CORNER, Giorgio
Nacque a Venezia alla fine del 1454, lo stesso anno della sorella Caterina, la futura regina di Cipro, da Marco di Giorgio e da Fiorenza Crispo, figlia di Nicolò duca dell'Arcipelago e di Valenza Comneno, discendente dagli antichi imperatori di Costantinopoli. Gli splendidi natali, il ruolo decisivo sostenuto in occasione dell'abdicazione della sorella, le straordinarie ricchezze, che ne fecero il più facoltoso patrizio della Repubblica, costituiscono le premesse di una prestigiosa carriera politica e giustificano, almeno in parte, il sonante giudizio con cui il Priuli ne iniziò la biografia: "soggetto sufficiente a stancar ogni più feconda et felice penna". Appena ventenne, nel 1475, il C. sposò Elisabetta Morosini di Francesco, che gli assicurò una florida discendenza: otto figli (se vogliamo credere al Berruti) e cinque maschi, due dei quali (Francesco e Marco) divennero cardinali, mentre gli altri si maritarono, per dar vita ai tre rami di S. Maurizio, S. Polo e S. Cassiano. Un altro figlio naturale, Andrea, fu arcivescovo di Spalato.
L'inizio della carriera politica coincise con la morte del padre: nel 1479, infatti, divenne savio agli Ordini, carica alla quale fu confermato l'anno successivo, secondo il normale tirocinio politico dei più cospicui esponenti del patriziato. L'occasione decisiva per la sua vita, e per quella di tutta la famiglia, si verificò nel 1488, allorché il Senato veneziano decise di procedere all'annessione dell'isola di Cipro, dove Caterina regnava da sola ormai da quindici anni.
Politicamente audace, l'impresa presentava anche notevoli difficoltà diplomatiche: Caterina, infatti, non pareva assolutamente disposta a rinunciare alla corona. A Venezia, però, c'era la sua famiglia, la madre, i fratelli, e poi, non era stata essa stessa adottata dalla Repubblica, quando si era dovuto negoziare il matrimonio col Lusignano? Occorreva peraltro una persona abile e fidata per convincerla, per indurla ad offrire lei stessa l'abdicazione, e prevenire eventuali ritorsioni del sultano d'Egitto. L'operazione scattò in pieno inverno, quando le flotte delle potenze stavano ritirate negli arsenali: la squadra veneta, al comando di Francesco Priuli, sbarcò a Cipro il 24 genn. 1489, e le milizie della Serenissima si sostituirono senza colpo ferire alle truppe greche. Il C. - era lui, infatti, l'uomo prescelto dal Consiglio dei dieci - alternò le blandizie alle minacce, nei confronti della sorella: le assicurò onori regali, la perpetua gratitudine della patria, che le offriva persino il feudo di Asolo con lo stesso appannaggio di cui godeva a Cipro; ma le disse anche che una sua resistenza avrebbe provocato la disgrazia di tutta la famiglia, mentre l'annessione sarebbe stata comunque condotta a termine, poiché questi erano gli ordini dati al Priuli. La convinse, insomma, che il far buon viso a cattiva sorte sarebbe stata la miglior soluzione e l'unica: non si poteva andar contro la volontà del Consiglio dei dieci, di cui egli stesso sapeva di essere uno strumento attentamente controllato. Così, il 26 febbr. '89, Caterina rinunciò formalmente al possesso dell'isola, con una solenne cerimonia che si ripeté, per espressa volontà del fratello, nelle principali località del regno; quindi, il 14 marzo, si imbarcò alla voltadi Venezia. Arrivò al Lido il 6 giugno e, ad accoglierla, trovò il doge Barbarigo con tutta la Signoria e il fiore della nobiltà: fu condotta nel "Bucintoro" a S. Marco, dove ripeté la cerimonia di donazione.
All'uscita della chiesa, il C. venne nominato cavaliere della Stola d'oro ed insignito della prioria di Cipro, costituita da ben quattordici rendite. Era la sanzione ufficiale delle sue fortune economiche e politiche: sei anni più tardi, nel 1495, Ferdinando II di Napoli - che già aveva tentato di imparentarsi con Caterina - chiese addirittura una sua figlia come nuora, e l'operazione non venne portata a termine soltanto perché vi si oppose papa Alessandro VI, che vedeva con preoccupazione l'estendersi dell'influenza veneziana nel Mezzogiorno, ed in particolare sul litorale pugliese.
La politica internazionale e la normale routine del patrizio si intrecciarono dunque strettamente nella vita del C., che dalla patria ottenne i massimi riconoscimenti, ma che ad essa dovette sacrificare vaste possibilità di autonoma iniziativa: era infatti troppo ricco e potente perché il Senato rinunciasse ad interferire nella sua vita privata. A questo proposito, è sintomatico che nel breve giro di sei anni (1497-1502) egli ne abbia trascorso la metà lontano da Venezia, dalle sue amicizie, dai suoi interessi: prima come podestà a Brescia, poi in qualità di capitano a Verona.
Alla prima carica fu eletto l'11 ag. 1496; tornato in patria, divenne savio di Terraferma per il primo semestre del 1498 e del 1499; il 10 novembre di quell'anno, poi, entrava a far parte del Consiglio dei dieci. Spirito essenzialmente pratico, si rese conto che il credito accordatogli dalla Repubblica esigeva in cambio una dimostrazione di fede e attaccamento alle istituzioni dello Stato: comperando per 15.000 ducati il cappello cardinalizio al figlio Marco, nel settembre del 1500, egli indeboliva implicitamente il ruolo della sua famiglia nell'ambito della vita politica veneziana, e, nel contempo, aumentava il prestigio di quest'ultima presso la Curia pontificia; ancora, il giorno di Natale dello stesso anno accettava la nomina al reggimento veronese. L'incarico, che di per sé non implicava grosse responsabilità, venne caratterizzato da una delicata missione che, tra il luglio e l'ottobre del 1501, fu affidata al C., prima a Milano e poi a Trento, presso il cardinale d'Amboise, inviato a rappresentare il re di Francia alla corte dell'imperatore Massimiliano.
L'amicizia franco-veneta - di cui proprio il C. era stato uno dei fautori tra l'ottobre e il novembre del 1498, allorché vennero poste le basi del futuro trattato di Blois -, dopo l'euforia seguita alla conquista del Milanese, attraversava un momento di stasi: premuta a Oriente dal Turco, insidiata in Romagna dal duca Valentino, preoccupata dall'inarrestabile espandersi dell'influenza francese, in procinto di assicurarsi definitivamente il Napoletano, la Repubblica paventava un eventuale accordo tra Luigi e Massimiliano, che necessariamente si sarebbe ritorto contro di essa. Le istruzioni, consegnate al C. il 2 luglio, si articolavano su tre punti: anzitutto, egli avrebbe dovuto riproporre al re la validità dell'alleanza con Venezia, che proprio nell'Amboise trovava un giudice severo; in secondo luogo doveva dissipare, nel suo interlocutore, il dubbio (peraltro non immotivato) che la Repubblica non sempre onorasse convenientemente gli impegni sottoscritti; infine, una volta rassicurato il cardinale sulla purezza dei sentimenti del Senato, avrebbe finito col proporre la tradizionale guerra contro il Turco. Istruzioni, come si vede, alquanto vaghe e generiche: nessun accordo, nessuna scadenza erano previsti, e neppure si esigeva, da parte del francese, alcuna promessa formale che consentisse di imprimere concreti sviluppi alla trattativa; il C., insomma, aveva essenzialmente il compito di rasserenare il quadro dei rapporti tra i due Stati che, nonostante tutto, erano ancore legati da un trattato di alleanza, ma senza procurare precisi impegni alla Repubblica. Di fronte alle proteste d'amicizia del C., l'Amboise, come prova di buona volontà, chiese un aiuto per recuperare la contea di Bellinzona, occupata dagli Svizzeri. La Signoria rispose di declinare l'invito, naturalmente nelle forme più opportune: come le sarebbe stato possibile impegnare uomini e mezzi nelle Prealpi lombarde, quando i Turchi la minacciavano da vicino, in Friuli? Gli venne ordinato, comunque, di prender tempo, di non lasciar cadere il colloquio; intanto seguisse l'ambasciatore nel suo viaggio verso gli Stati dell'imperatore. Alla fine, però, l'Amboise riuscì ad ottenere un contingente di duemila uomini, che Venezia avrebbe allestito e mantenuto contro gli Svizzeri, ma il risultato della missione del C. venne lo stesso valutato positivamente, dal momento che, a Trento, Massimiliano e il cardinale non avrebbero certamente parlato di un'alleanza in funzione antiveneziana.
Tornato a Venezia, il C. fu subito eletto savio del Consiglio e, dall'ottobre 1502 al settembre dell'anno successivo, entrò nuovamente a far parte del Consiglio dei dieci; l'attendeva, però, un nuovo rettorato, stavolta come podestà di Padova (1503-04). Prima di partire per la città euganea, tuttavia, essendosi sparsa la notizia della morte di papa Alessandro, non mancò di presentarsi al doge, il 20 ag. 1503, per assicurare che il figlio Marco, in procinto di raggiungere Roma per il conclave, "non daria il voto se non a chi comandava la Signoria nostra". Negli anni che seguirono, il C. non ricoprì alcun particolare incarico, eccettuato quello, peraltro assai prestigioso, di savio del Consiglio. Quella relativa tranquillità, che caratterizzava un mondo all'apice della potenza e della ricchezza, doveva però aver termine nel 1508, allorché la Repubblica fu coinvolta in una lunga serie di conflitti che ne avrebbero posto in forse l'esistenza. La prima fase di quelle guerre, tuttavia, fu favorevole alla Serenissima: le operazioni contro l'imperatore, che era penetrato nel Friuli e nel Cadore con 400 cavalli e 5.000 fanti, si conclusero in una trionfale cavalcata militare. Nella circostanza, il C. era stato eletto provveditore generale in Terraferma, assieme al futuro doge Andrea Gritti, "et tuti do - annotava il Sanuto il 9 febbr. 1508 - acceptono libentissime, et partirano diman".
La collaborazione col comandante generale, Bartolomeo d'Alviano, si rivelò subito felice: ricacciati i Tedeschi dal Bellunese, in aprile il Gritti si riservò le operazioni verso il Trentino, sul Garda, mentre il C. si spostò nel Friuli. Alla fine di maggio era già a Gorizia, donde passò a Trieste, a Fiume e sino ai confini con l'Ungheria: il 25 giugno poteva rientrare a Venezia, a raccogliere i frutti di un successo tanto rapido quanto netto.
Il 14 marzo 1509 il C. era savio del Consiglio, quando venne riconfermato provveditore in campo, ancora col Gritti: stavolta il teatro della guerra era in Lombardia ed i nemici assai più forti e numerosi, ma nessuno, a Venezia, ebbe probabilmente la percezione di quale tempesta andava addensandosi sulla Repubblica. Anche la nomina a procuratore di S. Marco, conferita al C. qualche giorno dopo, il 21 marzo, pareva suonare di buon auspicio.
Giunto al campo, però, il C. non tardò a rendersi conto che la situazione era ben diversa da quella dell'anno precedente, e confidava i suoi timori al figlio Francesco, in una lettera del 4 maggio: gli animi erano divisi; mentre il Pitigliano, il Gritti e lui stesso inclinavano per una tattica prudenziale, l'Alviano voleva a tutti i costi passare l'Adda e affrontare i Francesi sul loro terreno: o "dito pazie ..., à colora, è rabioso, è impossibile possa durar, non vol conseio, à bon voler, animo e core, ma non vol consulto". I giorni che seguirono, tuttavia, sembrarono favorire le mosse dei Veneziani: l'8 maggio fu espugnata Trevi, e il C. cosìriferiva l'accaduto: "...gloriosa victoria, che dirò cussi sono molti anni non esser achaduto la mazor, perché habbiamo expugnato una terra in faccia de lo exercito francese, sopra le rive de Adda, né li bastò mai l'animo passar de qui a soccorer ditta terra, cossa de grandissima sua vergogna et gloria nostra et de le zente italiane".
Fu l'ultimo successo; in seguito il C., prese a star male, chiese di lasciare il campo e ritirarsi a Brescia, dove però si ristabilì prontamente. Il giorno della battaglia di Agnadello cercò di raggiungere le linee, ma incontrò i soldati sbandati e in fuga, e riparò nuovamente a Brescia, con la cassa. Non è possibile ricostruire quale fu il suo comportamento nei giorni immediatamente successivi: pare che a Brescia abbia tentato di organizzare la difesa, ma per certo sappiamo che il 21 era a Verona e il 12 giugno a Venezia. Neppure il 1510 fu un anno felice: nel luglio morì Caterina, che si era rifugiata presso il fratello; tra il settembre ed il dicembre gli venne negata più volte l'elezione a savio del Consiglio, che però riuscì ad ottenere nel 1511 e nel '12. Nel marzo di quell'anno, poi, avendo Venezia aderito alla lega santa, fu incaricato di trattare col cardinale svizzero Schinner l'arruolamento di truppe da impiegare contro i Francesi; successivamente venne inviato presso l'esercito, che si trovava a Padova, per dirimere alcuni contrasti sorti tra l'Alviano ed il generale della fanteria, Renzo da Ceri.
Le urgenze della guerra, che continuavano ad essere al centro della vita politica veneziana, obbligarono il C. a svolgere numerosi incarichi, sia pure privi di dirette responsabilità militari: tra il giugno ed il luglio del 1515 si trattenne infatti a Padova, per provvedere al pagamento delle truppe e ispezionare l'esercito; qualche mese più tardi, in novembre, fu inviato a Milano a congratularsi con il re di Francia per la vittoria di Marignano; nell'estate del '17, infine, ispezionò le fortificazioni di Padova, Montagnana, Legnago.
In margine a queste saltuarie missioni, egli continuava a ricoprire le massime cariche dello Stato: fra il 1513 ed il '27 fu costantemente presente tra i savi del Consiglio o nel Consiglio dei dieci; nel 1514 venne eletto patrono dell'Arsenale e, dal '17 al '19, provveditore sopra il Monte nuovo, una magistratura che aveva grande influenza nelle operazioni finanziarie dello Stato. Nel '20 fu anche provveditore sopra le Acque del Padovano e, due armi dopo, dei tre deputati a trattare la pace con l'imperatore, nonostante fossero note le sue simpatie per la Francia. Per due volte, nel '21 e nel '21 ricevette numerosi consensi per l'elezione al dogado, che peraltro non riuscì a conseguire, forse anche a motivo delle precarie condizioni di salute. Morì a Venezia il 31 luglio 1527, lasciando immense ricchezze: nell'agosto del 1515 aveva offerto 25.000 ducati per acquistare il feudo di Asolo, che era stato della sorella. Fu accompagnato alla sepoltura, nella chiesa di SS. Apostoli, dal doge con tutta la Signoria, e il suo ritratto, opera di Tiziano, si conservò in Maggior Consiglio fino all'incendio del 1577.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii..., III, pp. 3, 9, 34; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 164, cc. 84r, 86r; Venezia, Bibl. d. Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti, I, cc. 195r-197r; le istruz. per la missione a Cipro, in Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci. Misti, reg. 24, cc. 29v, 32rv, 33v, 34v; per l'attività politica come savio del Consiglio nel 1498-99 e 1511-12, Ibid., Senato. Delib. secreta, regg. 37 e 44, passim, sue lettere dai reggimenti di Verona (1501) e di Padova (1515), ancora all'Arch. di Stato di Venezia, Lettere di rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 192, nn. 7-11; b. 90, n. 257. Dettagliate notizie sull'attività politica e la vita privata, in M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-96, XLV, ad Ind.;per il ruolo sostenuto dal C. nel biennio 1508-1509: F. Guicciardini, Storia d'Italia, in Opere, a cura di R. Palmarocchi, Milano-Roma 1941, pp. 324, 354. Cfr. inoltre: G. F. Tomasini, Gymnasium Patavinum, Utini 1654, pp. 401, 403; F. Sansovino, Venetia città nobilissima, et singolare, Venetia 1663, pp. 148 s.; F. Policini, I fasti gloriosi dell'Ecc.ma casa Cornara, Padova 1698, pp. 9, 14 s.; M.-L. de Mas Latrie, Histoire de l'île de Chypre sous le règne des princes de la maison de Lusignan, III, Paris 1855, pp. 420, 425, 428 s.; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1856, pp. 205, 208 s., 219; L.-G. Pélissier, Louis XII et Ludovic Sforza (8 avril 1498-23 juillet 1500), in Bibliothèque des écoles françaises d'Athènes et de Rome, LXXV (1896), pp. 274, 286; Id., Notes ital. d'histoire de France (XXVII), in Nuovo Archivio veneto, XVII (1899), pp. 198-215; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920, pp. 390, 426; G. Magnante, L'acquisto dell'isola di Cipro da parte della Repubblica di Venezia, in Archivio veneto, s. 5, VI (1929), pp. 75 s.; A. Berruti, Patriziato veneto. I Cornaro, Torino 1953, pp. 56, 59 s., 73-77; F. C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, p. 379; R. Finlay, Politics and family in Renaiss. Venice: the election of doge Andrea Gritti, in Studi veneziani, n. s., II (1978), pp. 105, 108, 110 s.; F. Gilbert, The Pope, his Banker, and Venice, London 1980, pp. 43, 46, 48, 62.