneziana in quel delicato settore.
L'anno seguente fu designato dal Senato a consegnare al marchese di Mantova, Francesco II Gonzaga, le insegne di comandante delle truppe venete: la prima di una serie di missioni al Gonzaga affidate all'E., che sarà poi uno degli interlocutori della Repubblica negli avvenimenti seguiti alla prigionia di lui.
A dimostrazione della stima ormai conquistata, nell'ottobre del 1496 l'E. fu scelto per sostituire Marco Dandolo. che aveva espresso il desiderio di essere rimpatriato, nell'incarico di ambasciatore presso Ludovico il Moro. Ma egli rifiutò, tra la sorpresa e il malumore dei senatori. Un atto, quello dei rifiuto, che l'E. ripeterà altre volte nel corso della carriera, adottando un atteggiamento tutt'altro che infrequente tra i membri del patriziato, specie di quelli più in vista e che la minaccia di pene severe non riuscirà a eliminare.Nel dicembre dello stesso anno l'E. entrò in Senato e nel 1497 fu inviato per la seconda volta presso Pandolfo Malatesta, nuovamente in difficoltà. Mentre nubi sempre più minacciose si addensavano sull'orizzonte internazionale e si profilavano per Venezia momenti difficili, l'E., ormai cinquantenne, sedeva da qualche anno in permanenza al Senato, sia come ordinario sia in zonta, riconosciuto come una delle personalità più dotate. A rafforzare la sua posizione aveva contribuito anche il legame di parentela con la potente famiglia dei Loredan, conseguito mediante il matrimonio contratto nel 1483 con Lucieta, figlia di Antonio.
Nel settembre del 1498 l'E. fu incaricato di occuparsi delle artiglierie del marchese di Mantova e della organizzazione degli aiuti alla Repubblica di Pisa. L'anno dopo il suo nome apparve con significativa frequenza in diversi ballottaggi per incarichi in Terraferma che, sebbene non coronati da successo, gli procurarono certamente prestigio. Fu infatti secondo, dietro Piero Marcello, nel ballottaggio per la nomina di provveditore in campo in Lombardia. Nel 1500 entrò in Collegio come savio di Terraferma e sfiorò, nel medesimo anno, le nomine, rispettivamente, di provveditore in campo e di esecutore alle cose da Mar. La minaccia ottomana e le pressioni asburgiche ai confini settentrionali avevano indotto la Serenissima ad accostarsi alla Francia e l'E. fu incaricato, con Domenico Bollani e Paolo Barbo, di perfezionare gli accordi di alleanza con i membri della delegazione francese nel frattempo giunta a Venezia.
Quando però il Senato lo onorò eleggendolo ambasciatore presso il re Cristianissimo, l'E. oppose un rifiuto, adducendo motivi di salute, e lo stesso fece quando di li a poco fu nominato ambasciatore presso Massimiliano d'Asburgo e le corti di Ungheria e Polonia. E diverse altre volte, nel corso del 1501, fu scelto per varie sedi diplomatiche - per tre volte solo in Francia - e tutte le rifiutò.
Oltre ai soliti motivi di salute l'E. aveva potuto opporre anche il fatto di detenere la carica di savio alle Acque, una magistratura nuova, istituita per iniziativa del Consiglio dei dieci proprio in quell'anno. I suoi membri, in numero di tre, stavano in carica due anni, durante i quali non potevano essere eletti né provveditori né ambasciatori né a cariche di Collegio. Un "nuovo modo - commenta il Sanuto - a salvar alcuni che non volevano andar oratori" (IV, col. 90).
In quest'ufficio l'E. rimase per due anni occupandosi in particolare delle arginature dei fiumi e del sistema idrico che gravitava sulla laguna, di preminente interesse strategico per Venezia. Ma in questa magistratura si cominciò anche a parlare della riedificazione in pietra del ponte di Rialto, una questione complessa e lunga, alla quale si pose mano in modo più articolato qualche anno dopo, nel 1507, quando l'E. stesso, nuovamente savio alle Acque, partecipò direttamente alla discussione ed elaborazione di vari progetti.
Nel 1503 i rapporti tra Venezia e la Sede apostolica si erano fatti più tesi in conseguenza delle conquiste di Cesare Borgia che minacciavano gli interessi veneziani in Romagna. L'E., savio di Terraferma, guidava l'ala più intransigente del patriziato, schierato su posizioni di fermezza che proclamava in ripetuti interventi in Senato, dimostrandosi -annota il Sanuto - "molto caldo in voler acquistar i lochi del Valentino" (V, col. 66). Allo stesso tempo cercava di convincere i colleghi a porre maggiore attenzione alla Spagna e a Massimiliano e alle loro proposte di alleanza.
Il trattato di Blois, che aveva unito in alleanza Venezia e la Francia, aveva avuto nelle intenzioni del Senato un carattere strumentale; obbediva cioè al disegno di sfruttare i Transalpini per continuare una politica di equilibrio e di supremazia nella penisola. Cosi era stato, ma l'apparire del Valentino che aveva trovato appoggi in Francia e le sue pericolose puntate verso la pianura padana avevano dato maggiore forza alle argomentazioni di coloro che, come l'E., erano stati tiepidi nei confronti di quella alleanza e chiedevano anzi un immediato intervento. La Signoria infatti rinforzò il dispositivo militare della Serenissima a Ravenna, approfittando della morte di papa Alessandro VI.
L'E., che aveva caldeggiato un intervento, rifiutò l'elezione a provveditore in campo per le operazioni in Romagna, forte del fatto di ricoprire ancora una volta la carica di savio alle Acque. Preferiva restare a Venezia a premere per una politica "gaiarda" e "grave" nei confronti del pontefice e a continuare negli sforzi per spostare il Senato su una politica più disponibile verso la Spagna, convinto com'era che bisognava impedire un avvicinamento tra questa e la Francia. Nel luglio del 1507 fu chiamato a far parte di una commissione di riformatori delle Decime.
Un incarico delicato e assai importante perché la Repubblica, sempre più bisognosa di denaro, aveva la necessità di poter contare su un maggior e sicuro gettito di imposte. La commissione suggeri subito di rifare i catastici, di imporre nuove esazioni tributarie con dei termini di tempo meno aleatori di pagamento e una generale razionalizzazione del sistema. Ma le proposte presentate colpivano troppi interessi, che si coagularono per rallentare i lavori della commissione, prima, e per ridimensionarne le proposte più radicali, in un secondo momento.
Nel novembre dello stesso anno l'E. fu nominato provveditore generale con il compito di recarsi a Verona e in Trentino per dirigere le operazioni militari resesi necessarie per le offensive lanciate da Massimiliano d'Asburgo. Aveva al suo fianco il capitano generale Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, militare abile ma incline alla prudenza anche quando un atteggiamento più gagliardo sarebbe stato necessario. Era invece più offensivo lo spirito dell'E., il quale, con l'andar del tempo, si trovò ad affrontare resistenze da parte di colleghi rettori delle città vicine e un sostegno sempre più incerto del suo stesso governo.
Il suo disagio crebbe quando, a partire dal febbraio del 1508, gli furono messi a fianco altri due provveditori, Giorgio Corner e Andrea Gritti, tanto che, dopo una serie di lamentele fece richiesta di essere rimpatriato. Aveva nel frattempo continuato ad espletare con alacrità ed energia la sua missione fino alla fine. "Se ha portato da Cesaro in tutta questa impresa - scrisse il suo segretario in una lettera riportata dal Sanuto (VII, col. 451) - sempre con le arme indosso, andando ad ogni pericolo".
Tornò a casa in giugno e illustrò ampiamente al Senato la sua missione con tecnico distacco. In privato però lamentava l'ingratitudine per la sua opera e le sue benemerenze e si diceva convinto di essere stato allontanato dal suo incarico per motivi politici. Tornò al Collegio alle Acque e successivamente entrò in Collegio come savio del Consiglio. Riprese cosi la sua battaglia per difendere la presenza veneziana nei territori di Romagna, territori che papa Giulio II sempre più insistentemente richiedeva. Lo fece con la consueta determinazione e riusci ad orientare in questo senso la politica veneziana tanto da portare ad una rottura con il pontefice.
Nel dicembre del 1508 fu stipulata la Lega di Cambrai, e per Venezia ciò significò l'isolamento. Dopo la battaglia di Agnadello da più parti echeggiarono duri rimproveri alla classe dirigente ritenuta responsabile della sconfitta; ad essa inoltre si addebitava una politica di arroganza e presunzione. Tra gli accusati anche l'E., considerato uno degli uomini più potenti dello Stato e ispiratore della sua condotta intransigente.
Gerolamo Priuli riporta, mostrando di darvi credito, le opinioni che volevano l'E. contrario alla restituzione delle terre di Romagna al papa perché sarebbe esistita un'alleanza tra lui e i patrizi della Quarantia, i quali, "per esser poveri et disiderosi de offitii et magistratti", non volevano restituire le città romagnole. Si diceva anche che l'E. "volentieri aceptava presenti et ahora in simil materia hera imputato che per chagione de brogij zoè honori non havea voluto consentire il restituire de le citade de la Romagna al pontefice perché li nobeli veneti desiderosi e cupidi di stado favorizavano et volevano quelli che desideravano augumentare il stado".
Gli strali del diarista e dei conservatori erano diretti in particolare contro i patrizi filofrancesi. L'E. non apparteneva al gruppo dei filofrancesi, era per educazione e inclinazione un patrizio del Quattrocento, incline al pragmatismo e alle scelte di alleanza che di volta in volta apparivano più vantaggiose per Venezia e la sua potenza. Nei giorni amari di Agnadello, nominato provveditore in Romagna, rifiutò ancora una volta l'incarico, ufficialmente perché sedeva nel Collegio alle Acque, in realtà perché l'incarico sarebbe stato pericoloso e pieno di incognite. Il rifiuto, opposto in un momento cosi grave, gli attirò la riprovazione generale, ma l'E. preferiva restare a Venezia ove si prendevano le decisioni.
Negli anni che vanno dal 1509 al 1517 i Più duri per la Serenissima in lotta per la sopravvivenza e per il recupero della sua Terraferma, le scelte politiche dell'E. furono quindi quanto mai oscillanti, orientate ora all'alleanza con i Francesi ora con la Spagna; ora suggeriva la linea morbida col pontefice ora chiedeva intransigenza. Ed in presenza di rapidi e mutevoli cambiamenti delle stesse potenze maggiori, le prese di posizione dell'E. seguirono il medesimo percorso. Con due eccezioni: una certa diffidenza verso la Francia, anche quando ne caldeggiava un'occasionale alleanza e l'intransigenza verso la questione romagnola.
Cosi subito dopo Agnadello, come savio del Consiglio, l'E. sostenne la necessità di avvicinarsi alla Francia perché, parendogli la potenza più pericolosa, era opportuno staccarla dall'alleanza antiveneziana per indebolirla maggiormente. In questo frangente lasciò momentaneamente Venezia per recarsi a Padova. assediata dalle truppe imperiali, e organizzarne, come provveditore, la difesa. Non fu un'esperienza positiva; il suo comportamento fu biasimato e per qualche tempo l'E. subi una sorta di quarantena che lo tenne lontano dalle cariche di governo più importanti. Nel gennaio del 1510 vi rientrò come savio del Consiglio. Si profilò la possibilità di stabilire delle trattative con Massimiliano che occupava buona parte della Terraferma veneta e l'E. si mostrò subito favorevole a cogliere l'occasione anche se le possibilità di successo non apparivano vicine.
Per ammorbidire la posizione di Massimiliano, l'E. si pronunciò a favore di un'alleanza con la Spagna e il pontefice, che fu effettivamente perfezionata nell'ottobre del 1511. Era necessario comunque proseguire le trattative con l'imperatore, affermava, e offrirgli anche grosse somme di danaro per recuperare al più presto la Terraferma, non solo, ma "far lega con lui, contra Franza" (Sanuto, XII, col. 304), perché era lui la chiave di tutto.
Nella primavera del 1512 l'E. sfiorò l'elezione a provveditore in campo che non avvenne solo per la mancanza del quorum necessario. Era il momento nel quale, sconfitti i Francesi a Ravenna, la Repubblica aveva intrapreso un'offensiva puntando sul Bresciano. Allontanatasi la possibilità di un accordo con l'imperatore, Venezia dovette giocare altre carte e fu proprio l'E. a caldeggiare una nuova alleanza con il re di Francia. Si rinnovò, dunque, a Blois nel marzo 1513 l'intesa militare che Venezia si accinse ad onorare con nuove forze. L'E. rifiutò l'incarico di provveditore generale per le operazioni sull'Adige per motivi di salute. Ma non accettò, in realtà, perché non aveva dimenticato il trattamento subito in occasione della precedente campagna in Trentino. Di li a poco il Senato lo inseri nella delegazione della Serenissima che avrebbe dovuto recarsi a rendere omaggio al neoeletto pontefice Leone X, nonostante l'E. si fosse opposto all'invio di una ambasceria in quel momento. Nel giugno stesso fu eletto provveditore a Treviso, e il suo nome comparve anche nella rosa dei nuovi procuratori di S. Marco che avrebbero dovuto essere eletti allora. Continuava nel frattempo a capeggiare i patrizi che, nonostante l'alleanza con la Francia in atto, sostenevano la necessità di continuare a tenere aperte le trattative con Massimiliano. E nel corso del 1514, quando il dialogo con l'imperatore ristagnava e la Francia mostrava di non voler intervenire in Italia, l'E. non esitò a porsi tra coloro che erano disposti a chiedere l'aiuto dei Turchi, perché - riferisce il Sanuto (XVII, col. 535) - dicevano "non è altra redemption alle cose nostre che ligarse con Turchi e farli passar in Italia". Ma ecco che nel 1515, allorché Francesco I, appena salito al trono, mostrò l'intenzione di scendere in Italia, anche l'E. si levò a chiedere che senza indugi si approfittasse dell'occasione e ci si armasse.
Non per questo egli sposò la causa del partito filofrancese, anzi, si accentuava la sua polemica con Andrea Gritti, in particolare sulla organizzazione dell'intervento bellico e sulla scelta dei responsabili operativi. Gritti voleva che a Bartolomeo d'Alviano, il comandante generale delle truppe venete, si affiancasse un provveditore che ne controbilanciasse le decisioni; l'E., al contrario, legato tra l'altro d'intima amicizia con il condottiero, riteneva che la misura avrebbe minato l'autorità del capitano generale compromettendo, a suo giudizio, l'azione militare veneta nel suo complesso. Lo scontro, contrappuntato da scambi polemici tra i due, sorti l'effetto della nomina a provveditore in campo dell'E. medesimo. il quale accettò con entusiasmo e questa volta "senza rispeto - riferisce Sanuto - et vol andar al presente, licet più volte l'habi refudato" (Sanuto, XX, col. 504).
La missione incominciò sotto buoni auspici: adeguati i finanziamenti, buono l'affiatamento tra i comandanti veneti, buoni i rapporti con i Francesi. La vittoria di Marignano premiò la tattica offensiva perseguita dall'E. e da Bartolomeo d'Alviano e procurò al provveditore in campo le lodi del Senato e un personale attestato di stima da parte del re Francesco I. Nell'ottobre del 1515 mori l'Alviano e l'E. assunse temporaneamente anche la funzione di capitano generale, dirigendo le operazioni, che, dopo la vittoria campale, si erano indirizzate alla riconquista di Brescia.
Proprio allora iniziarono per l'E. le difficoltà: il meccanismo militare prese ad incepparsi, sorsero difficoltà di ordine finanziario, il re di Francia manifestò l'intenzione di tornare in patria lasciando un contingente militare che aveva l'ordine di non impegnarsi troppo. La cosa più grave per il provveditore generale fu però la divergenza con il collega Domenico Morosini e la crescente ostilità di una parte del Senato, in seno al quale si levarono voci assai critiche contro di lui. L'E., approfittando di un peggioramento delle sue condizioni di salute, chiese di essere sollevato dall'incarico.
Quando tornò, in novembre, e riferi in Senato sulla sua missione, tenne un atteggiamento distaccato - riferisce nei diari Marcantonio Michiel (Diari, c. 208v) - parlando poco di sé e dissimulando il fatto di essere stato in realtà rimosso. L'episodio però non ebbe ripercussioni sul suo cursus honorum che si arricchi di un altro prestigioso titolo. L'anno seguente, il 20 maggio 1516, l'E. divenne procuratore di S. Marco de citra. Aveva dovuto sborsare 12.000 ducati, parte donati e parte sotto forma di prestito. A sessantasei anni arrivava cosi al culmine di una carriera densa e tormentata che lo aveva visto protagonista di uno dei momenti più difficili della Repubblica. Il momento peggiore era passato e Venezia si avviava lentamente a riconquistare il terreno perduto. Ora l'E. ancora fresco di nomina fu investito dallo scandalo della incriminazione per peculato del figlio Giovanni.
Tutti furono indignati, ricorda Sanuto, e pochi amici si provarono a difenderlo. La posizione dell'accusato era aggravata dalla situazione di difficoltà che la Repubblica attraversava e dalla sua cattiva fama. Si diceva che avesse in varie occasioni agito disinvoltamente per farsi largo in politica. Il Michiel (Diari, c. 182v) riferisce che l'anno prima era stato eletto camerlengo, lui trentenne, mentre "andorno giuso molti vecchi et grossi perché d. Zuan Emo havea proviso di danari infiniti zentilhomeni, con gran mormorarsi de li homeni da ben". L'intransigenza degli avogadori nei suoi confronti aveva il sostegno di coloro che, mostrandosi inflessibili nei confronti del figlio, intendevano colpire anche il padre del quale da molto si parlava come di un uomo avido. Specialmente dopo Agnadello, quando si vide nell'abbassamento del livello morale dello Stato la causa della sconfitta. Priuli, che già aveva riportato altre accuse contro di lui, scrive che "si sparlava a bocca aperta e senza il minimo riguardo dal volgo e da tutti che ser Zorzi Emo non solo accettava denari e regali ed era facile alla corruzione ma se ne procurava avidamente".
L'E. fece di tutto per strappare il figlio dalla condanna all'esilio (questi comunque non aveva aspettato la sentenza per darsi alla latitanza nel Ravennate) che gli era stata comminata e soprattutto all'infamante prassi della lettura del suo nome alla apertura delle sedute del Maggior Consiglio a ogni primo dell'anno. A nulla valsero le pressioni, le amicizie, le offerte di risarcimento e persino la rinuncia alla carica di procuratore di S. Marco. Allora l'E. sembrò piegarsi sotto il colpo.
Aveva diradato le sue apparizioni alle sedute dei Consigli e degli organi di governo di cui faceva parte e se ne andava in giro - annota Sanuto - "vestito di negro et con barba". Quando poi interveniva e prendeva la parola finiva sempre con il parlare del figlio per perorarne la liberazione. Suscitava spesso la compassione ma non il sentimento di indulgenza. Un'indulgenza che aveva una tenace avversaria nella avogaria di Comun, impegnata per questo caso in un braccio di ferro con il Consiglio dei dieci i cui membri, tra i quali erano molti amici dell'E., sarebbero stati disposti ad accettare le offerte di risarcimento. Maggiori possibilità sembrarono profilarsi per la liberazione del figlio quando divenne doge Antonio Grimani, che l'E. aveva contribuito ad eleggere, e quando molti senatori si convinsero che alcune migliaia di ducati nelle casse esauste dello Stato erano preferibili alla intransigente difesa di principi sostenuta dagli avogadori. Ma anche allora non se ne fece nulla; e l'E. finirà i suoi giorni senza aver visto la fine dell'esilio del figlio che avvenne nel 1523.
Nonostante i problemi famigliari, l'E. riprese l'attività politica inserendosi pienamente nel dibattito sulla strategia di alleanze che Venezia si trovava a dover definire proprio nel momento in cui, superato l'estremo pericolo, si avviava al recupero quasi totale della sua Terraferma. Agli inizi del 1517 il proseguimento delle tregue con Massimiliano I fruttò il ritorno di Verona alla Serenissima. L'E., che di una politica di attenzione nei confronti degli Asburgo era stato tenace sostenitore, continuò ad osteggiare proposte e scelte che venivano dal "partito" francese con rinnovato vigore. Quando prendeva la parola era per mettere in guardia i senatori sulle scarse possibilità per il re di Francia di aiutare veramente la Repubblica; e sempre più spesso i suoi interventi contenevano pressanti richiami alla pace e alla necessità di salvaguardarla, anche mediante una politica di rinuncia alle alleanze militari con questa o quella potenza e viceversa con l'attenzione rinnovata al principio di equilibrio che evitasse di farsi dei nemici ma anche degli amici troppo esigenti. Solo quando si toccava la questione adriatica e la Romagna i suoi discorsi si caricavano della vecchia intransigenza.
Nel 1519 allorché, morto Massimiliano, si accese la lotta per la sua successione tra Francesco I e Carlo di Asburgo, Venezia, sollecitata di appoggio da entrambi i candidati, non si sbilanciò. E l'E. condivise questo atteggiamento di equidistanza, ma avvertendo anche che qualcosa era cambiato e che la Spagna aveva preso il sopravvento sulla Francia: la Spagna quindi era divenuta l'interlocutrice più importante per il recupero integrale della Terraferma. Tanto più che il nuovo imperatore Carlo V aveva dato segni di voler un accomodamento con la Serenissima. Questo e una politica di neutralità furono i punti di forza delle proposte politiche dell'E.: "non è da intricarsi" - ammoniva ogniqualvolta si profilava l'intenzione di far una guerra o la temperatura internazionale si riscaldava - "e si metemo in una nuova guera"; oppure che "questo è un principiar la guerra e non fa per nui", e simili. Si mostrava favorevole a coinvolgere altre nazioni nelle faccende italiane per evitare un duopolio Francia-Spagna, come nel caso di un'intesa con l'Inghilterra, ma criticava con decisione qualunque alleanza che potesse portare ad un conflitto armato. Cosi, quando a Venezia fu offerto, nell'aprile 1519, di aderire ad una lega antiturca, si dichiarò contrario dicendo che ne sarebbero venuti solo guai, spese ingenti e danni gravi ai commerci in Levante. E mostrava di non farsi convincere da chi, come Paolo Cappello, faceva rilevare che la Repubblica sarebbe rimasta isolata e che in fondo si sarebbe trattato di un'adesione poco più che formale.
Nel lungo dibattito che si accese in Senato circa l'atteggiamento da tenere con il neoeletto imperatore l'E. si pronunciò per una scelta chiara che tenesse conto dei cambiamenti: "per esser mudà el mondo e fato el re Catolico imperador, e di gran re che l'era è fato grandissimo; per il che - aggiungeva - daria bon captar benevolentia con lo scriverli una letera gratulatoria e far de nomination di oratori e congratularsi de la eletio"; e si dovevano tralasciare, concludeva, le vecchie pendenze o i problemi secondari e guardare avanti (Sanuto, XXVII, col. 455). Qualche tempo dopo, tuttavia, quasi a correggere una posizione troppo filoasburgica, l'E. consigliava prudenza nei confronti dello stesso Carlo V sulla questione delle investiture imperiali sulla Terraferma veneta.
La salute dell'E. si andava nel frattempo sempre più guastando per colpa della gotta che lo aveva colpito da diversi anni. A partire dal 1520 si fece vedere sempre meno agli appuntamenti di governo, e l'angoscia per il dramma dei figlio, cui si era aggiunta la morte repentina della nuora, ne affrettò la fine. All'alba del 10 nov. 1521 venne annunciata la sua morte, avvenuta nella sua casa di S. Marina. Dopo solenni funerali fu sepolto nella chiesa di S. Maria dei Servi, nell'arca di famiglia. Nel testamento lasciò tutti i suoi beni, che dovevano essere cospicui, ai nipoti, invece che al figlio Giovanni, per evitare che lo Stato se ne impadronisse a titolo di risarcimento. Cosa che effettivamente lo Stato tentò di fare.
Il cursus honorum dell'E. fu denso e prestigioso, e dal 1494illustrato dalle cariche più importanti di governo. Senatore nel 1494, appunto, lo fu nuovamente nel 1495, 1496, 1498 e 1499. Fu chiamato in zonta del Senato tredici volte, tra il 1499 ed il 1515. Quasi ogni anno, poi, tra il iSog ed il 1515 fu savio del Consiglio e per otto volte di Terraferma, tra.11 1500 e il 1511. Fu anche consigliere per il sestiere di Castello nel 1510 e nel 1512, e savio aggiunto in Collegio nel 1510 e 1511. Altrettanto numerose furono le presenze nel Consiglio dei dieci: quattro volte come capo, tra il 1504 e il 1507, e più volte all'anno, tra il 1505 e il 154, come consigliere o aggiunto. Eletto savio alle Acque per la prima volta nel 1501, vi ritornò più volte tra il 1503 e il 1508, in qualità sia di savio sia di membro del relativo Collegio. Ebbe in determinati momenti incarichi particolari: riformatore alle Decime nel 1507 e sopra la provision de l'Arsenal nel 1509. Fu per due volte provveditore in campo, nel 1507 e nel 1515. Molti incarichi, come s'è detto, li evitò o li rifiutò, specie quelli militari o diplomatici.
Fu anche protagonista di due episodi legati alla politica dell'immagine che proprio in quegli anni la Serenissima veniva illustrando con opere di edilizia civile e religiosa di rilevante importanza. Il primo riguardò la chiesa di Ss. Giovanni e Paolo, di cui era procuratore. Presiedette infatti alla trasformazione di questo tempio domenicano, per usare le parole di Tafuri (pp. 33-34), in pantheon dedicato agli eroi della guerra cambraica. Furono erette vetrate con le raffigurazioni dei santi guerrieri Giorgio e Teodoro ed erette, tra il 1510 e il 1515, le arche sepolcrali dei più importanti condottieri morti al servizio della Repubblica, tra cui spicca quello di Niccolò Orsini conte di Pitigliano. Ancor più significativo il secondo: nel 1515 fu uno dei presentatori della proposta di costruire in piazzetta S.Marco l'attuale Biblioteca marciana, proposta che difese con calore contro i numerosi oppositori.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun. Matrimoni con notizie dei figli, schedario, ad vocem; Segretario alle Voci. Misti, reg. 6, c. 119; reg. 7, c. 28; reg. 9, cc. 7, 8v, 11 s., 15 s., 20v, 22v, 24; Savi ed Esecutori alle Acque, reg. 330, passim; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere rettori, b. 297bis, anno 1507; Miscellanea codici, I, St. veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori del patritii…, III, c. 398; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. Cicogna, 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, II, c. 2; Mss. Cicogna, 2848: M. A. Michiel, Diari 1511-1520, particolarmente cc. 129, 153, 159, 166, 182v, 185, 188, 207 s., 236, 240 s., 250 ss., 270 s., 278; Mss. P. D., 252c: G. Priuli, Diari, IV, cc. 49, 93; Ibid., Bibl. naz. Marciana, Mss. ital., cl. VII, 813 (8892): Consegi, cc. 37, 65, 88, 102, 109 s., 154, 178, 183, 186, 210, 218; 814 (8893): Consegi, cc. 48, 57, 79, 87, 89, 112, 120, 122, 129, 160, 192, 200, 202, 257, 288 s., 301, 309, 318, 324, 328, 334; 815 (8894): Consegi, cc. 21, 36, 131, 177, 212, 222, 238, 252, 286 s., 290, 294; 816 (8895): Consegi, cc. 8, 16, 29, 46, 93, 107, 118, 136, 165, 186, 242, 259; 817 (8896): Consegi, c. 10; Mss. It., cl. VII, cod. 328 (8513): A. Ziliol, Cronaca, cc. 156 s.; cod. 615 (8471): Istoria e serie de procuratori di S. Marco e dei cancellieri grandi fino al 1723, c. 70. Particolarmente importante e denso di informazioni circa la vita privata e la carriera dell'E. è M. Sanuto, Diari, I-XXXII, Venezia 1879-1902, ad Indices; Id., De origine situ et magistratibus…, a cura di A. Caracciolo Aricò (glossario a cura di P. Zolli), Milano 1980, pp. 51, 211; Id., La spedizione di Carlo VIII in Italia, a cura di R. Fulin, Venezia 1873, pp. 63-68, 370, 524, 552 s., 561, 564; P. Bembo, Istorie veneziane, in Degl'istorici delle cose veneziane, II, Venezia 1718, pp. 44, 240, 285; P. Paruta, Istorie veneziane, ibid., III, ibid. 1718, pp. 220 s.; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane…I; ibid. 1824, p. 72 ss., 165, 356; III, ibid. 1830, p. 376; IV, ibid. 1834, p. 448; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, ibid. 1856, pp. 131, 134, 148, 186; D. Malipiero, Annali veneti dal 1457 al 1500, a cura di F. Longo, in Arch. stor. ital., VII (1843-44), 1, p. 477; A. Cappellari, Notizie sulla famiglia (Nozze Emo Capodilista-De Zugno), Venezia 1848; P. Zanetti, L'assedio di Padova del 1509, in NuovoArchivio veneto, n. s., VII (1891), pp. 109-244; A. Bonardi, Venezia e la Lega di Cambrai, ibid., s. 4, VII (1904), 2, pp. 224 s.; S. Rumor, Storia breve degli Emo, Vicenza 1910; Id., Giovanni Emo. Il suo monumento nella distrutta chiesa dei servi a Venezia, 1910; G. Occioni Bonaffons, Venezia e Rimini, in Atti del R. Ist. veneto di sc. lett. e arti, LXXVIII (193-19), 2, pp. 511-542; F. S. Zanchi, La prima guerra di Massimiliano contro Venezia. G. E. in Val Lagarina 1507-1508, a cura di C. Emo, Padova 1916; F. A. M. Vicentini, S. Maria de' Servi in Venezia, Treviglio 1920, pp. 49, 70 s.; P. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata, II, Bergamo 1928, p. 451; C. Pasero, Francia Spagna Impero a Brescia (1509-1516), in Commentari d. Ateneo di Brescia, 1957, Suppl., pp. 363, 367-68; Storia di Brescia, II, Brescia 1961, pp. 288 s.; G. Cozzi, La Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal sec. XVI al sec. XVIII, Torino 1982, p. 123; Id., Authority and the law in Renaissance Venice, in Renaissance Venice, a cura di J. R. Hale, London 1973, p. 324; I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello Stato veneziano, Napoli 1974, in particolare pp. 41, 140, 373; A. Ventura, Francesco Bragadin, in Dizionario biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 672-674; Id., Paolo Cappello, ibid., XVIII, ibid. 1975, pp. 808-812; F. Colasanti, Pietro Cappello, ibid., pp. 813-816; B. Pullan, Rich and poor in Renaissance Venice. The social institutions of a catholic State, to 1620, II, Oxford 1971, p. 536; R. Finlay. Politics in Renaissance Venice, New Brunswick 1980, p. 245; L. Puppi, La grande vetrata della basilica di Ss. Giovanni e Paolo, Venezia 1985, pp. 16-32; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 33 s., 59, 170; G. Cozzi, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986, p. 90; D. E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987, p. 231; D. Calabi-P. Morachiello, Rialto. Le fabbriche e il ponte 1514-1591, Torino 1987, pp. 189 n., 190 n., 193 n.; M. Zorzi, La Libreria di S.Marco. Libri lettori società nella Venezia dei dogi, Milano 1987, pp. 96, 98.