CAVALLI, Giorgio (Georgius de Cabalis; Juorio dai Chavagli; Zorzo dai Cavalli)
Figlio di Niccolò, che ricoprì la carica di podestà di Vicenza per oltre dodici anni, nacque nella seconda metà del sec. XIV a Verona.
Discendente di una casata la cui presenza a Verona è testimoniata fin dal sec. XII e tradizionalmente legata ai Della Scala, non è azzardato supporre, in mancanza di notizie certe e documentate che riguardino il primo periodo della sua vita, che anche il C. sia rimasto travolto dagli eventi succedutisi alla morte di Cansignorio (18 ott. 1375). Tale morte e l'assetto politico che ne seguì, con gli illegittimi Antonio e Bartolomeo designati alla successione sotto la guida di un tutore nominato dallo stesso Cansignorio, suscitarono, infatti, a Verona un vasto movimento di insoddisfazione e protesta sviluppatosi con maggior vigore proprio tra quelle famiglie che erano state, fino allora, più vicine agli Scaligeri e tra queste i Cavalli. L'inesperienza dei due successori li portò a credere che il mezzo migliore per tacitare gli oppositori fosse quello di sbarazzarsene con ogni mezzo; da qui il bando che nel 1378 fu imposto allo zio del C., Giacomo, e che colpiva nel singolo l'intero lignaggio. Già prima, però, alcuni membri della famiglia avevano spontaneamente abbandonato Verona trovando rifugio e sostegno nella vicina Venezia, che nel 1376 aveva assunto al proprio servizio Giacomo offrendo anche ai suoi parenti e congiunti la stessa possibilità. È supponibile, perciò, che anche il C. abbia beneficiato di questa concessione.
Nel dicembre 1379 lo troviamo impegnato, in qualità di capitano, nella difesa di una fortificazione appositamente eretta dai Veneziani per proteggere, da terra, l'appena conquistata punta del lido di Fosson, il cui mantenimento era essenziale nel quadro delle operazioni della guerra di Chioggia. Terminato il suo compito al servizio di Venezia, probabilmente con la fine delle ostilità tra Veneziani e Genovesi, il C. passò al seguito dei Visconti, presso cui avevano già trovato asilo molti esuli veronesi che vedevano, forse, nell'espansionismo visconteo il più efficace mezzo di rivendicazione. La carriera del C. al servizio dei signori di Milano fu rapida e densa di soddisfazioni sia morali sia materiali. Nel 1389 era già detto "famigliare" di Gian Galeazzo e la sua posizione nell'ambiente visconteo doveva essere ben rilevante se è vero che bastò la sua presenza a Zurigo nel maggio di quell'anno per impensierire a tal punto il fuggiasco Francesco Novello da Carrara, in viaggio verso la Baviera alla ricerca di alleanze antiviscontee, da indurlo ad abbandonare precipitosamente Zurigo per Costanza. Dotato verosimilmente di capacità diplomatiche, il C. fu utilizzato in specie per delicati incarichi e ambascerie che lo portarono spesso fuori dell'Italia, soprattutto in Boemia.
Gian Galeazzo Visconti, infatti, perseguiva allora una politica di ingrandimento del proprio territorio che, facilitata dalla contemporanea crisi delle maggiori potenze italiane, mirava alla formazione di un vasto e unitario Stato centrosettentrionale. Ottenere un riconoscimento ufficiale da parte dell'imperatore era per Gian Galeazzo aspirazione massima, in quanto avrebbe significato non solo accrescere il proprio personale prestigio, ma anche veder riconosciute, di fatto, le posizioni conquistate. In questa direzione lavorarono, perciò, per tutto il 1394 gli ambasciatori viscontei ripetutamente recatisi a Praga per ottenere da Venceslao IV il titolo ducale al loro signore.
A capo della legazione viscontea che otterrà, sia pure a fatica, i risultati sperati, fu appunto il Cavalli. Giunta a Praga nel febbraio 1394, l'ambasceria, di cui facevano parte anche Pietro Filargo, vescovo di Novara e futuro Alessandro V, e l'umanista Uberto Decembrio, vi si trattenne a lungo impossibilitata ad agire da alcune sfavorevoli coincidenze tra cui le trattative per la conclusione della pace tra i marchesi di Moravia, Iodoco e Procopio, che ebbero come strascico la prigionia dello stesso Venceslao accusato di favorire Procopio. Bloccati i negoziati dalla cattura dell'imperatore, solo nell'autunno, dopo la liberazione di Venceslao, poterono essere avviati fruttuosi colloqui che, grazie all'abilità dei diplomatici, giunsero a rapida e felice conclusione con la concessione del titolo ducale tanto insistentemente ricercato. Nel gennaio 1395 Gian Galeazzo ordinava infatti di dipingere accanto alle proprie armi le insegne imperiali su tutti gli edifici delle città a lui sottoposte.
Ritornato probabilmente in Italia verso la metà del 1395 dopo l'esito più che soddisfacente del suo viaggio, l'anno successivo il C. era di nuovo a Praga dove risiedette in permanenza nel biennio 1396-1397. Qui, infatti, nel sett. 1396 ottenne da Venceslao un diploma che investiva Gian Galeazzo della contea di Pavia; qui dimostrò le sue sottili capacità diplomatiche nelle trattative per l'incoronazione del re di Boemia; qui, quasi a ricompensa e suggello dell'abile attività, ricevette da Venceslao IV la concessione dell'antica contea di Sant'Orso, nel distretto vicentino, rimasta vacante fin dalla morte dell'ultimo conte, Beroardo Maltraversi, avvenuta nel lontano 1290.
Anche se Venceslao agì probabilmente spinto dalle necessità di appoggi economici e politici, resta il fatto che il documento, emanato a Praga il 13 ott. 1396, è un atto di grande munificenza che si spiega solo presupponendo legami stretti tra il C. e l'Impero, magari mediati o provocati dallo stesso Gian Galeazzo. In esso infatti l'imperatore crea il C., che chiama "consiliario fideli nostro dilecto",e "quoscumque per lineam masculinam descendentes legitimos tam natos, quam nascendos, comitem et comites in Sancto Urxio comitatum ... cum universis et singulis iurisdictionibus ... auctoritatibus mero et mixto imperio" (Rossi, pp. 5-7) e gli concede, inoltre, di usare lo stemma del defunto conte Beroardo.
Pochi mesi dopo, il 3 giugno 1397,Gian Galeazzo con atto rogato dal suo segretario e notaio Catelano Cristiani, riconosceva al C. la contea e il 16 giugno rendeva pubblica la nomina comunicandola al capitano e al podestà di Vicenza, città sottoposta al suo dominio dal 1387,a cui ordinava di non intromettersi in alcun modo negli affari e nel reggimento del nuovo conte. Il 4 ott. 1397,infine, il duca ampliava la signoria del C. cedendogli in feudo le terre di Schio e Torrebelvicino dietro versamento di 7.800 ducati che il C. si impegnava a pagare entro sei mesi.
Divenuto signore di così vasta circoscrizione territoriale che comprendeva anche zone non incluse nell'antica contea, il C. allentò, ma, almeno in un primo momento, non interruppe la sua attività diplomatica, delegando parte delle sue molteplici funzioni di governo a suoi rappresentanti come Spinella de Bisontis, che lo rappresentò a Schio nel 1398, e il podestà Matteo Orgiano (o de Aureliano), che nel 1400 dovette, tra l'altro, occuparsi di comporre le discordie nate tra la Comunità di Schio e gli abitanti del Tretto che rivendicavano il proprio diritto all'autonomia. L'ambita posizione conquistata che significava per il C. prestigio e sicurezza economica - le entrate annue che gli venivano dai vari diritti acquisiti erano tali da indurlo a rinunciare al reddito di 700 fiorini resogli da alcune proprietà nel territorio veronese - ebbe un'involuzione non brusca ma costante dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti avvenuta il 3 sett. 1402. La scomparsa del potente duca di Milano, se da un lato segnò infatti il crollo dell'ambizioso progetto di unificazione politica dell'Italia, dall'altro significò anche il contemporaneo e consequenziale risorgere delle ambizioni territoriali sia delle potenze maggiori ormai libere dalla paura dell'egemonia viscontea, sia di quelle minori che proprio per mancanza di forza e peso politico avevano dovuto piegarsi di fronte al colosso milanese. Anche il territorio vicentino, toccato in eredità a Filippo Maria sotto la tutela della madre Caterina, e che aveva subito confermato la sua fedeltà ai signori di Milano, divenne presto ambita preda per i desideri di rivalsa di Francesco Novello da Carrara. Preoccupata dei Carraresi, Vicenza, dopo aver inutilmente chiesto aiuto e protezione a Caterina, decideva, convinta da un violento attacco del Novello, di darsi alla vicina e potente Venezia che il 25 apr. 1404 innalzava in città la bandiera di S. Marco.
La dedizione della vicina Vicenza non sembrò avere, almeno temporaneamente, importanti ripercussioni per il C.: la sua vasta notorietà consigliava, del resto, Venezia a non inimicarsi un così potente personaggio che estendeva la sua influenza da Vicenza a Verona, ma a cercare piuttosto di procacciarsene l'amicizia anche in vista di riceverne un possibile aiuto nella conquista di Verona che, occupata da Francesco da Carrara, ancora resisteva agli attacchi ripetutamente portatigli dai Veneziani che, nell'occasione, si valsero anche del sostegno di un cugino del C., Niccolò figlio di Giacomo. Alla metà di febbraio del 1404 la Repubblica veneta inviò infatti al C. un tal Odorico con l'incarico di confermarlo nei suoi territori a patto dell'assicurazione che egli ponesse "spiritum et mentem suam et totum posse suum ad procurandum et faciendum quod de factis Veronae presto veniamus ad nostram intentionem" (Rossi, p. 23).
Se e in quale misura il C. abbia accettato le proposte venete non è in alcun modo documentato; sta di fatto che pochi mesi dopo, alla fine di giugno, Verona, stroncata dalla fame e dal lungo assedio, si sottoponeva a Venezia decretando così la fine della signoria carrarese. La brevità del tempo intercorso tra l'offerta della Repubblica e la resa di Verona indurrebbe a credere che il C. abbia in qualche modo accolto la macchinazione contribuendo ad accelerare la caduta della sua città d'origine. Ma gli avvenimenti susseguenti impongono di modificare tale opinione.
Il 6 maggio 1406 il Senato veneto stabiliva di procedere contro il C. accusandolo di tradimento per non aver tempestivamente svelato i piani di suo figlio Ludovico che nascostamente macchinava con altri congiurati per restaurare in Verona la signoria scaligera nella persona di Brunoro Della Scala. Se il silenzio fosse conseguente ad una tacita adesione, o più semplicemente dovuto all'amore paterno, o ancora se l'implicare il C. nella congiura non fosse altro che una macchinazione costruita da Venezia per liberarsi di un personaggio divenuto scomodo perché a conoscenza dei mezzi, non proprio leciti, usati dalla Repubblica per trasformarsi in grande potenza territoriale, non sappiamo. È certo, però, che vi fu una notevole sproporzione tra la colpa imputata al C. e le pene comminategli; egli infatti, spogliato di tutti i beni che possedeva e in qualunque modo acquisiti, di tutti i diritti e le giurisdizioni, veniva relegato in perpetuo e con solo sei persone di seguito nell'isola di Candia con proibizione di varcarne i confini pena la morte per decapitazione.
Anche altri elementi porterebbero poi a credere che l'atteggiamento di Venezia contro il C. fosse, più che giusta punizione, un complotto seppure rivestito di formale legalità o che, se non altro, fortemente risentisse di fatti estranei al comportamento del conte di fronte alla congiura. Nei patti stretti da Vicenza con la Repubblica all'atto della sua dedizione, il Comune vicentino chiedeva infatti a Venezia di essere investito di tutti i vicariati della zona, compreso quello di Schio esplicitamente citato, e che la giurisdizione di mero e misto imperio su terre del distretto vicentino passasse nelle mani di quel Comune. È probabile perciò che tale clausola abbia, se non determinato, almeno contribuito alla cattura del C. che, solo, poteva vantare tali diritti su quel territorio. Si spiegherebbe così anche la parte determinante avuta da due vicentini, Bonaventura di Almerico e Giorgio Anguissola, nella cattura del C. avvenuta, secondo la voce popolare, sulla piazza di Schio dove egli assisteva al gioco del pallone. Se la voce che vuole il C. ucciso nell'agguato sia del tutto vera, non è possibile stabilire, ma l'illogicità e l'avventatezza del comportamento a lui attribuito non contribuiscono certo a sostenerla; resta il fatto che, pochi giorni dopo la condanna del C. e il formale atto di sottomissione con cui gli Scledensi chiedevano al doge veneziano Michele Steno di essere sottoposti al Comune vicentino, la Repubblica stabiliva che la decima percepita dal C. nel territorio di Schio passasse, con diritto di trasmissibilità, a Bonaventura di Almerico e Giorgio Anguissola per ricompensa della fedeltà e dei servizi resi a Venezia "ut obtineremus intentionem nostram" contro l'ormai malvoluto signore di Schio.Da questo momento non si hanno sul C. ulteriori notizie.
Del già nominato figlio del C., Ludovico, che tanto peso ebbe sull'esistenza paterna, bisognerà ricordare ancora che, sottrattosi con la fuga alla repressione veneziana, nel 1409 riprese i contatti con Brunoro Della Scala e Marsilio da Carrara per restaurare gli Scaligeri in Verona, attratto forse dalla idea di recuperare la signoria di Schio. Ma anche questo tentativo si risolse nel nulla.
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