GIORGIO da Trebisonda (Giorgio Trapezunzio)
Nacque a Creta il 3 apr. 1395 da Costantino, in una famiglia emigrata da tempo da Trebisonda, sul Mar Nero, città che a G. rimase di fatto sconosciuta (come lui stesso attesta nella Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis), ma che continuò a mantenere nel suo nome preferendola a quella che gli aveva dato i natali: nelle sue opere si trovano versioni diverse del nome del luogo di origine ("Trapesuntius", "Trapezuntius", "Trapesunda"), ma non si registra mai il nome di Creta.
G. ebbe una prima formazione in ambito grammaticale, retorico e in parte anche filosofico in patria, dove la più eminente personalità nel campo degli studi era quella di Giovanni Simeonachis, protopapa di Creta e in rapporto con diversi intellettuali italiani. In tal modo, G. dovette conoscere Rinuccio Aretino, allievo del Simeonachis, il medico Pietro Tomasi e il fiorentino Cristoforo Buondelmonti, viaggiatore, cercatore di codici, che a lungo soggiornò nelle isole greche e a Creta in particolare. Forse proprio tramite il Simeonachis G. entrò in contatto con l'umanista veneziano Francesco Barbaro (al quale risulta che il Simeonachis inviò almeno un codice greco), che ebbe un ruolo decisivo nella propagazione della cultura umanistica a Venezia per tutta la prima metà del Quattrocento.
Arrivato a Venezia forse già nel 1412 (o nell'aprile 1416), G. passò i primi due mesi del suo soggiorno nella casa del Barbaro, dove insegnava latino il veronese Guarino Guarini: questo periodo sarebbe stato ricordato da G. in una successiva polemica proprio con il Guarini, nella quale G. lo accusava di averlo usato come copista di codici piuttosto che averlo erudito proficuamente in latino. Questi mesi dovettero però essere importanti anche per lo stesso Guarini, perché a lui e al Barbaro G. portò un valido contributo per la conoscenza della lingua e della letteratura greca. Successivamente G. si trasferì in casa del medico Niccolò Leonardi.
Sul finire del 1416, o agli inizi del 1417, lasciò Venezia per trasferirsi a Padova allo scopo di frequentarvi lo Studio. Qui G. conobbe Francesco Filelfo, che, giovanissimo, vi insegnava dal 1416 (prima di passare l'anno dopo a Venezia), e con il quale sarebbe rimasto in amicizia per tutta la vita. A Padova fu vicino anche al dotto vescovo Pietro Marcello, a cui sembra indirizzata l'Oratiuncola de laudibus episcopi Patavii, ed ebbe come maestro di latino Vittorino da Feltre, che G. tenne poi sempre in grande considerazione riconoscendone i notevoli meriti nell'insegnamento. Allo stesso tempo aiutò Vittorino nelle sue traduzioni del Gorgia di Platone e di scritti di Ermogene di Tarso e gli corresse un manoscritto di Nonnio Marcello; a Vittorino G. avrebbe dedicato il De artificio ciceronianae orationis Pro Q. Ligario - poi edito a Venezia nel 1477 da Iohannes de Colonia e Iohannes Manthen (Gesamtkatalog der Wiegendrucke [= GW], 2739) e ristampato oltre dieci volte fino a metà Cinquecento - e la traduzione dell'orazione Pro Ctesiphonte di Demostene (1444-46), che già L. Bruni aveva tradotto ma con diversa impostazione.
Grazie all'interessamento del Barbaro, G., prima del 13 nov. 1420, ebbe un incarico di insegnamento a Vicenza: qui fino al marzo-aprile di quell'anno aveva insegnato il Filelfo. Risalgono al soggiorno vicentino di G. un'Oratio de laudibus Ciceronis, tenuta come prolusione scolastica nel 1421 e che risente delle vite ciceroniane di Plutarco e del Bruni, e l'ampliamento del De artificio ciceronianae orationis. G. dovette rimanere a Vicenza per tutto il 1421; rientrò poi a Venezia per iniziarvi l'insegnamento privato: era in quella città quando Tessalonica passò in potere della Serenissima, come racconta lui stesso nella più tarda Exhortatio ad Nicolaum V ad defendenda pro Europa Hellesponti claustra. Nel 1423 tornò nuovamente a Vicenza, per rimanervi fino al 1426, quale pubblico professore di latino: lo seguirono la moglie e i figli. Durante questo periodo scrisse, sotto forma di lettera, il De suavitate orationis, che dedicò a Girolamo Bragadin. Nel 1426 si convertì al cattolicesimo; l'anno dopo preparò un'esortazione a favore di Costantinopoli assediata dai Turchi. Per motivi che rimangono sconosciuti, nel corso del 1427, o comunque non dopo il 1428, fu costretto a lasciare Vicenza perché espulso dalla città: secondo lui la ragione stava nella gelosia che la sua presenza suscitava al Guarini, che insegnava nella vicina Verona. Andò forse in Grecia, o, più probabilmente, a Creta, ma non si sa per quanto tempo vi rimase.
È attestata la sua presenza, ma non il motivo del soggiorno, a Mantova nel luglio 1431. Nel 1433 tornò a Venezia, dove aprì una scuola privata che divenne luogo centrale per l'apprendimento del greco e del latino, soprattutto per i giovani dell'aristocrazia cittadina: fra i suoi allievi vi furono Benedetto Bursa, Bernardo Giustinian, Francesco Contarini e Pietro Barbo, il futuro papa Paolo II. Il soggiorno veneziano non fu però, a lungo andare, del tutto soddisfacente, e G., che aveva chiesto aiuto per migliorare la sua situazione anche a Vittorino da Feltre, trovò un sostenitore in Ambrogio Traversari, generale dell'Ordine camaldolese, conosciuto a Venezia nel maggio 1433. Il Traversari, che riteneva G. superiore al Filelfo, lo raccomandò, con una lettera del 6 giugno 1433, a Niccolò Niccoli perché fosse chiamato come professore a Firenze. Anche il Barbaro si mosse in aiuto di G. scrivendo a Ludovico Trevisan, influente membro della corte papale, perché gli fosse trovato un posto in Curia. G. rimase tuttavia a Venezia, e sul finire del 1433, o agli inizi del 1434, terminò la sua opera maggiore, i Rhetoricorum libri V. In questo scritto, che poi sarebbe stato stampato da Vindelino da Spira a Venezia nel febbraio 1471 (GW, 10664), mentre G. si trovava a Roma, viene, fra l'altro, criticato lo stile del Guarini, autore, nel 1428, di un'orazione in lode del Carmagnola: la critica di G. avrebbe suscitato la reazione dello stesso Guarini e quindi quella di un suo scolaro, Andrea Agasone, autore di un'aspra invettiva contro G. con una lettera del 15 marzo 1437 a Paolo Regino; e G., naturalmente, rispose con uno scritto ancora più forte, la Ad Guarini Veronensis in se invectivam responsio et Rhetoricorum suorum defensio, pensando che sotto il nome dell'Agasone si nascondesse lo stesso Guarino. Per dare maggiore forza alle sue tesi e alle sue osservazioni, con una lettera di accompagnamento, mandò copia della Responsio anche a Leonello d'Este, allievo dello stesso Guarino, ormai punto di riferimento dell'umanesimo estense; poi si pentì e chiese scusa agli interessati.
Al di là delle questioni polemiche, i Rhetoricorum libri V - ampiamente diffusi manoscritti e a stampa - hanno una loro precisa validità come documento di un nuovo modo di approccio a un'arte come la retorica ritenuta fondamentale nell'elaborazione e nell'organizzazione del discorso: cioè del mezzo, l'eloquium, con il quale avviene il contatto fra gli uomini, il cui pensiero trova così forme diverse di manifestazione. Non è un caso che G. giustifichi la definizione della retorica come civilis scientia, proprio per questa possibilità di incontro. Già da qui appare sia il collegamento stretto con le più qualificanti espressioni degli studia humanitatis, sia l'originalità di G. rispetto alle precedenti esperienze: e significativamente egli si rammarica della trascuratezza che già nell'antichità, per non dire nei tempi successivi, compreso il suo, aveva accompagnato l'analisi dei processi altrimenti fondamentali per la strutturazione del discorso. Le singole parti dei Rhetoricorum libri V affrontano così, sistematicamente, con l'appoggio di fonti classiche (e di Cicerone in particolare) ogni aspetto dell'arte retorica, dalla sua formazione storica ai procedimenti e alle articolazioni interne dell'eloquium, sempre intesa con precisi scopi utilitaristici e civili: indicativa, per esempio, l'insistenza con cui G. dimostra l'opportunità per un oratore di essere abile e in grado di controbattere l'avversario, oppure di sviluppare e perseguire espedienti mnemonici con i quali la materia possa essere meglio posseduta e manifestata.
Sempre a Venezia, nel novembre 1434 G. fu incaricato di tenere l'orazione funebre, davanti al doge Francesco Foscari e al Senato, per Fantino Michiel, procuratore di S. Marco. In questo tempo scrisse anche un'importante opera di carattere grammaticale, il De partibus orationis ex Prisciano compendium (stampato a Milano, Filippo da Lavagna, dopo il 29 ott. 1471 [GW, 10659]), dedicata al figlio Andrea. Nel frattempo ebbe anche un altro figlio, Iacopo, e cinque figlie: una, Maria, avrebbe sposato Giorgio Policarpo, scrittore apostolico e dal 1482 "magister in registro et registrandi litterarum apostolicarum".
Nel maggio 1437 G. lasciò Venezia per Bologna, dove risiedevano Eugenio IV e la Curia pontificia. Con questo trasferimento G. entrava al servizio del papa, un anno dopo l'interessamento del Barbaro presso il Trevisan. Non c'è traccia di G. come professore per il 1437-38 nei Rotuli dell'Università di Bologna, anche se lo stesso G., in una lettera del 1466 al papa Paolo II, dice che proprio grazie a lui "ad legendum ibi publice fui" (Monfasani, 1976, p. 356). All'interno della Curia G. non dovette avere solo incombenze di carattere cancelleresco, fra le quali si può ricordare la scrittura di una lettera all'imperatore di Costantinopoli Giovanni Paleologo sul finire dell'estate 1437. Il 23 dicembre dello stesso anno fu incaricato di tenere una Oratio de laudibus summi pontificis Eugenii IV proprio davanti al papa.
Nei primi mesi del 1438, dopo che Eugenio IV ebbe lasciato Bologna per seguire a Ferrara il concilio lì trasferitosi da Basilea, G. non tornò a Venezia, preferendo pensare a un passaggio a Firenze. Ma per due anni, dall'aprile 1438 all'aprile 1440, accettando l'ospitalità offertagli da Gherardo Gambacorta, dimorò a Bagno di Romagna, come precettore del figlio del Gambacorta, Pietro, al quale dedicò l'Isagoge dialectica, che, stampata per la prima volta fra il 1471 e il 1472, incontrò una straordinaria fortuna fino a oltre la metà del Cinquecento superando le cinquanta edizioni (Indice generale degli incunaboli, 4214; GW, 10658: l'opera è conosciuta anche come Dialectica ex Aristotele).
Il libro si propone come un trattato di ars argumentandi, che riprende l'impostazione propria della tradizione medievale, dalla quale però si distacca non solo per il diverso riferimento e uso delle fonti, ma anche per l'evidente scopo didattico e pratico che porta, per esempio, al superamento di questioni di carattere metafisico o gnoseologico che non abbiano attinenza con le finalità proposte, che sono quelle dell'analisi e della spiegazione, variamente dimostrata, della struttura logica del discorso.
Finalmente, prima dell'estate 1440 G. arrivò a Firenze, dove sarebbe rimasto fino alla primavera del 1443, cioè quando Eugenio IV decise il ritorno a Roma. Proprio nel 1440 il cardinale Bessarione gli chiese di tradurre l'Adversus Eunomium e il De Spiritu Sancto di s. Basilio (della prima opera aveva iniziato la versione il Traversari; entrambe furono poi ripetutamente stampate dagli inizi del XVI secolo fino alla prima metà del Seicento): nel 1442 G. completò il lavoro, dedicando i due testi rispettivamente a János Vitéz e a Giano Pannonio. A Firenze era ancora in svolgimento il concilio - che il 9 luglio 1439 aveva sancito l'effimera unione della Chiesa greca con quella latina -, e il clima intellettuale rimaneva pur sempre vivace anche in relazione alle dispute conciliari: da qui le traduzioni richieste a Giorgio. Sempre legata alle vicende conciliari è la lettera De adventu legatorum ex Ethiopia et de Antichristi temporibus, scritta al momento dell'arrivo dei copti a Firenze per l'unione con la Chiesa di Roma celebrata il 4 febbr. 1442, e inviata a Giovanni De Dominis vescovo di Nagyvárad; G. affrontò anche il problema di Costantinopoli e del recupero di Gerusalemme e della Terrasanta: temi, questi, su cui sarebbe tornato ancora in tempi successivi. Nel 1447, per esempio, avrebbe scritto al re di Napoli Alfonso d'Aragona e all'imperatore Federico III un'esortatoria De recuperandis Locis Sanctis.
A Firenze G. ebbe modo di conoscere e frequentare gli esponenti più illustri dell'Umanesimo fiorentino (per altro alcuni inseriti nella Curia papale), da Leonardo Bruni a Leon Battista Alberti, da Carlo Marsuppini a Giannozzo Manetti, da Poggio Bracciolini a Matteo Palmieri. In particolare, in una lettera a Bernardo Giustinian del 21 genn. 1441, G. ricorda il Bruni - che già aveva citato nell'Isagoge dialectica soprattutto per le versioni da Aristotele, anche se, anni dopo, a Roma, non avrebbe mancato di fare qualche critica al suo metodo di traduzione - e il Marsuppini, e soprattutto l'aiuto fornitogli da quest'ultimo per ottenere l'insegnamento nello Studio. Infatti, con il marzo 1442 G. iniziò i suoi corsi con lo stipendio annuo di 100 fiorini, mentre, sul finire del successivo mese di ottobre, pure il figlio Andrea entrò, come scriptor, nella Cancelleria pontificia.
Alla partenza del papa da Firenze, il 7 marzo 1443, anche G. passò a Roma: il 7 febbr. 1444 giurò come segretario apostolico, incarico nel quale, il 5 nov. 1450, gli sarebbe subentrato il più giovane figlio Iacopo, mentre l'altro figlio, Andrea, ebbe la nomina l'11 marzo 1445. L'impiego in Curia, oltre a dargli una relativa tranquillità economica, fornì a G. un ulteriore stimolo per i suoi studi, che rivolse soprattutto a una serie di traduzioni dal greco, come dimostra, per esempio, il manoscritto della Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat. 4534, autografo, nel quale sono riunite versioni da Aristotele (fra cui la Physica, che dedicò ad Antonio da Pago, membro della famiglia pontificia) e da Gregorio di Nissa (come il De perfecta hominis vita, sive De vita Moysi, offerta al cardinale Ludovico Trevisan). Fra la metà del 1443 e la metà del 1446 tradusse la Rhetorica di Aristotele che indirizzò al tesoriere curiale Francesco da Legnamine (autografa nel Vat. lat. 4534; editio princeps Parigi, Petrus Caesaris - Iohannes Stol, 1475 [GW, 2480]; più volte ristampata fino agli inizi del Seicento), e la già ricordata orazione Pro Ctesiphonte di Demostene. Due diverse prefazioni ha la versione dell'aristotelico De anima: una, generica, al lettore, l'altra (Ibid., Vat. Rossi 339) al cardinale Domenico Capranica, il quale, nel conclave che il 6 marzo 1447 elesse papa Niccolò V, era stato uno dei papabili. È probabile che a queste vicende si ricolleghi la traduzione di G., mentre non hanno data le traduzioni aristoteliche del De generatione et corruptione (si trova autografa nel Vat. lat. 4534) e del De caelo et mundo, che risalgono, comunque, agli anni romani. Al nuovo pontefice G. rivolse la già ricordata Exhortatio ad defendenda pro Europa Hellesponti claustra, in cui, fra l'altro, sostiene che fra i Greci, pur deviati dall'ortodossia della fede, erano vissute figure di grande rilievo anche sul piano spirituale, mentre la diffusione della religione musulmana era stata favorita perfino dalla corruzione del clero che aveva indebolito la Chiesa.
Il pontificato di Niccolò V significò per G. un ulteriore e gravoso impegno di traduttore, soprattutto di opere dei Padri della Chiesa: Quiniano, Giovanni Crisostomo, Eusebio, Cirillo. Nella prefazione, rivolta al papa, della versione In Ioannem di s. Cirillo, per esempio, confessa la sua fatica: "Neque post tot tantosque labores otio nos torpescere tua sanctitas patitur" (Collectanea Trapezuntiana, p. 294). Tradusse anche, prima della fine del 1451, l'Almagesto di Tolomeo, al quale avrebbe aggiunto un commento che ebbe notevole fortuna, e, fra il 1448 e il 1450, le Nonaginta homiliae in Mattheum di s. Giovanni Crisostomo (in parte autografe nel Vat. lat. 388 e poi stampate fino ai primi decenni del Settecento; editio princeps: Strasburgo, John Mantelin, c. 1466, W.A. Copinger, Supplement to Hain's Repertorium, 5034), e il De preparatione evangelica di s. Eusebio (copia di dedica con correzioni autografe è il Vat. lat. 228): ma di questa traduzione non rimase soddisfatto Niccolò V, che pochi anni dopo la fece rivedere ad Andrea Contrario. G. tradusse anche il commento di s. Cirillo al Vangelo di s. Giovanni e altre opere aristoteliche: la Historia animalium, il De partibus animalium, il De generatione animalium e i Problemata, dedicati al papa. Però nel 1451-52 Iacopo da San Cassiano, dei canonici regolari di S. Agostino, venne incaricato di controllare la versione dell'Almagesto, che ampiamente criticò, mentre il De partibus animalium e i Problemata furono fatti di nuovo tradurre da Teodoro Gaza, con il quale G. sarebbe sceso ad aspra polemica. Prima del 5 dic. 1451, data di una lettera al Barbaro, G. aveva tradotto pure le Leggi di Platone con l'idea di offrirle al papa; tradusse inoltre la già ricordata opera di Gregorio di Nissa De perfecta hominis vita, sive De vita Moysi, che godette di una discreta fortuna fino al Seicento e fu inserita nella Patrologia Graeca (J.P. Migne, Patr. Graeca, XLIV, coll. 298-430), e le orazioni De laudibus s. Basilii e De laudibus s. Athanasii (autografe nel Vat. lat. 4249) di Gregorio Nazianzeno.
Accanto all'opera di traduttore, G. si rivolse all'insegnamento nello Studio, dove ebbe un notevole successo, stando anche alle testimonianze di Lorenzo Valla e di Biondo Flavio. Ebbe dei contrasti, fra gli altri, con Teodoro Gaza, e in Curia con Poggio Bracciolini, con il quale proprio nei locali della Cancelleria si scontrò in una rissa. Dalle vicende legate alla congiura di Stefano Porcari, la posizione di G. - soprattutto per le negative influenze del Bracciolini e di Giovanni Aurispa - ebbe non favorevoli ripercussioni. Anche con il potente cardinale Bessarione G. era in una posizione di scontro a proposito dell'interpretazione della filosofia platonica, che G. contrastava con una dichiarata preferenza per Aristotele. Il crescente disagio determinato dal trovarsi a vivere in un ambiente dove interessi culturali, aspirazioni personali e scelte politiche si intrecciavano fra loro, talora con soluzioni non sempre indolori, spinse G. a lasciare la Cancelleria apostolica il 17 giugno 1452 e a partire per Napoli.
L'impulso dato alla cultura umanistica dal re Alfonso d'Aragona dovette essere la ragione del trasferimento di G., al quale furono assegnati, il 28 sett. 1452, 600 ducati all'anno: somma che non dovette consentirgli però un'adeguata sistemazione. Ad Alfonso dedicò la Rhetorica di Aristotele il Thesaurus de sancta et consubstantiali Trinitate di s. Cirillo (che ebbe notevole fortuna manoscritta e a stampa) e il Centiloquium dello pseudo-Tolomeo, anch'esso assai diffuso. Fra il 1454 e il 1456 scrisse due opuscoli astronomici, il Brevis de antisciis tractatus e il Cur his temporibus astrologorum iudicia fallant. Al re offrì anche i Rhetoricorum libri V e il De praeparatione evangelica di s. Eusebio. In seguito alla caduta di Costantinopoli nel 1453 scrisse, in greco (autografo nel Vat. gr. 1720), l'opuscolo Sulla verità dei cristiani e più tardi anche un altro, Sull'eterna gloria, basati su un forte richiamo morale ai valori della fede e della cultura cristiana nel solco della tradizione biblica. Il trattato Sull'eterna gloria venne inviato da G. al sultano Maometto II allo scopo di mediare la posizione dei Turchi nei confronti della Chiesa e dell'Occidente, ferma restando in G. la sua opposizione all'Islam, che avrebbe attaccato anche nelle Comparationes philosophorum Aristotelis et Platonis del 1455. A metà febbraio 1453 risale una lettera di G. al Barbaro nella quale esprime il desiderio di mandargli la versione delle Leggi di Platone; non fidandosi dei normali collegamenti che dovevano passare per Roma (per lui sempre infida) il codice sarebbe stato recapitato al destinatario tramite l'ambasciatore veneziano a Napoli, Barbo Morosini.
Durante il soggiorno napoletano si acuì la polemica di G. con il Gaza, soprattutto a proposito della traduzione dei Problemata aristotelici. Lo dimostra uno scritto fortemente critico come l'In perversionem Problematum Aristotelis a quodam Theodoro Cage editam et problematice Aristotelis philosophie protectio, composto nel 1454.
Qui G., dopo aver difeso la scolastica medievale - alla quale, per esempio, rivendica il merito di aver consentito, attraverso le traduzioni, di diffondere testi importanti nei più diversi campi del sapere, sui quali poi si era fondato un settore rilevante della cultura -, sostiene che il platonismo era alla base delle più negative ed esiziali dottrine, e che la sua diffusione, favorita dal "nuovo Maometto", Giorgio Gemisto Pletone, portava a una crescente fortuna dell'Islam.
L'elezione papale di Callisto III, l'8 apr. 1455, mutò di nuovo la posizione di G.: a otto giorni dall'elezione del nuovo papa, infatti, G. firmò, come segretario apostolico, lettere scritte dalla Cancelleria papale; segno del suo rientro nella carica immediatamente avvenuto. A questo ufficio avrebbe rinunciato il 25 sett. 1457 a favore del figlio Andrea. I termini del contrasto, mai sopito, con il Gaza vengono ripresi e ampliati in una nuova trattazione che G. riserva al problema, la Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis, completata nel 1458.
È, questa, l'opera più famosa di G., che non limita la discussione a una disputa puramente accademica, ma concretizza la sua negativa valutazione di Platone e, all'opposto, l'esaltazione di Aristotele, in un contesto assai più vasto, che comprende anche aspetti ideologici e politici. Così, per esempio, il platonismo, e l'epicureismo a esso collegato, indicano per G. una forma di corruzione morale che era stata in grado di determinare lo sfaldamento della religione cristiana. Secondo G., approfittando del pensiero di Platone, che per lui si configurava come un vero e proprio flagello, i Turchi hanno avuto nei seguaci di quella filosofia - e G. classifica Epicuro come secondo Platone, Maometto come terzo e Giorgio Gemisto Pletone come quarto - un'avanguardia ideologica determinante anche per lo sfaldamento e il crollo dell'Impero d'Oriente. Tesi così dirompenti provocarono, fra il 1457 e il 1459, la risposta del cardinale Bessarione con l'In calumniatorem Platonis, dove si sosteneva che G. (del resto mai nominato), traducendo Platone, aveva commesso ogni tipo di errore: incomprensioni, omissioni, aggiunte, discordanze. In quattro libri il Bessarione dapprima espone il pensiero di Platone nei vari campi disciplinari, poi confronta le teorie di Platone con quelle di Aristotele e con la dottrina cristiana, quindi approfondisce tesi specifiche di Platone, difendendolo anche sotto l'aspetto morale e politico. Con quest'opera il Bessarione voleva confutare l'interpretazione di Platone data da G., che ne aveva accentuato la componente pagana di fronte alle più "cristiane" posizioni di Aristotele.
Il successivo pontificato di Pio II, iniziatosi il 27 ag. 1458, non portò, invece, fortuna a G., anche a causa dell'ostilità, nei suoi confronti, di un altro esponente della Cancelleria curiale, Giovanni Toscanella. Nel giugno 1460, se non prima, G. lasciò Roma per tornare a Venezia, dove, nel marzo precedente, era stato deciso di attivare un secondo insegnamento di retorica presso la scuola di Rialto, da affiancare al primo, tenuto fin dal 1457 da Pietro Perleoni; per pochi mesi vi aveva insegnato anche Giovanni Mario Filelfo. La nuova cattedra venne assegnata, con uno stipendio di 150 ducati, a G., che però incominciò le lezioni solo sul finire del 1460 o agli inizi dell'anno successivo. Intanto il 4 ott. 1460 il Senato, nel periodo in cui era doge Pasquale Malipiero, accolse l'offerta della versione delle Leggi di Platone dedicata da G. alla Repubblica, nella cui costituzione egli vedeva un riflesso della normativa istituzionale di Platone. Nel 1461 scrisse una consolatoria a Iacopo Antonio Marcello per la morte del figlio Valerio. In questo tempo G. sperò di diventare storiografo ufficiale di Venezia, incarico al quale ambivano anche il Perleoni, Giovanni Mario Filelfo e Biondo Flavio. Il mancato conferimento dell'incarico potrebbe essere stata la causa di un nuovo spostamento, a proposito del quale, in un'invettiva contro di lui, Domizio Calderini avanzò il sospetto che fosse stato determinato dalle negative conseguenze di una relazione con una fanciulla veneziana.
Nel maggio 1462, dunque, G. ritornò a Roma. Da qui, il 27 maggio, scrisse una lettera di congratulazioni a Leonardo Sanuto per l'elezione a doge dello zio Cristoforo Moro. A Roma G. trovò dei sostenitori nei cardinali Prospero Colonna (al quale dedicò la traduzione dei Problemata aristotelici) e Niccolò Cusano (che gli chiese di tradurre il Parmenide di Platone, traduzione di cui è rimasta copia con correzioni autografe nella Biblioteca Guarnacci di Volterra, ms. 6201), e nel vescovo di Arras, Jean Jouffroy (al quale offrì la traduzione dei Physica di Aristotele nel Vat. lat. 2988). L'elezione a pontefice, il 31 ag. 1464, del suo antico allievo veneziano Pietro Barbo con il nome di Paolo II suscitò nuove attese in G., che al papa dedicò varie opere di carattere religioso: il De sanctificatione Matris nostri Domini ab utero, il commento al passo del Vangelo di Giovanni 21, 22 (in ulteriore polemica con il Bessarione), il De questione Hieronymi et Augustini super legalibus (opere che sono conservate autografe nel ms. Vat. lat. 2926). Un'altra opera religiosa avrebbe scritto più tardi, il De trepidatione Domini, ma sembra essere andata perduta.
Forse sul finire dell'estate 1465 - nel corso del 1464 era tornato per poco a Venezia - lasciò un'altra volta Roma diretto a Creta e poi a Costantinopoli, dove giunse nel novembre, per recarsi alla corte di Maometto II. Sperando di convincere il sultano a un accordo con l'Occidente, il 25 febbraio gli scrisse una lettera esortatoria, e un'altra simile gli inviò - ma non si sa se siano realmente giunte a destinazione - quando era già rientrato in Italia, insieme con le Comparationes e la versione dell'Almagesto. Mentre era a Costantinopoli compose l'Isagoge ad Almagestum Ptolomei. Partì da Costantinopoli il 18 marzo 1466; nel viaggio di ritorno in Italia indirizzò al sultano il trattato Sull'eterna gloria, una rielaborazione del Sulla verità dei cristiani. Si fermò a Corfù, dove visitò il prete Nicola Seminopolios, con il quale discusse l'orazione In Theophania di Gregorio Nazianzeno. Durante la navigazione, in seguito a una violenta tempesta, fece voto di scrivere la vita di Andrea da Chio, che era stato martirizzato dai Turchi il 29 maggio 1465; terminò l'opera il 23 apr. 1468.
Nel giugno, o nel corso dell'estate, del 1466 G. dovette rientrare a Roma, dove, però, l'aspettava la reazione del papa di fronte alla posizione che aveva assunto verso Maometto II. Nell'ottobre fu incarcerato per quattro mesi a Castel Sant'Angelo, il cui castellano, Rodrigo Sánchez de Arévalo, vescovo di Calahorra, confutò - come Giovanni Andrea Bussi, vescovo di Aleria - le lettere di G. a Maometto nel suo De sceleribus et infelicitate perfidi Turci e in una lettera allo stesso Giorgio. Di questa detenzione anche il figlio Andrea ebbe ripercussioni nella sua carriera di segretario apostolico. G. uscì dal carcere nel febbraio 1467.
In questo frangente strinse rapporti con la corte di Mattia Corvino, re d'Ungheria. Inviò all'arcivescovo János Vitéz, cancelliere del re, e al vescovo di Pécs Giano Pannonio le sue traduzioni da s. Basilio: l'Adversus Eunomium e il De Spiritu Sancto. Con il Pannonio, in particolare, quando fu in Italia nel 1467, G. dovette incontrarsi, sempre più attratto dai contatti ungheresi, tenuti soprattutto con l'ambasciatore del re a Roma Giorgio Policarpo, suo cognato.
Per altro le precedenti polemiche romane contro G. non diminuivano, e anzi trovarono nuovo fermento nell'ambito del circolo del Bessarione, il quale nell'In calumniatorem Platonis rivolse duri attacchi alle traduzioni platoniche di G. (il Vat. lat. 2062 contiene alcune note autografe del Bessarione alle traduzioni di Giorgio). In una lettera rivolta, il 28 ag. 1469, proprio al Bessarione, con il quale rimase sempre in forte antagonismo, G. spiegò la sua posizione e cercò di rettificare i fraintendimenti che si erano determinati. A ciò è rivolto anche il trattato, in greco, Sulla divinità di Manuele, nel quale sosteneva che Manuele (il prescelto da Dio) era il nome che avrebbe dovuto avere Maometto, il quale presto sarebbe divenuto signore del mondo. Poco più tardi, però, a dimostrazione di un clima fortemente contrastato, usciva la Refutatio deliramentorum Georgii Trapezuntii Cretensis di Niccolò Perotti, arcivescovo di Siponto, con violentissimi attacchi contro G., colpevole di ogni nefandezza anche per i suoi contatti con i Turchi. Pure Andrea Contrario, con l'invettiva Contra Georgium Trapezuntium calumniatorem Platonis, e Domizio Calderini, forse autore della prima parte della Refutatio del Perotti, si unirono nella forte polemica con Giorgio.
Ma il 9 ag. 1471 un sostenitore di G., il cardinale Francesco Della Rovere, veniva eletto papa, con il nome di Sisto IV. Nel frattempo la stampa dava maggiore propagazione alle opere di G.: intorno al 1470 a Venezia per Nicola Jensen era apparso il De praeparatione evangelica di s. Eusebio (GW, 9440); furono pubblicati quindi i già ricordati Rhetoricorum libri V e il De partibus orationis ex Prisciano compendium; altre edizioni dei testi di G. sarebbero seguite negli anni successivi. Al papa Sisto IV è indirizzata una copia della versione dell'Almagesto con una prefazione di Andrea da Trebisonda, conservata a Firenze, Bibl. Laurenziana, plut. 30.6.
Il 18 nov. 1472 moriva il cardinale Bessarione; non si sa se a quella data - o nei mesi successivi: quindi fra il 1472 e il 1473 - era già morto anche G., che venne sepolto a S. Maria della Minerva (dove sarebbe stata tumulata anche la figlia Maria), dopo aver passato gli ultimi tempi - stando alla testimonianza di Raffaele Maffei - privo di memoria e vagante per le strade di Roma. Forse è di G. il ritratto miniato nel manoscritto Vat. lat. 385, esemplare di dedica a Niccolò V delle omelie di Giovanni Crisostomo sul Vangelo di Matteo.
Risulta costante - anche attraverso un'essenziale ricostruzione biografica - il rapporto fra G. e le varie località dove soggiornò: Creta, Venezia, Vicenza, Padova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Costantinopoli, ma soprattutto Venezia e Roma. In ognuno di questi luoghi G. lasciò tracce variamente significative della sua presenza intellettuale e della sua stessa, ampia operosità letteraria, all'interno della quale è possibile individuare alcune aree portanti ben specifiche: orazioni encomiastiche o esortatorie sulla Terrasanta, scritti di retorica e di dialettica, scritti di grammatica, scritti di religione, scritti di filosofia, scritti di astronomia e di astrologia, traduzioni, lettere, oltre a opere perdute o dubbie. E al di là dell'intrinseco valore della sua produzione - comprese le traduzioni dal greco, che, fra le critiche, ebbero anche l'assenso del Poliziano, e alcune delle quali hanno goduto per secoli di eccezionale diffusione editoriale - non vi è dubbio che, anche attraverso l'inquietudine dei suoi spostamenti, balza evidente la centralità della posizione avuta da G. nell'ambito dell'umanesimo, anche per la preminenza accordata, fra i suoi interessi, a questioni di grande portata come quelle di carattere retorico e dialettico e quelle relative alla fortuna di Aristotele e di Platone. Inoltre, proprio il ruolo da G. avuto nella diffusione della letteratura greca, non solo classica ma pure patristica, assume una configurazione di notevole rilievo nell'evoluzione complessiva dell'età umanistica. Le sue scelte, in particolare, lo portarono a difendere, contro le soluzioni retoriche (i verba) che andavano diffondendosi con il rinnovamento umanistico, i contenuti (le res) dei testi che rischiavano di venire compromessi o artefatti.
Di G. sono rimaste circa un centinaio di lettere, se si considerano anche le lettere prefatorie a opere o traduzioni. Insieme con quelle rivolte a personaggi già variamente ricordati (specie per le prefatorie) si hanno lettere indirizzate a figure diverse del Quattrocento: Alfonso de Palencia, Francesco Barbaro, Antonio Beccadelli detto il Panormita, Antonio da Pago, Antonio Della Scrofa, il cardinale Bessarione, Poggio Bracciolini, Francesco Bragadin, Niccolò Cornelio, Pietro da Monte vescovo di Brescia, Vittorino da Feltre, Giovanni De Dominis, Bernardo Giustinian, Guarino Guarini, Giacomo Antonio Marcello, Cola Montano, Pietro Petrogna, Leonardo Sanuto, Iacopo Vannucci vescovo di Perugia, Giorgio Vataccio.
Varie opere - oltre a un imprecisato numero di lettere - sono andate perdute: le Adnotationes contro il cardinale Bessarione, un De sacramento eucharistiae, un Liber carcerum, un'opera indirizzata a Maometto II, un De trepidatione, un commento in greco al Salmo 44, la traduzione dei Metereologica di Aristotele, scholia al De caelo di Aristotele, uno scritto sul mito di Fetonte, una prefatoria a Giacomo Antonio Marcello della versione dell'Almagesto di Tolomeo.
Dubbia è la paternità di G. sui Commentarii in Philippicas Ciceronis, ripetutamente stampati (editio princeps Venezia, Philippus Petri, 1475-80 [GW, 10657]), e su una prefazione ad Alfonso d'Aragona della versione del De praeparatione evangelica di S. Eusebio. Vari altri scritti, soprattutto di carattere religioso, e alcune traduzioni vanno ritenuti spuri: un elenco complessivo è dato nella già ricordata Collectanea Trapezuntiana, dove sono anche pubblicati per la prima volta molti degli scritti di G. rimasti inediti, e che si configura come opera fondamentale anche per quanto concerne la storia della tradizione manoscritta e a stampa di tutta la sua produzione letteraria.
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