Gioco
Il termine gioco definisce qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti, senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago, esercitando e sviluppando allo stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive. Il gioco è un'attività di notevole importanza anche nei processi di sviluppo di molte specie animali, per le quali rappresenta una fondamentale forma di apprendimento.
Molte specie animali mostrano comportamenti ai quali viene spontaneo attribuire carattere di gioco. Tuttavia, risulta molto problematico dare una definizione operativa del comportamento ludico: l'obiettivo immediato del gioco è la gratificazione di chi lo esegue e non il raggiungimento di altri fini, e poiché non si può sapere se un animale stia svolgendo una certa attività sul serio o per gioco riesce difficile distinguere comportamenti che sono simili, ma che scaturiscono da motivazioni differenti. Per stabilire tale distinzione possono essere di aiuto alcuni criteri, riferibili al gioco come atteggiamento mentale e comportamento contrapposto al 'fare sul serio': 1) in genere, il gioco non è una sequenza formalizzata di eventi e la sua struttura è meno definita di un qualsiasi altro comportamento; 2) durante il suo svolgimento, gli schemi motori possono configurarsi in sequenze differenti da quelle che ricorrono in attività similari, in contesti funzionali che hanno un obiettivo utilitaristico; 3) gli elementi che compongono una sequenza possono essere enfatizzati e le sequenze stesse possono ripetersi molte volte; 4) le sequenze di eventi, diversamente da quelle dei comportamenti non ludici, possono essere interrotte e riprese senza regole fisse; 5) il gioco non manifesta altri scopi immediati se non sé stesso; 6) è più frequente negli animali giovani che in quelli adulti; 7) può iniziare senza un apparente motivo o causa esterna; 8) l'inizio e la fine del gioco possono avvenire in modo repentino, e, inoltre, si può passare da un tipo di gioco a un altro in tempi brevissimi; 9) il gioco sociale può prendere l'avvio con un comportamento di invito.
Se l'attività ludica non ha scopi immediati diversi dal piacere che se ne trae, può tuttavia avere altri fini, o quantomeno comportare altri vantaggi, a lungo termine. È opinione ampiamente condivisa che gli animali giovani giochino per esercitare comportamenti e abilità utili alla vita da adulti. E infatti le forme motorie che compaiono nel gioco si presentano anche in altri contesti funzionali, come per es. nella caccia (tipico è il caso dei felini), nelle interazioni agonistiche, nell'accoppiamento. La differenza è che nel gioco le sequenze sono spesso interrotte o mescolate tra loro e sono di solito accompagnate da ripetuti segnali che sottolineano le intenzioni amichevoli (per es. le scimmie hanno un'espressione facciale particolare, detta appunto di gioco).
Il gioco sembra inoltre favorire un armonico sviluppo psicologico, motorio, sensoriale e sociale. L'esplorazione e l'attiva manipolazione incrementano le abilità percettive e discriminative, favoriscono l'apprendimento, migliorano le capacità motorie e di coordinamento e permettono la conoscenza del mondo esterno animato e inanimato. Il gioco sociale aiuta l'integrazione nel gruppo in quanto permette di conoscere e sviluppare legami con i membri della stessa specie e apprendere i comportamenti sociali e le relazioni che esistono fra di essi. Giocare comporta però anche svantaggi, come un sensibile consumo di energia, un aumento dei rischi di predazione e di danni fisici, un dispendio di tempo, sottratto ad altre attività. Secondo alcune stime, la maggior parte dei Mammiferi in condizioni naturali trascorre dall'1 al 10% del tempo giocando. Da questo dato si ricava che l'incremento metabolico dovuto al gioco è pari a 1,4-4 volte la spesa energetica calcolata a riposo. Il costo energetico del gioco può diventare eccessivo e comportare perdita di peso o rallentamento della crescita in caso di scarsità delle risorse alimentari; in tali condizioni esso tende a divenire meno frequente.
Considerando la scala evolutiva, sebbene alcuni etologi abbiano descritto comportamenti apparentemente ludici anche tra i Pesci, oggi si ritiene che l'attività giocosa sia presente solo nelle specie dotate di un cervello relativamente sviluppato, caratterizzate da flessibilità comportamentale, e nelle quali apprendimento e pratica svolgano ruoli importanti nell'ontogenesi del comportamento adulto. Di gioco vero e proprio pare dunque si possa parlare solo per gli Uccelli e i Mammiferi. In queste due sole classi si assiste infatti a un prolungato stadio di giovinezza e di dipendenza dalle cure parentali: tali due fattori, tipici delle specie filogeneticamente più avanzate, sono in diretto rapporto con un lungo periodo di immaturità, durante il quale gli animali dedicano molto tempo all'attività ludica.
Negli animali, il tipo di gioco più comune è quello sociale (lotte corpo a corpo, inseguimenti, moduli del comportamento sessuale e di allevamento della prole ecc.). Il gioco individuale consiste in manipolazione ed esplorazione di oggetti, acrobazie di tipo motorio, inseguimenti di prede (vere o finte che siano). Tra gli animali in condizioni di vita naturali sono assenti, anche nelle specie più vicine alla nostra, i giochi di squadra (in cui i diversi individui assumono di concerto ruoli diversi) e il gioco 'serio' (gli anglosassoni usano la locuzione mastery play) caratterizzato da notevole concentrazione e attività intellettuale. Scimmie antropomorfe, allevate in laboratorio o in giardini zoologici in situazioni particolarmente stimolanti, fanno giochi inusuali, come rivolgere buffe espressioni alla propria immagine riflessa in uno specchio, camminare tappandosi gli occhi con la mano in modo da rendersi più difficile il passaggio su tronchi sospesi, complicati giochi con oggetti, e addirittura videogiochi al computer.
1.
Il termine gioco ha il potere di evocare situazioni piacevoli e ricche di potenzialità creative, alternative a ciò che si considera impegno (per es., lo studio per un ragazzo o il lavoro per un adulto). Le funzioni del gioco, in realtà, vanno oltre la sfera del disimpegno individuale e collettivo, costituendo la struttura portante dello sviluppo affettivo, cognitivo e sociale degli individui giovani di molte specie animali (v. sopra) e della specie umana. Proprio perché la varietà e la peculiarità dei comportamenti definibili come ludici sono considerate rispondenti a bisogni fondamentali dell'individuo, le funzioni del gioco sono diventate oggetto di studio per gli psicologi. All'inizio del 20° secolo, in pieno clima culturale evoluzionistico, K. Groos, professore di Filosofia a Basilea, affascinato dagli schemi di comportamento istintivi mobilitati nella lotta per la sopravvivenza, ha ipotizzato che negli animali superiori, alla nascita immaturi, il gioco serva a mettere alla prova capacità utili all'adattamento ambientale. Più tardi K. Lorenz, avendo osservato le specie animali in ambiente naturale, sottolineò come la specie umana, caratterizzata da comportamenti non specializzati e particolarmente flessibili, abbia bisogno di esercitare la tendenza a esplorare realtà sempre nuove estraendone le caratteristiche distintive. Il gioco, praticato dagli esseri umani soprattutto nella giovinezza, serve dunque a esperire situazioni nuove in nuovi ambienti in cerca di soluzioni ottimali. Man mano che si passa dall'infanzia dei Primati all'infanzia dell'uomo il gioco assume sempre più le caratteristiche di un'attività con funzioni di apprendimento, è finalizzato alla conoscenza e alla competenza e ha strutture che lo rendono ripetibile. Secondo J. Bruner, studioso dello sviluppo cognitivo, il gioco serve a minimizzare emotivamente le conseguenze di azioni non sempre idonee alla soluzione di problemi, diventando anche occasione per tentare nuove combinazioni comportamentali per il giovane individuo che si avvicina ai modelli adulti. Il gioco inoltre crea una relazione fondamentale fra ciò che è reale e ciò che è immaginario. Dalla trasformazione simbolica del reale, insita nel gioco, discendono importanti conseguenze: il gioco può insegnare la natura delle convenzioni e diventare così un vero e proprio apprendimento di competenze utili al raggiungimento della maturità psicosociale (Play. Its role in development and evolution 1976).
2.
Le caratteristiche del gioco cambiano durante la crescita dell'individuo, in quanto dipendono dai periodi dello sviluppo socio-affettivo-cognitivo in cui si manifestano, esercitando però su questo un'influenza di fondamentale importanza. Si può infatti affermare che, con il gioco, l'individuo evidenzia le proprie potenzialità esplorative, creative e costruttive della realtà interiore ed esterna. Nei bambini di età compresa tra la nascita e i 18 mesi circa, si osserva il gioco d'esercizio che ha sempre più il carattere di una vera e propria esplorazione del mondo circostante e diventa banco di prova delle capacità sensomotorie (Piaget 1936). Ben presto, infatti, il lattante, che ripete un'azione per il solo gusto di ripeterla (per es. battere ritmicamente un bastoncino su una superficie), finalizza la sua azione al raggiungimento di uno scopo (per es. tirare una fune per far muovere un pupazzo sospeso sulla culla) e provare quindi il piacere non solo di provocare una realtà desiderata, ma di agire sulla realtà attraverso la sua presenza e la sua volontà. L'esplorazione e l'azione sugli oggetti crea una mobilità degli schemi conoscitivi che risulta di grandissima importanza per la crescita psicologica.
Tale crescita è comunque anche dipendente dall'ambiente affettivo che circonda il piccolo. Molti giochi caratteristici di questo periodo si sviluppano dal rapporto del bambino con l'adulto che si prende cura di lui: genitori affettuosi conoscono bene come il proprio figlio provi piacere a essere manipolato, o a fare il caratteristico gioco del 'cucù', o a essere lanciato in aria (gioco che coinvolge quasi sempre la diade padre-bambino). L'adulto attento, inoltre, stimola il bambino a giocare per conoscere, offrendogli oggetti nuovi, diversi per forma e colore (Petrie 1987). Più intenso è il rapporto ludico del bambino con il proprio corpo e con gli oggetti, più sarà facilitato il passaggio verso il gioco simbolico (cioè il gioco del 'far finta di ...'), che è tipico dell'intelligenza rappresentativa - quando l'individuo è in grado di immaginare una qualsiasi realtà anche se non presente e tangibile - e costituisce un fenomeno prettamente umano (Piaget 1945). La finzione è caratterizzata dall'uso dei concetti già posseduti (per es. quello di casa) per classificare una realtà o un oggetto diverso (per es. una scatola), senza che vi sia un cambiamento di essi (ovvero, il riconoscimento dell'oggetto scatola con le esclusive prerogative di contenitore). Per un bambino una scatola può rappresentare una casa perché alcune caratteristiche (per es. la forma cubica) ne evocano le pareti e il tetto; la scatola diventa, dunque, per il bambino che gioca, una casa maneggevole da spostare a piacimento, nella quale si può entrare di nascosto dai grandi, far abitare le bambole, raccogliere i giocattoli. All'inizio, il gioco simbolico, proprio in quanto creazione soggettiva, viene praticato dal bambino soprattutto quando è solo, ma ben presto, con l'entrata nella scuola materna, diventa gioco di gruppo. Nel gruppo, il 'far finta di ...' può riguardare la riproduzione più o meno fedele (le varianti sono tipiche di questa attività ludica) di situazioni vissute in famiglia o ascoltate (favole) o viste alla televisione: tende cioè a sviluppare quelli che G. Fein (1981) chiama sociodrammi. Gruppi di bambini più o meno numerosi hanno, infatti, la capacità di ricostruire vere e proprie situazioni sociali, all'interno delle quali personaggi reali (per es., genitori, parenti, amici ecc.) o fantastici (per es., fate, streghe, animali parlanti ecc.) vengono rievocati attraverso una peculiare esperienza affettiva e cognitiva. La ricostruzione degli eventi, mediante la simbolizzazione, è considerata una capacità infantile molto importante per lo sviluppo delle interazioni sociali (Pepitone 1980). La creazione di una situazione immaginaria non costituisce un evento fortuito, perché si tratta dell'emancipazione del bambino dai vincoli situazionali. Attraverso il gioco diventano possibili le più grandi conquiste affettive e cognitive che domani costituiranno le fondamenta di ottimali livelli di azione nell'ambiente sociale. Dal momento che il gioco simbolico crea nuove connessioni tra gli oggetti e le azioni, trasformando la coscienza e la conoscenza degli eventi, possiamo considerare questa attività infantile come basilare per facilitare il pensiero astratto tipico dell'età scolare (Play. Its role in development and evolution 1976). Tra i bambini dai 3 ai 6 anni di età si sviluppano, inoltre, i giochi che ripropongono i ruoli sessuali tipici della società degli adulti: così le bambine organizzano pranzi con sassolini ed erbetta e i bambini immaginano di essere coraggiosi poliziotti alle prese con qualche ladro.
3.
Il gioco non è caratterizzato soltanto dall'inventiva di chi lo pratica: comporta infatti delle regole che lo rendono ripetibile e tramandabile. Le regole sono vissute e praticate dal bambino in maniera molto diversa durante la crescita infantile e J. Piaget (1932) ne ha evidenziato le caratteristiche generali osservando bambini di varie età alle prese con il gioco delle palline. Per quelli più piccoli (all'incirca fino ai 4 anni), le regole del gioco possono essere considerate come abitudini individuali che si esprimono in rituali motori (primo stadio); in questo periodo il bambino gioca prevalentemente da solo, pur stando con altri coetanei. In seguito (fino ai 6 anni circa), nel periodo chiamato da Piaget egocentrico (secondo stadio), il bambino segue regole ricevute dall'esterno e quindi codificate, ma, pur giocando in gruppo, gli è difficile mettere in relazione le sue azioni con quelle altrui; infatti, non ammette di perdere e può ritenere di aver vinto contemporaneamente agli altri compagni. Nello stadio chiamato della cooperazione (terzo stadio), i bambini non giocano più solo per vincere, ma per entrare in contatto con i compagni e vincerli; è quindi presente la preoccupazione di codificare le regole che permettono di mettere in relazione le prestazioni di vari individui. La regola è vissuta come sacra e inviolabile sia nel secondo sia nel terzo stadio, mentre viene considerata come dovuta al reciproco consenso, e quindi soggetta a cambiamenti, nel quarto stadio, quello che Piaget chiama della codificazione: i bambini non cercano più soltanto di cooperare, ma provano interesse per il significato stesso della regola, che nasce dalla volontà di un gruppo di individui.
4.
La complessità è fonte di grande attrazione per tutti gli individui che giocano, tanto bambini quanto adulti. Sia che un bambino esplori l'ambiente nei primi mesi di vita, sia che crei fantastiche storie e drammatizzazioni, sia che elabori regole per divertirsi con un gruppo di amici, è la difficoltà delle procedure a determinare il fascino e la fruibilità di un gioco. Vediamo bimbi d'età inferiore a un anno di vita gettare un oggetto il più lontano possibile per andarlo poi a riprendere con sforzo, al di là di pile di cuscini oppure della reticella del box, o bambini più grandi lanciare in alto una palla e battere più volte le mani davanti e dietro la schiena prima di riprenderla, o saltare stando ben attenti a non uscire dai bordi 'magici' di riquadri tracciati sul pavimento. Il gioco 'facile' non ha senso perché è la destrezza che dimostra se un individuo ha le qualità del buon giocatore, essendo questa un segnale della capacità di incidere sulla realtà individuale e sociale. La destrezza è sicuramente la caratteristica cui tende il gioco praticato dagli adulti e rappresenta la principale preoccupazione di ogni individuo che desidera giocare.
Sia che si parli del gioco sotto forma di gara sportiva o di gioco da tavolo (per es. gli scacchi) o d'azzardo (carte, dadi ecc.), è opportuno sottolineare come nel gioco degli adulti compaiano tutti quegli elementi che hanno caratterizzato l'evoluzione del gioco infantile, vale a dire la ricerca della complessità nella struttura ludica e la sua costruzione creativa (varianti di uno stesso gioco), l'uso di regole che ne determinano le fasi, e il senso spiccato della competizione attraverso il quale più individui si confrontano. Nella competizione vengono applicate regole riconosciute da tutti i partecipanti, ma la personalità dei vari giocatori rende ogni performance unica e irripetibile. La codifica delle regole del gioco (sia esso una gara sportiva o un gioco da tavolo) e la destrezza di ogni singolo giocatore sono i due poli dell'evento ludico, tramite i quali si esprime il bisogno di agire partendo da una realtà riconosciuta e socialmente condivisa (tradizione) e trovando l'elemento nuovo e originale nella personalità di ciascun partecipante. Il giocatore che diventa un 'campione' rende possibile negli altri una sorta d'identificazione. Nel gioco d'azzardo il risultato è determinato dal sistema probabilistico; il giocatore, tuttavia, fa finta di ignorarlo, nella convinzione di sapere interrompere, con la sua destrezza, le sequenze probabilistiche dominanti gli eventi. L'abilità in questo tipo di gioco è anche accompagnata da una serie di pratiche propiziatorie molto soggettive (per es., chiudere gli occhi prima di lanciare i dadi o sedersi al tavolo della roulette soltanto se si può avere la compagnia di una persona vestita di rosso).
S. Freud (1927) ha sostenuto che il giocatore trova nel gioco d'azzardo un modo di punirsi, ma a questa analisi sfugge come l'affannoso scommettere sull'imprevedibile dia al giocatore attimi esaltanti di senso di 'onnipotenza', che la perdita tutt'al più neutralizza. Un ultimo accenno meritano i videogiochi, che costituiscono, dagli anni Settanta del 20° secolo a oggi, un nuovo 'spazio ludico' per adulti e bambini e hanno avuto un'evoluzione e diffusione quanto mai rapide. Tra questi, i giochi di simulazione rispondono all'esigenza dell'individuo di trovarsi sempre di fronte a situazioni interessanti e stimolanti, mentre i giochi di riflessi e di labirinto finiscono per esaurire il loro interesse in tempi brevi. I videogiochi soddisfano capacità quali la prontezza e il bisogno di gareggiare con compagni reali e immaginari, o con sé stessi, impegnati in prove sempre più complesse.
1.
Un fondamentale tentativo di definizione circoscritta e sistematica del gioco proviene dallo storico olandese J. Huizinga, il cui volume Homo ludens (1938), divenuto negli anni un punto di riferimento irrinunciabile per studiosi provenienti da diverse discipline e per gli antropologi in particolare, operò una sorta di rivoluzione copernicana nell'approccio al tema del gioco. Per Huizinga il gioco è il centro di propulsione di tutte le attività umane, una sorta di big bang primordiale nella cui forma nascono i 'pianeti' arte, letteratura, teatro, diritto, scienza, religione, filosofia e quanto è possibile contemplare nelle civiltà umane. Non solo, questi pianeti vivono e progrediscono solo nella misura in cui continuano ad alimentarsi dalla fonte fecondatrice che li ha generati: "La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata [...]. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme sopra-biologiche che le conferiscono maggior valore" (trad. it., pp. 78-79). In tale quadro il gioco acquista l'ipertrofia di "fatto primario, oggettivo, percepibile" che si sottrae al giudizio dello storico, il quale può solo rintracciarlo nelle pieghe culturali del sacro, dell'arte, della scienza, della vita pubblica nelle quali si è nascosto, cristallizzato o dissolto.
E proprio perché la ricerca storica risulti fruttuosa, Huizinga delinea il suo concetto di gioco, ovvero un'attività in un certo senso fisiologica ma che riesce a travalicare, anche nel mondo animale, i limiti dell'attività biologica, in quanto non si connette a finalità di sopravvivenza o di sussistenza. Il gioco, come si può desumere anche dall'osservazione del comportamento ludico nei cuccioli di molte specie, che si lanciano reciprocamente segnali somatici di invito, è una attività: 1) libera, cui l'individuo aderisce per propria scelta; 2) capace di instaurare una consapevole realtà fittizia diversa da quella della vita ordinaria; 3) disinteressata, in quanto non congiunta a interessi materiali o di sopravvivenza; 4) dotata di una precisa 'dimensione spazio-temporale' (l'arena, il tavolo, il 'cerchio magico', la scena, e altri 'mondi provvisori'), nella quale l'individuo compie azioni particolari sotto l'egida di un ordine perfetto, assoluto e temporaneo; 5) articolata secondo un sistema di regole specifiche, artificiali e inderogabili cui il giocatore si assoggetta sempre per libera scelta. Tale assoggettamento, anche nelle forme più elementari del controllo volontario della propria muscolatura fisica, nella lotta giocosa tra cuccioli, riflette l'essenza dell'in-lusio, l'essere nel gioco: la trasgressione palese delle regole comporta il crollo dell'intero mondo provvisorio.
Le indicazioni teoriche e il tentativo di definizione di Huizinga costituiscono il punto di partenza del fondamentale contributo di R. Caillois, eclettico studioso francese che si è occupato, trasversalmente, anche di discipline socioantropologiche. Il suo volume Les jeux et les hommes (1958), con il quale intendeva fondare una sociologia che partisse dai giochi, sembra muovere da una accettazione sostanziale delle caratteristiche peculiari della definizione di gioco di Huizinga. I rilievi critici riguardano il fatto che tale definizione, essendo nel contempo 'troppo ampia e troppo circoscritta', porta a una sottovalutazione dell'altro grande problema della classificazione: nel quadro di Huizinga i singoli giochi, sostiene Caillois, si perdono e si appiattiscono come se fossero il frutto di medesime necessità e tensioni psicofisiche (prevalentemente agonistiche). Inoltre l'aver ritenuto che all'attività ludica non dovesse essere congiunto alcun interesse materiale ha spinto Huizinga a trascurare i giochi d'azzardo e a sottolinearne solo la sterilità culturale. Caillois si dichiara pertanto insoddisfatto delle classificazioni tradizionali; esse infatti possono dividere i giochi in base a pertinenze moltiplicabili a dismisura: strumenti, luoghi di gioco, numero, sesso, età dei giocatori ecc. In una tale congerie 'grammaticale' di possibili caratteristiche uno stesso gioco può cadere in diverse tipologie. Caillois propone invece una classificazione che potremo definire 'sintattica', in sintonia con gli indirizzi formalstrutturalisti, scaturiti dalla linguistica formale novecentesca, che avevano contraddistinto in campo antropologico importanti studi sul mito, sulla fiaba, sui sistemi di parentela, sul rito ecc.
Le categorie proposte da Caillois sono pertanto solo quattro: l'agon, o competizione, l'alea o caso (chance), la mimicry o imitazione/simulacro, l'ilinx o gorgo, vertigine. Quattro 'ludemi' irriducibili, principi di base che caratterizzano tanto i giochi quanto la disposizione del giocatore. In queste categorie, anche associate binariamente tra di loro, cadono di fatto tutti i giochi possibili. I giochi inoltre si muovono lungo due piani fondamentali e diversi di tensione, due modi di giocare: la paidìa (senza regola) e il ludus (con regola). Non è vero, dice Caillois, che non esistono giochi senza regole, anzi, soprattutto nell'infanzia, il chiasso, il movimento fisico tumultuoso e disordinato sembrano gli esiti più desiderati nel giocare. La paidìa si esprime in una 'libertà prima, originaria' che però rimane in misura variabile come motore indispensabile del gioco anche nelle sue forme più complesse e rigorosamente organizzate come, per es., le competizioni sportive. Le categorie proposte da Caillois sono in realtà principi e tensioni che contrassegnano la gran parte dei comportamenti osservabili nel regno animale: la maschera, per es., come strumento primario della mimicry umana, può essere intesa anche come una possibile esteriorizzazione simbolica delle tecniche di modificazione degli aspetti somatici osservabili a livello etologico. Mimetizzarsi, fingere di essere morti o viceversa assumere una facies orrifica, rizzare il pelo, mostrare muscoli e dentatura sono comportamenti largamente diffusi in diverse specie animali e hanno un indubbio vantaggio adattivo. Così pure i giochi di vertigine, dal girogirotondo all'altalena, alle montagne russe, sono animati da un principio di base che non è privilegio esclusivo dell'uomo: il piacere di perdere i confini della percezione spazio temporale, di abbandonare volontariamente la padronanza del proprio corpo, di sprofondare nel panico voluttuoso, attraverso pratiche fisiche o strumenti extrasomatici, è presente in numerose specie di Mammiferi e di Uccelli.
2. La distinzione tra play e game
L'indeterminatezza del termine italiano gioco, come pure del francese jeu o del tedesco Spiel, non riesce immediatamente a restituire quella distinzione tra gioco spontaneo, irripetibile, occasionale e gioco organizzato, regolato che i termini anglofoni play e game in qualche misura incorporano nei loro (pur sfumati) campi di significato. Sulla base di tale distinzione terminologica sono state avviate importanti riflessioni scientifiche in diverse discipline: basti ricordare, in psicologia, le tesi sulla genesi del Sé elaborate da G.H. Mead (1896). In antropologia, un tentativo di fare il punto sulle implicazioni significative della distinzione tra play e game provenne, nel 1971, da due studiosi statunitensi, E.M. Avedon e B. Sutton-Smith (The study of games 1971), secondo i quali il gioco-play può essere visto come 'un tipo di comportamento'. Risulta utile alla comprensione del concetto l'esemplificazione tratta da Piaget (1945): il bambino T. di 2 mesi ha preso l'abitudine di rovesciare la testa e di guardare il mondo da questa posizione; in capo a qualche settimana il bimbo comincia a divertirsi sempre più per l'azione in sé, mostrando un interesse decrescente per il risultato esteriore, istruttivo (cioè lo scoprire il mondo alla rovescia): ecco dunque che questo tipo di comportamento cessa di essere serio e utilitaristico e diviene un gioco. L''autotelismo', ovvero il carattere disinteressato delle azioni ludiche, sarebbe dunque una delle caratteristiche fondamentali del gioco.
Tuttavia, Avedon e Sutton-Smith ritengono che l'accentuare eccessivamente il carattere non utilitaristico, l'insignificanza del play, fa correre il rischio di sottovalutare le implicazioni biologico-funzionali che comunque il gioco assume per le specie, al di là delle intenzioni e dell'interesse dei singoli individui che giocano: "il gioco è preadattativo: esso prepara il giocatore in generale, ma non in modo specifico. Esso incrementa le forze combinatorie e la gamma di risposte nuove, così che sotto la pressione adattativa il giocatore abbia maggiori risorse a sua disposizione" (The study of games 1971, p. 6). Nella nozione di adattamento deve essere messo in rilievo lo sviluppo del controllo volontario del comportamento; e il gioco-play sarebbe appunto un esercizio dei sistemi di controllo, nascosto dietro il piacere fine a sé stesso del giocatore nello scoprire la propria padronanza fisica, muscolare, psicologica, espressiva. Il gioco-game può invece essere esemplificato da un altro tipico scenario infantile: un bambino di 4 mesi è seduto in grembo alla madre e sta bevendo del latte dal poppatoio; di tanto in tanto si interrompe e afferra un dito della madre, lei si libera e lui le riafferra il dito. Il gioco procede per un certo tempo in questa alternanza di cattura e fuga. In tale caso, dicono Avedon e Sutton-Smith, si può dire che il bambino stia giocando a un game con la madre. Infatti, a differenza del precedente esempio di Piaget, nel 'gioco del dito' sia il bambino sia la madre non sono in piena libertà di seguire stimoli o impulsi: ambedue hanno una gamma limitata di comportamenti, determinata dagli obiettivi che ciascun giocatore ha in mente; madre e figlio sono 'avversari' di gioco, l'uno e l'altra avendo i diversi fini di riuscire nella cattura del dito o di evitarla.
Da un punto di vista culturale, la distinzione tra play e game è di massima importanza: il gioco-play è unico, individuale ed effimero, mentre il gioco-game è sistematico, ripetibile, finalizzato e con risultati prevedibili, anche se produce risultati squilibrati come individuazione di vincitori e vinti o classifiche (The study of games 1971, p. 7). Dati etnografici comparativi portano, per es., a smentire l'asserzione più volte espressa da antropologi e comportamentisti che i giochi-games siano universalmente presenti in tutte le culture. In realtà si sono rilevate culture che non posseggono giochi competitivi: queste non-game cultures sono di due tipi: quelle che non hanno mai avuto games e quelle che li hanno persi attraverso un processo di deculturazione.
Ancora sulla scorta di tale distinzione, nel saggio Games in culture (1959), J.M. Roberts, M.J. Arth e R.R. Bush definiscono il gioco-game come una attività caratterizzata da: 1) un gioco (play) organizzato; 2) competizione; 3) due o più parti avverse; 4) criteri per determinare i vincitori; 5) norme condivise. Sulla scorta di una vasta comparazione etnografica su circa 100 popolazioni nel mondo, Roberts, Arth e Bush ritennero che i giochi-games fossero modelli espressivi di altre attività culturali. In particolare, sulla base dell'analisi della presenza o assenza di certi giochi in società con caratteristiche ben precise, i 'giochi di strategia', come modelli di interazione sociale, potrebbero essere correlati con la complessità del sistema sociale, i 'giochi di sorte', come modelli di interazione con il soprannaturale, alle attività religiose, i 'giochi di destrezza fisica', come rappresentazioni simboliche di attività come la caccia o la guerra, alle attività umane nell'ambiente naturale.
Nella Theory of games and economic behavior J. von Neumann e O. Morgenstern offrono una definizione dei due termini play e game che si discosta notevolmente dal senso comune, rivelandosi tuttavia anch'essa ricca di implicazioni teoriche e metodologiche per gli studi socioculturali: "Innanzitutto bisogna distinguere tra l'astratto concetto di un game e gli individuali plays di questo game. Il game è semplicemente l'insieme delle regole che lo descrivono. Ogni caso particolare in cui il game è giocato [played] - in un modo particolare - dall'inizio alla fine è un play" (von Neumann-Morgenstern 1944, p. 49). La distinzione può insomma ricordare la diversità di significati che noi attribuiamo ai termini gioco, inteso come insieme astratto di regole che lo definiscono (il gioco del calcio, del bridge, degli scacchi), e partita giocata da qualcuno in qualche tempo e in qualche luogo. Per von Neumann e Morgenstern, i giochi propriamente detti sono a somma zero (zero-sum games), ovvero la somma delle vincite e delle perdite dà sempre zero, mentre le relazioni di natura socioeconomica, che possono implicare produzione o distruzione di beni, si configurano come nonzero-sum games.
Diversi studiosi in campo sociale e culturale hanno tentato di utilizzare la Theory of games e il suo apparato concettuale soprattutto per cercare di coniare una più appropriata terminologia interazionale. Molto produttiva appare essere la classificazione dei giochi che discende dalla Theory, interamente basata sul loro grado di informazione strategica. Ci sono giochi deterministici, ovvero a informazione completa, in cui sono note le condizioni di partenza delle singole pedine e tutti i loro possibili percorsi, come il filetto o il tris. In questo caso esiste una strategia ottimale che porta sempre il giocatore che compie la prima mossa a vittoria sicura (o a condizioni di stallo). Ci sono giochi teoricamente deterministici, nel concreto probabilistici (come gli scacchi o, idealmente, i giochi sportivi a squadre), che pur presupponendo posizioni di partenza identiche tra i giocatori, di fatto nello svolgimento concreto delle singole partite aprono, dopo ogni mossa, una tale ramificazione di decisioni possibili da non consentire al giocatore la completezza di informazione necessaria all'elaborazione di una strategia sicura di vittoria. Ci sono poi i giochi probabilistici in senso proprio, a informazione incompleta, come il bridge e la gran parte dei giochi di carte, nei quali, pur essendo del tutto ignote le condizioni di partenza dei giocatori (distribuzione aleatoria di 'mani' sempre diverse), è tuttavia ancora possibile elaborare strategie probabilistiche di vittoria. Infine ci sono i giochi totalmente indeterminati, a informazione nulla, come la gran parte dei giochi d'azzardo, dove non solo non sono note le condizioni di partenza, ma anche l'eventuale conoscenza del quadro delle evenienze o degli scenari possibili, generati da un tiro di dadi o da qualche altro accorgimento stocastico, non arreca al giocatore alcuna informazione utile al tipo di strategia da adottare.
Discende sicuramente dalla terminologia e dai principi classificatori contenuti nella Theory un'importante distinzione strutturale tra rito e gioco che è stata elaborata da C. Lévi-Strauss (1962, trad. it., pp. 43-47) proprio a partire dalla questione dei loro differenti decorsi. Il gioco, sostiene Lévi-Strauss, è definito "dall'insieme delle sue regole che rendono possibile un numero praticamente illimitato di partite". Le gare agonistiche, gli sport a squadre tipo football, hanno pertanto un decorso aperto, non prefissato che mira a disgiungere, a creare disparità e asimmetria tra i partecipanti (vincitori e vinti, classifiche), partendo però da una situazione di ideale simmetria. Il rito invece "stabilisce una asimmetria preconcetta e postulata tra profano e sacro, fedeli e officiante, morti e vivi, iniziati e non iniziati e il 'gioco' consiste nel far passare tutti i partecipanti dal lato della vittoria".
Fra rito e gioco esiste, dunque, un rapporto definibile come simmetrico e inverso: congiuntivo, a decorso deterministico l'uno, e disgiuntivo, a decorso incerto l'altro. Talvolta, sostiene Lévi-Strauss, nelle società etnologiche presso le quali si giocano gare tradizionali o sport occidentali di importazione, quali il football o il cricket, si tende a una sorta di ritualizzazione del gioco: infatti i partecipanti fanno in modo che vinca sempre una certa parte prestabilita, imponendo così al gioco un decorso deterministico che lo rende simile al rituale. Il presupposto contenuto nella Theory, secondo il quale per ogni singolo play individuale e occasionale risulta sempre possibile risalire a un corpus normativo ovvero a un game definito e definibile che lo ha generato, ben si attaglia a un'antropologia paradigmatica, riduzionista o scientista. Viceversa l'immagine di L. Wittgenstein di gioco fluido (1953, trad. it., parr. 81-83), nel quale le regole si costruiscono man mano che si va avanti oppure addirittura si nascondono - come nel caso dei giochi linguistici - allo stesso parlante, è più consona alla vena interpretativista, ermeneutica o postmodernista dell'antropologia, sia per lo studio dei giochi in senso stretto sia per lo studio e la rappresentazione dei fatti culturali in genere.
Una nozione di gioco profondamente relativistica è quella fornita da M. Csikszentmihalyi (1981). Tale nozione non può essere ricavata dalle strutture formali di comportamento, né dal fatto che determinate azioni, norme od obiettivi siano meno 'seri' di altri e che costituiscano una sorta di 'moratoria' dalla realtà: un rocciatore o un giocatore d'azzardo, se compiono mosse sbagliate, possono mettere a rischio la propria vita o il proprio benessere economico. I mondi creati dal gioco non sono dunque meno reali e gravidi di conseguenze di quelli della cosiddetta vita ordinaria. Tutto dipende dallo 'status epistemologico' che l'individuo e le culture stesse attribuiscono ai differenti piani di realtà, che comunque restano sempre delle 'costruzioni relativistiche'. Il gioco pertanto può essere definito molto elasticamente come 'una condizione soggettiva di esperienza' che si basa sulla consapevolezza dell'esistenza di diverse alternative possibili; ovvero 'noi giochiamo [solo] quando sappiamo di stare giocando' e cioè quando siamo consapevoli che gli obiettivi, le norme e le azioni che stiamo seguendo sono liberamente scelti nell'ambito di una gamma numerosa di alternative. È possibile infatti definire gioco l'attività di un operatore di borsa che prende il suo lavoro con spirito ludico, mentre può verificarsi che un calciatore non abbia mai percepito la sua attività come uno sport, bensì come dura necessità o unica, imperativa, chance di vita.
La consapevolezza delle alternative, la percezione, anche solo virtuale, di mondi possibili conferiscono al gioco quell'enorme potere, individuato già da Huizinga, di 'ristrutturare la realtà'. In tale prospettiva sono oggetto di critica da parte di diversi studiosi quelle teorie integrative che vedono il gioco, e in particolare lo sport (ma, in ambito funzionalistico, anche il rito), come mero rispecchiamento della società oppure come valvola di sfogo circoscritta e omeostatica di tensioni e di conflitti generati altrove. Di contro, le teorie innovative evidenziano la capacità del gioco di avere significative ricadute nella vita ordinaria, come mostrano per es., anche in Italia, le numerose esportazioni nel sociale di tratti comportamentali, linguistici, gestuali, maturati negli stadi dalle tifoserie sportive. Inoltre il gioco, soprattutto nelle nostre società occidentali, può costituire talvolta il terreno privilegiato sia per la creazione di nuove mitologie sia per la ricerca di 'azione' rischiosa, semiordalica che in alcuni interstizi marginali o devianti di comunità giovanili può assumere un carattere distruttivo.
V. Turner (1983), riprendendo la nozione soggettivistica di Csikszentmihalyi e ponendosi sulla scia delle teorie innovative, sostiene che il gioco è 'una volatile', talvolta pericolosamente 'esplosiva essenza'; ed è questa essenza che le istituzioni culturali cercano 'di imbottigliare, o contenere', nei canali dei giochi di competizione, di sorte, di simulazione e di disorientamento controllato. Il gioco utilizza e accumula, come in un 'nido di gazza', frammenti, tessere e rimasugli della nostra attività psicofisica ordinaria e li riorganizza, da supremo bricoleur, in fragili ed effimere costruzioni. La sua 'pericolosità' è la stessa dei tricksters, dei buffoni divini nei miti, che irridono in modo apparentemente inoffensivo e fugace: esso possiede 'il potere del debole, un'infantile audacia' nei confronti del forte. Turner riscopre quella caratteristica del gioco che era stata già evidenziata dall'etnologo francese M. Griaule negli anni Trenta del 20° secolo (cit. in Lanternari 1974, p. 199): il gioco è in grado di rappresentare le cose "in modo congiuntivo", ovvero di immetterci nel regno virtuale del come-se, della congettura e della sperimentazione libera delle nostre capacità fisiche e mentali, mentre la vita ordinaria ci offre una modalità indicativa (del come-è) di rappresentare, di sfidare e talvolta di subire il mondo.
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