GIONA (lat. Ionas; ebr. Jonah)
Profeta ebreo, sotto il cui nome va uno dei libretti compreso nel volume "profeti minori" (il 5° nell'ordine dell'ebraico e della Volgata, 6° nell'ordine dei Settanta).
La persona. - Da II [IV] Re, XIV, 25 se ne raccolgono le seguenti notizie: G. era figlio di Amittai e nativo di Gat Hefer (Volg., Geth Opher), villaggio posto secondo Giosuè, XIX, 13 sulla frontiera meridionale della tribù di Zabulon in Galilea (conservava il suo nome, per testimonianza di S. Girolamo, nel sec. IV; ora el-Meshhed, circa 5 km. a N. di Nazaret). Era "servo di Jahvè") (cfr. Giona, I, 9) e profeta, ossia propugnava il puro monoteismo, e in nome di Dio parlava al popolo ebreo. In tale funzione aveva predetto che le frontiere d'Israele sarebbero portate alla massima estensione dei bei tempi antichi; ciò che riuscì al forte ed abile re Geroboamo II (783-743 a. C.). Da questo luogo risulta che il profeta G. viveva nella prima metà del sec. VIII a. C. Altre notizie ci sono date dal libro, di cui diremo, e da poco attendibili tradizioni, che ne collocano il sepolcro quali nella sua patria in Galilea, quali in Assiria, dove intorno alla sua pretesa tomba, venerata ancora dai musulmani, sorse il villaggio omonimo Nebī Yūnus.
Il libro. - Solo fra tutti i libri profetici non contiene discorsi, ma sì il racconto di una missione del profeta, e missione a un popolo straniero, alla lontana capitale dell'Assiria. Sono quattro capi e come quattro atti di un dramma. I. Dio ordina a G. di andare a Ninive a vaticinarne la caduta; ma egli, temendo per sé uno scacco, s'imbarca per fuggirsene lontano verso l'estremo occidente. In punizione è gettato in mare e ingoiato da una balena. II. Preghiera di G. (un salmo vero e proprio) per essere liberato. Dio l'esaudisce e lo fa dal cetaceo restituire vivo alla spiaggia. III. Su ripetuto comando, G. va a Ninive, e annunzia che fra quaranta giorni sarà distrutta. I Niniviti, ravvedutisi, fanno penitenza, e Dio, impietosito, perdona e risparmia la città. IV.G., crucciato al vedere smentite le sue predizioni dalla divina misericordia, si ritira in campagna, augurandosi la morte. A proteggerlo dal sole, Dio fa crescere un fronzuto ricino, ma lo fa presto anche seccare. Nuova ira del profeta per questo. E Dio a lui: "Tu ti commuovi per un ricino, che neppure hai coltivato, e io non devo commuovermi per una città sì grande, ove sono più di centomila fanciulli innocenti e anche tanti animali?". E con queste parole finisce il libro.
I quattro atti sono fra loro intimamente connessi, e tutti convergono verso la lezione finale della misericordia infinita di Dio. Nel IV il profeta si richiama al I, e il motivo che lo fa qui fuggire, là sdegnare, è il medesimo; la stessa via del pentimento e della preghiera salva dall'ira divina in II un individuo, in III la città intera. Invano alcuni critici hanno voluto negare l'unità del libro; soltanto il salmo del capo II (propriamente un inno di ringraziamento per lo scampato pericolo) potrebbe levarsi dal contesto senza danno del senso e avere origine più antica.
G. è il protagonista del libro, ma non si presenta come autore. Chi e quando l'abbia scritto, è impossibile definire, mancando, con l'attestazione estrinseca, sicuri indizî interni. La lingua ha singolarità che però non disdirebbero a un Galileo anche prima dell'esilio. Al sec. III a. C. (v. Ecclesiastico, XLIX, 10) era già da tempo unito con gli altri nel volume dei dodici profeti minori.
Profondi e sublimi sono i due contrasti, in cui s'impernia il passionante dramma di G.: contrasto implicito fra il gretto nazionalismo giudaico e il più liberale universalismo, e contrasto esplicito fra la puntigliosa piccineria dell'uomo e la magnanima indulgenza di Dio. Altri profeti, Elia, Eliseo, Amos, Isaia, per nominare solo i più antichi, hanno compreso nell'orizzonte della loro visione i popoli stranieri, ma in seconda linea, dopo Israele, il popolo eletto. G. invece è da Jahvè mandato esclusivamente allo straniero, alla capitale del temuto e odiato nemico d'Israele. Ivi il profeta forestiero e sconosciuto ottiene fra gl'idolatri successi che nessuno poté vantare fra i suoi connazionali. Una scena di altrettanto vasta conversione di un popolo, di così pronta e cordiale remissione da parte di Jahvè, non si legge negli annali d'Israele. Anche nel primo capo, dove marinai e passeggeri esortano G. a invocare il suo Dio, e riconosciuta la causa della burrasca nella giusta ira di Jahvè, a lui si rivolgono con la preghiera e ottenuta la bonaccia gli offrono sacrifizî e voti, è scena d'una rara larghezza d'idee e di cuore. Non è profondamente umano vedere G. corrucciarsi perché il perdono concesso alla città gli sembra menomare il suo credito di profeta. Ma quanto ancor più commovente veder Dio, anche contro le predizioni del suo ambasciatore, così presto e largamente condonar tutto, e degnarsi mostrare al suo servo il suo torto!". Per tali insegnamenti il libro di G. terrà sempre un cospicuo posto nella storia delle idee religiose. A mettere in rilievo queste poche e nitide idee è tutto ordinato il racconto, e quanto a tale scopo non serve è del tutto taciuto. Quindi niente leggiamo della sorte della nave, niente più dei passeggeri, neppur si nomina la spiaggia dove G. fu rigettato, né il re di Ninive allora regnante, nulla si dice su ciò che fu di G. dopo la paterna lezione ricevuta da Jahvè. È fatto da tenere in conto nella questione letteraria.
Carattere. - È pura e semplice storia tutto ciò che racconta il libretto di G.? Sì, pensarono israeliti e cristiani sino alla soglia del sec. XIX. Gesù opponeva alla durezza dei Giudei contemporanei l'esempio dei Niniviti convertiti da G., sulla stessa linea che il fatto della regina Saba andata a trovar Salomone (I Re, X) e paragonava la propria sorte a quella del profeta: "Come G. stette nel ventre della balena tre giorni e tre notti, così il figlio dell'uomo rimarrà tre giorni e tre notti nel cuor della terra" cioè nel sepolcro (Matteo, XII, 40, 41). I pagani, specie i filosofi come Porfirio, si beffavano dei miracoli di cui sembrano tessute le avventure di G.; ma S. Agostino opportunamente rispondeva (Lettera CII, 7) che se essi ammettevano la possibilità del miracolo e molti ne attribuivano ai loro eroi, come Apollonio di Tiana e Apuleio di Madaura, non avevano ragione di negar questi. Perciò il dubbio o la negazione sul carattere storico del libro di G. venne solo ai tempi moderni, quando dagli uni si negò semplicemente l'ispirazione biblica e il miracolo, dagli altri si comprese alquanto diversamente l'intervento di Dio negli avvenimenti umani. Ne sorsero quindi varie interpretazioni, fuori della storica, che si possono ridurre a tre generi: il mitico o leggendario, il simbolico, e il didattico.
Già nell'antichità S. Cirillo d'Alessandria (cfr. Migne, Patr. Gr., LXXI, col. 616) aveva notato la somiglianza del fatto di G. ingoiato e restituito dal pesce col mito greco di Ercole divorato dal mostro marino ma uscitone illeso (v. Licofrone, Alessandra, vv. 33-38) quando andò a liberarne Esione. I moderni comparatisti hanno proposto altri raffronti: Perseo che libera dal dragone Andromeda esposta appunto sulle scogliere di Giaffa, donde G. si imbarcò; Arione salvato dal delfino, Giasone, che su m vaso trovato a Cere (ora nel Museo etrusco in Vaticano) esce salvo dalle fauci di un serpente; l'uomo-pesce Oannes dei Babilonesi presso Beroso; altre leggende indiane ed africane. Ma l'analogia non va oltre il primo capo né tocca la sostanza di G., e il concetto ispiratore è diverso.
Per l'interpretazione simbolica E. König, che ne è il principale sostenitore, invoca altri esempî biblici, specialmente Geremia, XXV, 15-29, che servirà a comprenderne la natura. Geremia riceve da Jahvè, Dio d'Israele, l'ordine così concepito: "Prendi dalla mia mano questa coppa di vino effervescente, e danne a bere a tutte le genti alle quali io ti mando. Esse ne dovranno bere e barcollare e smaniare per la spada che io getto in mezzo a loro. Ed io (narra il profeta) presi la coppa dalla mano di Jahvè, e la feci bere a tutte le nazioni alle quali mi mandò Jahvè"; segue una lunga lista di città e popoli. Geremia (è chiaro) non fece altro che denunziare stando a Gerusalemme, i castighi che Dio avrebhe mandato ai popoli, e la girata della coppa non è che una drastica figura di tal minaccia, destinata a far più impressione. Perché non si sarebbe svolta in ugual modo, per pura prosopopea, la missione di G. a Ninive? Ma è da osservare che una metafora di quel genere può sostenersi, come in Geremia, per pochi versi in quelle semplici linee generali, non per una lunga e circostanziata narrazione come in G. Inoltre la denunzia di sciagure, raffigurata nella coppa dell'ira divina, Geremia in realtà la fece, e la leggiamo ancora nel suo libro; ma la missione a Ninive con la conseguente conversione degli abitanti, come si concepisce senza una reale andata a quella capitale?
A fianco e quasi a rinforzo di questa si pone talora l'interpretazione allegorica: G. rappresenterebbe il popolo d'Israele incaricato di una missione religiosa presso i popoli pagani. Sebbene però non sia da dubitare di tale missione, l'allegoria non si lascia applicare al più dei fatti e circostanze che formano la trama di G.
È indubitato, e si è messo più sopra in rilievo, che precipuo, se non unico, scopo dell'autore di G. è dare una elevatissima lezione religiosa e morale: che la religione di Jahvè, la vera religione, non è privilegio esclusivo di una sola nazione, ma tutti vi sono chiamati, e tutti se si volgono di cuore a Jahvè, sono da lui bene accolti. Ora una verità religiosa o morale si può insegnare ed inculcare con narrazioni finte di apologhi o parabole: e così appunto usò Gesù ammaestrare il popolo nelle sue inimitabili parabole. Anche la missione di G. a Ninive potrebbe dunque essere non più che una parabola, una finzione inventata per il detto scopo didattico. Così pensano oggi anche alcuni cattolici (van Hoonacker, Condamin, Gigot, Holzhey, Lesêtre); e non si può negare in astratto la possibilità della soluzione. Tuttavia nel caso concreto, trattandosi di una verità tangibile (vocazione delle genti e remissione della pena) varrebbe l'osservazione già fatta da S. Agostino (Lettera CII, 34): "se eccitano la fede le cose dette solo in figura e non accadute in realtà, quanto più sarebbe opportuno eccitarla con fatti realmente accaduti!".
Cosicché una vera prova contro il carattere storico del libro di G. non fu ancora portata. Il miracolo non è da sé una ragione per negarlo, e in G. vero miracolo è solo la conservazione del profeta nello stomaco del cetaceo. Negli altri fatti o c'è solo coincidenza provvidenziale, come la tempesta, appena G. imbarcato, la ricerca del colpevole per mezzo della sorte e cader la sorte sopra G., ecc.; o non si vogliono troppo stringere le parole, come il ricino "di un giorno". In buona critica né si può eliminare il miracolo dalla Bibbia, né si deve esagerare.
Nell'arte. - Per la sua importanza religiosa, a cui già accennammo, e specialmente perché presa a simbolo della morte e risurrezione di Cristo, la figura di G. fu un motivo prediletto della primitiva arte cristiana; lo si vede riprodotto innumerevoli volte negli affreschi delle catacombe, nei sarcofagi, nelle gemme, nelle terrecotte, nei bronzi, e persino nelle lampade. Per lo più è rappresentato nell'atto di uscir salvo dalle fauci dell'animale marino; ma s'incontra pure al contrario nel momento di essere ingoiato ovvero (men di rado) mentre si adagia all'ombra delle frasche dopo la missione.
Bibl.: I commenti ai profeti minori: A. Knabenbauer, I. van Hoonacker, E. Sellin (v. abacuc); speciali a G.: J. Doeller, Vienna 1912; G. Dodson, Londra 1916; D. Velluti-Zati, Siena 1916; D. T. Evans, Londra 1925; G. E. Hageman, Boston 1927; V. Ermoni, in Dictionnaire de la Bible, Parigi 1912, III, ii; A. Condamin, in Dict. apolog. de la foi cath., Parigi 1911, II; H. Leclercq, Dict. d'archéol. chrét. et liturgie, Parigi 1927, VII, ii; E. König, in Hastings, Dictionary of the Bible, s. v. Jonah, Bonus, Dict. of Christ and the Gospels; varî articoli di H. Lesêtre, in Revue pratique d'apolog., 1909, pp. 923-28; S. Diego, in Razon y Fé, LII (1918), pp. 5-16; Fr. J. Lamb e Fr. W. Mozley, in Bibliotheca sacra, LXXXI (1924), pp. 152-200; A. J. Wilson, in Princeton Theol. Rev., XXV (1927), pp. 630-42; XXVI (1928), pp. 618-621; I. Zoller, in Studi e materiali di storia delle religioni, VII (1931), pp. 48-58; H. Schmidt, Jona: eine Untersuchung zur vergleichenden Religionsgeschichte, Gottinga 1907; E. J. Sewell, The historical value of the Book of Jonah, in Transactions of the Victoria Institute, LXI (1924), pp. 41-96.