GIOBBE (ebr. 'Iyyōbh, gr. 'Ιώβ, Vulgata Iob [Alcuni Padri anche Hiob])
Nome del personaggio principale d'un libro della Bibbia e titolo del libro stesso.
Il personaggio. - Fuori del libro che porta il suo nome, G. nella Bibbia è nominato soltanto in Ezechiele, XIV, 14, 20, in Tobia, Xl, 12, 15, e in Giacomo, V, 11, nel primo come esempio di virtù, negli altri due di pazienza, ma senza particolari notizie. Il libro di Giobbe invece racconta ch'egli era un ricchissimo possidente della regione di Hus, aveva sette figli e tre figlie, viveva piamente, era insomma per un Orientale il vero tipo dell'uomo felice. Sennonché la pia vita vissuta dal G. viene calunniata dal śaṭan (l'"avversario") presso Jahvè (Dio), quasi che G. fosse pio per interesse materiale; e allora Jahvè permette, a prova, che il śaṭan faccia cadere su G. le più gravi sventure. Così avviene, per una serie ininterrotta di accidenti, che G. dapprima perde tutta la sua possessione e servitù, poi anche tutti e dieci i figli: ciò nonostante egli accetta sommessamente le disposizioni di Jahvè, e il śaṭan rimane deluso. Rinnovata la prova, G. viene colpito da una malattia deformante, per la quale è costretto, secondo i costumi orientali, a rifugiarsi in un luogo di scarico di immondizie, fra la cenere del fuoco tenutovi acceso per allontanarne i miasmi; ivi, malgrado le istigazioni sarcastiche della moglie, G. non si ribella alle disposizioni di Jahvè. Vengono a trovarlo da lontano anche tre suoi amici, per condolersi con lui, Elifaz il Temanita, Baldad il Suhita, e Sofar il Naamita. Avanti ad essi finalmente G. dà libero sfogo al suo umano dolore, e maledice al giorno della sua nascita e alla sua esistenza: a lui risponde il primo degli amici, e così si svolge attorno all'argomento delle sventure di G. tutto un ciclo di dialoghi, nei quali interviene poi un nuovo interlocutore di nome Eliu, e che sono chiusi infine dalla parola dí Jahvè stesso apparso improvvisamente in una procella. Jahvè approva, in massima, la posizione assunta da G. nella discussione: e in premio di essa e di tutta la sua condotta morale restituisce G. nella felicità di prima, ridandogli il doppio delle sue antiche po5sessioni, lo stesso numero di figli e facendolo vivere per quattro generazioni fino all'età di 140 anni.
Non consta che il nome Giobbe abbia per sé stesso un significato grammaticale: sembra certo che derivi dalla radice 'yb "osteggiare", ma la forma è dubbia, alcuni tuttavia lo ritengono equivalente a un passivo col senso di "osteggiato". Il nome quindi alluderebbe alla sorte del personaggio, osteggiato dal śaṭan. Né si ha maggiore certezza circa la regione di Hus (ebr. ‛Ūṣ), patria di G. Essendo costui chiamato il più facoltoso dei figli d'Oriente (Giobbe, I, 3), verrebbe presentato come di stirpe araba, essendo quello un termine usato spesso dalla Bibbia per designare gli Arabi. Ma tale indicazione è troppo generica, trovandosi nominate nella Bibbia tribù arabe un po' dappertutto attorno alla Palestina. Quindi le ipotesi si sono moltiplicate utilizzando i vaghi accenni di Giobbe, I, 15, 17, oltre ai nomi delle rispettive patrie dei tre amici, e ai dati archeologici extra biblici. Fra questi merita attenzione una tradizione tardiva, ma attestata da più d'un documento (Eusebio, Efrem siro, Peregrinatio Etheriae), che mette Hus fra il Basan e il Hauran; ivi infatti, nei pressi di Tell-‛Ashtarā, parecchi luoghi e cose portano anche oggi il nome di Giobbe.
Il libro. - Nella Bibbia ebraica è posto nel terzo gruppo di libri, detti Kethūbhīm o Agiografi, dopo i Salmi e i Proverbî; nei codici della versione dei Settanta e della Vulgata viene per lo più dopo i libri storici, precedendo anche i Salmi.
Il suo contenuto si può dividere in: un prologo (I-II) e in un epilogo (XLII, 7-17), in cui si narra quanto abbiamo riferito sopra circa il personaggio; un monologo di Giobbe (III) in cui egli maledice alla sua vita; una triplice serie di dialoghi fra G. e i suoi tre amici (IV-XXXI); i discorsi di Eliu (XXXII-XXXVII), interlocutore affatto nuovo; e infine la teofania con i discorsi di Iahvè (XXXVIII-XLII, 6). Salvo il prologo e l'epilogo, che sono in prosa, tutto il resto del libro è in poesia.
L'enorme sproporzione che vi è fra le due parti estreme del libro in prosa narrativa (poco più di 2 capitoli), e la centrale in poesia (circa 40 capitoli), che è priva di ogni elemento narrativo e discute questioni filosofiche, caratterizza l'indole del libro. Il suo scopo non è certamente quello di narrare la storia di G., la quale dal passo su accennato di Ezechiele sembra che fosse largamente nota; bensì è la trattazione delle questioni filosofiche, alle quali tuttavia si è offerta come occasione e spunto la storia del protagonista.
Molti moderni, preceduti da qualche rabbino antico, hanno pensato che la storia di G. sia totalmente fittizia; altri invece ritengono che qualche fondamento storico possa esservi. Certo è che molte particolarità del libro non possono esser prese alla lettera, e sono semplici artifici letterarî convenzionali: ad es., che l'ulcerato Giobbe, steso sulla cenere, istituisse quella regolare accademia di proposte e risposte, tutte in metro poetico, la quale costituisce la massima parte del libro. Eventuali dipendenze del libro da più antiche composizioni egiziane o assiro-babilonesi sono state più volte affermate, per quanto la cosa non sia fuor di dubbio. Si è, così, pensato all'egiziano Carme di uno stanco della vita, che è una sequela di lamenti e augurî di morte a sé stesso; maggiori analogie sono state segnalate col babilonese Poema del giusto sofferente, che comincia con le parole "Io voglio celebrare il Signore della sapienza": vi si tratta di un uomo giusto e pio, che è tuttavia afflitto da molte sventure, da cui è poi liberato dal dio Marduk (ambedue le composizioni in H. Gressmann, Altorientalische Texte zum Alt. Test., 2ª ed., Berlino e Lipsia 1926, rispettivamente p. 25 segg., e p. 273 segg.).
Scopo del libro è discutere uno dei più formidabili problemi morali, quello dell'esistenza del male. Il problema è posto sotto una forma particolare: "Perché soffre chi è innocente?"; ma ben presto assurge a quella più generica: "Perché il male nel mondo?". L'autore quindi considera G., non tanto come individuo, quanto come tipo e rappresentante di qualunque innocente che soffra sventure; spiegare e giustificare eticamente il male che ha incolto G. è spiegare il caso di milioni di altre persone che hanno profonda e sincera coscienza di non avere meritato con la loro condotta morale il male di cui soffrono. Ma l'autore del libro è un ebreo che scrive per il suo popolo, in cui erano diffuse idee speciali su tale questione. Risulta infatti da numerosissimi passi biblici che era ivi assai diffuso il principio della retribuzione materiale, che si potrebbe enunciare così: chi opera il bene vive felice; chi opera il male vive infelice. Ecco quindi che l'autore, facendo discutere tra G. e i tre amici la causa latente delle sue sventure, affida a questi ultimi la difesa del tradizionale principio ebraico; essi perciò, applicando al caso di G. il principio che la sventura è sempre effetto dell'iniquità, dapprima velatamente, poi apertamente sostengono ch'egli deve aver commesso gravi delitti, provocando con essi le sue disgrazie. A G. l'autore affida la tesi opposta: egli, appellandosi al testimonio della sua coscienza, afferma di non essersi macchiato di alcun delitto, e quindi di non trovare in sé alcun motivo delle sue disgrazie. Le rispettive posizioni sono difese con immobile tenacia: gli amici adducono l'autorità della tradizione, per cui sempre si è ritenuto che chi semina il delitto ne miete il frutto (IV, 7-8); G. oppone la realtà dei fatti, per cui non solo gl'innocenti come lui soffrono, ma al contrario i malvagi sono prosperi e felici (XXI, 6 segg.).
Alla fine dei dialoghi di G. con i tre amici l'autore ha soltanto dimostrato che il principio della retribuzione è insostenibile. A questo punto interviene Eliu che, fra altre considerazioni, mette in rilievo che la sventura può anche avere uno scopo medicinale e perfettivo (XXXIII, 19-30; XXXVI, 8-19). Tuttavia i ragionamenti di lui, giovane focoso, sono dialetticamente imperfetti: egli abbozza soltanto la sua tesi, senza concluderla integralmente. A concluderla infatti interviene Iahvè. I discorsi divini argomentano dall'ordine fisico a quello morale: come l'universo visibile è pieno di sublimi fenomeni inesplicabili e che pur testimoniano la mente creatrice di Dio; cosi nell'universo morale il fenomeno del dolore immeritato, anche se inesplicabile, deve testimoniare al suo spirito l'intervento di Dio governatore.
Il testo. - Esaminando il testo di Giobbe sotto l'aspetto paleografico, il fatto più importante che si rileva è la differenza quantitativa del testo originale ebraico da quello della più antica e autorevole delle versioni, la greca dei Settanta. Il fatto, già segnalato, oltre che da Origene nelle sue Esaple, anche da Esichio e S. Girolamo, è stato ristudiato accuratamente sugli scarsi documenti paleografici superstiti dai moderni, e i calcoli fatti hanno stabilito che il testo dei Settanta è complessivamente più corto di circa una sesta parte del testo ebraico. Questa differenza è sorta da aggiunte fatte sul testo primitivo e penetrate solo nel testo ebraico odierno; o piuttosto da abbreviazioni fatte dal traduttore greco, che aveva sott'occhio lo stesso testo ebraico d'oggi? Oggi gli studiosi convengono che nella maggior parte dei casi la differenza è dovuta ad abbreviazioni; il traduttore greco non solo si mostra tecnicamente assai difettoso, ma spesso tende a dare solo un estratto del libro.
Assai più difficile è invece la questione del testo considerata sotto l'aspetto concettuale. Qui si nota in primti luogo una grave irregolarità nello schema dei discorsi fra G. e i tre amici. Questo schema è composto di tre serie di discorsi: nella 1ª e 2ª serie parlano per ordine i tre amici, e a ciascuno puntualmente risponde G.; nella 3ª serie invece parlano soltanto Elifaz e Baldad, ottenendo la solita risposta di G., ma il terzo amico Sofar non compare affatto. Inoltre, mentre l'ultimo discorso di Baldad è straordinariamente breve, la risposta di G. è straordinariamente lunga. Ma, ciò che è più grave, con questo perturbamento di simmetria si unisce un'inversione della posizione dialettica tenuta finora da G. nella discussione: egli, che fino a quel punto aveva sempre asserito di non aver provocato con delitti le sue sventure, e aveva perfino sottolineato il benessere di cui godono i malvagi, improvvisamente (XXVII, 11 segg.) passa a descrivere i varî castighi con cui Dio colpisce in vita questi malvagi.
Molti critici hanno quindi supposto che, nella 3ª serie, la brevità del discorso di Baldad, la lunghezza della risposta di G., la mancanza del discorso di Sofar, e il cambiamento d'opinione di G. abbiano tutte la stessa causa, cioè uno sconvolgimento del testo, per cui parte del discorso di Baldad e di Sofar è passato a G. Altri poi hanno pensato che sia avvenuto anche un accomodamento, praticato a bella posta sul testo primitivo da un seguace del principio della retribuzione materiale: costui, leggendovi l'irritante descrizione che G. faceva del malvagio che gavazza nella prosperità, avrebbe sostituito tale descrizione con quella dei castighi che colpiscono l'empio. Altri infine, pur riconoscendo che il testo deve aver sofferto nella trasmissione, vedono nella brevità del discorso di Baldad e nella mancanza di quello di Sofar un artificio letterario di cui si è servito l'autore per mostrare che i tre amici erano oramai confutati, né potevano più rispondere a G.; la descrizione poi dei castighi dell'empio è spiegata da questi critici, non come un cambiamento d'opinione di G., ma come una minacciosa ritorsione d'argomento ch'egli fa contro di loro.
Altre due parti del testo oggi assai controverse sono l'elogio della Sapienza (XXVII) e tutti i discorsi di Eliu (XXXII-XXXVII). Si è notato che il primo, oltre ad essere molto affine a Proverbî, VIII (e a Ecclesiastico, I, 2 segg.; XXIV, 5 segg.), fa l'effetto d'un masso erratico introdottosi nel libro non si sa come: non appare infatti, in questa esaltazione della Sapienza astratta, nessun chiaro legame che unisca il passo col contesto in cui si trova; anche il suo stile, poi, è notevolmente diverso dal resto del libro. Le stesse osservazioni, e con maggior peso, gravano sui discorsi di Eliu. Essi non sono collegati col contesto, e si potrebbero staccare dal libro senza che la trama generale ne soffra; tanto che né Eliu è nominato nelle altre parti (prologo, epilogo), né dei suoi discorsi tengono conto G. e Jahvè. Sembra inoltre che la chiusa del cap. XXXI, ove G. invoca la diretta testimonianza di Dio, si ricolleghi direttamente con l'inizio del cap. XXXVII, ove effettivamente appare: cosicché il tratto intermedio, contenente appunto i discorsi di Eliu, fa l'impressione d'essere interpolato. A ciò si aggiunga lo stile roboante e prolisso di questo tratto, ben diverso da quello nervoso e austero dei discorsi di G. o dei tre amici. I più dei critici moderni hanno ritenuto aggiunte posteriori o l'elogio, o i discorsi, o ambedue le parti. Ma non sono mancati altri studiosi, peraltro indipendemi e radicali, che hanno sostenuto l'autenticità delle due parti.
Epoca. - A pochi monumenti letterarî umani è avvenuto che si sia tanto spaziato per trovarne l'epoca di composizione, quanto per il libro di Giobbe. Alcuni autori antichi, ad es. Origene, Contra Celsum, VI, 43, lo ritennero anteriore a Mosè; altri, come Isidoro di Siviglia, Etymol., VI, 2, l'attribuirono a G. stesso, che così avrebbe pubblicato quasi le memorie della sua vita: quanto all'epoca in cui G. sarebbe vissuto, alcuni l'assegnarono a quella dei patriarchi, altri a quella dei Giudici. Il Talmūd, Baba Bathrā, 15 a, assegna il libro a Mosè, e questa opinione fu seguita da moltissimi fino al secolo scorso. Col sorgere della critica tali assegnazioni fantastiche furono abbandonate, e si rivolse l'attenzione ad epoche più recenti. Trovandosi in Giobbe, XXII, 24 (XXVIII, 16) menzionato l'oro di Ofir, e risultandoci che da quella regione l'oro fu cominciato a importare solo all'epoca di Salomone (cfr. I [III] Re, IX, 26-28; X, 11), si è giustamente concluso che tale epoca è il terminus a quo da non potersi superare. Non molti tuttavia si fermano a tale epoca; altri critici scendono ai tempi d'Isaia, di Manasse, di Geremia, dell'esilio babilonese, e perfino di Alessandro Magno.
Argomenti decisivi su tale argomento mancano; i seguenti dati di fatto sono sfruttati dagli studiosi a seconda delle teorie e principî personali. È certo che Giobbe è tale capolavoro di lingua e di stile, che accusa un periodo d'oro della letteratura ebraica; ma gli studiosi non convengono nel fissare esattamente i limiti di questo periodo. È anche evidente l'affinità che esiste fra l'imprecazione che fa G. alla propria vita (III, 3 segg.) e quella di Geremia XX, 14 segg.; ma, in primo luogo, tale affinità non significa dipendenza scambievole, potendo esservi dipendenza da una fonte comune più antica: ma, supposta anche la dipendenza scambievole, dipende Geremia da Giobbe, o viceversa? Infine, un altro dato sicuro, che rappresenta il terminus ad quem sotto il quale non si può scendere, è offerto da I Cron., XXI,1, ove il personaggio del prologo di Giobbe, il śaṭan, non è più chiamato col nome comune preceduto dall'articolo, ma con lo stesso nome divenuto personale e senza articolo, śaṭan; il quale fenomeno esige indubbiamente un certo periodo di tempo in cui il vocabolo cessò d'esser nome comune, cristallizzandosi in nome personale. Ma anche quest'argomento non evince la questione; quanto tempo infatti durò tale periodo di cristallizzazione, e quando precisamente furono scritte le Cronache (v.)? Altri argomenti, specialmente storici, addotti dai critici sono anche più incerti dei precedenti.
Ma se ignoto è e sarà l'autore di Giobbe, certamente egli fu non solo uno spirito nobile e generoso, ma anche di cultura straordinaria per i suoi tempi. Egli tratta argomenti di astronomia, cosmologia, zoologia; si mostra attento osservatore sia dei fatti naturali, sia dei fatti sociali; analizza con fredda penetrazione il cuore umano. Lo stesso argomento principale del suo libro, il problema del male, è discusso con una passione che si comunica, alla distanza di tanti secoli, anche al lettore moderno; e nello stesso tempo egli porta nella discussione quella sicura libertà di spirito, che poté sembrare audacia ribelle ai molti suoi connazionali seguaci del principio della retribuzione materiale. Onde il suo libro è risultato uno di quegli scritti che rimarranno per sempre nel patrimonio letterario dell'umanità.
Bibl.: Astraendo da antichi espositori (ad es. S. Gregorio Magno, la cui celebre Expositio in lib. Job sive Moralium libri XXXV, in Patr. lat., LXXV-LXXVI, ha valore soltanto ascetico e morale), fra i meno antichi hanno particolare valore Agostino Steuco Eugubino, Enarrationes in librum Iobi, Venezia 1567; I. Pineda, Comment. in Job cum paraphrasi, Madrid 1597-1601. Fra i contemporanei ricordiamo: E. Renan, Le livre de Job traduit de l'hébreu, Parigi 1859; Franz Delitzsch, Das Buch Hiob, in Bibl. Commentar über der poet. Bücher des A. Test., II, Lipsia 1864; A. Dillmann, Hiob erklärt, in Kurzgefasstes exeg. Handbuch zum A. T., 2ª ed., Lipsia 1891; O. Zöckler, Das Buch Hiob, nel Theol.-homilet. Bibelwerk del Lange, Bielefeld 1872; H. Zschokke, Das Buch Job übersetzt und erklart, Vienna 1875; F. C. Cook, Job, in Speaker's Commentary, Londra 1880; Studer, Das Buch Hiob, Brema 1882; Bateson Wright, The book of Job, Londra 1883; J. Knabenbauer, Comment. in librum Job, nel Cursus Scripturae S. del Cornely, Parigi 1886; H. Lesêtre, Le livre de Job, Parigi 1886; W. Volck, Hiob, nel Kurzgef. Kommentar zum A. T. di Strack e Zöckler, Nördlingen 1889; J. Bickell, Das Buch Job, Vienna 18943; K. Budde, Das Buch Hiob, nel Hankomment zum A. T. del Nowack, 2ª ed., Gottinga 1913; B. Duhm, Das Buch Hiob, nel Kurzer Hand-Comment. zum A. T. del Marti, Friburgo in B. 1897; D. Castelli, Il libro di Giobbe, Firenze 1897 (ristampa, Lanciano 1919); A. B. Davidson, The book of Job, Cambridge 1918; M. Jastrow, The book of Job, Filadelfia 1920; S. R. Driver e G. B. Gray, A critical and exegetical Commentary on the book of Job, in Intern. Critic. Commentary, Edimburgo 1921; G. Ricciotti, Il libro di Giobbe. Versione critica dal testo ebr. con intr. e comm., Torino-Roma 1924; P. Dhorme, Le livre de Job, Parigi 1929; E. König, Das Buch Hiob, Gütersloh 1929.
Il testamento di Giobbe.
Di questo apocrifo si ha un testo greco, edito da A. Mai (in Scriptorum vet. nova collectio, VII, Roma 1833, pp. 180-19I); ma circolò anche tra Giudei in arabo, come appare dall'esame di M. Grünbaum, Neue Beiträge zur semitimhen Sagenkunde (Leida 1893, pp. 262-271). In esso si raccolgono le varianti e aggiunte della versione dei Settanta del libro biblico omonimo: p. es., le tre figlie avute da Giobbe nella fortuna susseguita alla catastrofe, si chiamano Emera, Cassia, Amalthea keran (Giobbe, XLII, 14); ma si fondono anche leggende sparse tra Giudei, e mediatamente tra gli Arabi, come il nome della seconda moglie Dina, in accordo con Baba Bathrā, 15 b, Targūm Jer., Giobbe II, 9, e le insidie tese al pio Giobbe dal demonio attraverso l'insipienza appunto di Sitis, prima moglie. Caratteristica è la grande beneficenza del paziente, e l'elemento esotico d'un idolo, adorato presso la sua casa, che egli, dopo un periodo di titubanza, volle distruggere, onde incorse nell'ira di Satana. Infine, totalmente conforme alle concezioni prevalenti della letteratura egiziana sul trapasso dei pii, è la scena della morte di Giobbe. Il racconto è messo sotto il nome di Nereo, fratello di Giobbe. Dopo distribuita l'eredità ai sette figli, e date alle figlie, escluse dall'eredità (cfr. Numeri, XXVII, 8), tre cinture, chiamate appunto "amuleti di Dio", che valgono, contro le rimostranze di Emera, per vivere temporalmente e spiritualmente, queste si mettono a cantare, con accompagnamento di cetra, data ad Emera, di timpano suonato da Amalthea keran, mentre Cassia agita un incensiere: un carro, sceso dal cielo, prende l'anima del morente.
Come tempo di composizione, l'unico dato sicuro è il decreto di Damaso o Gelasio (sec. IV-V), che nomina un Testamento di Giobbe tra gli apocrifi; le dimostrazioni addotte, per provarne l'origine essena e quindi precristiana, da K. Kohler (The Testament of Job: an Essene Midrash of the book of Job, in Semitic studies in memory of A. Kohut, Berlino 1897, pp. 264-338) meritano attenzione.
Bibl.: A. Mancini, Per la critica del "Test. Job"), in Rend. Acc. Lincei, s. 5ª, XX (1911), pp. 479-502; A. Weiss, De libri Job paraphrasi chaldaica, Breslavia 1873; M. Seligsohn, in Enc. de l'Islam, I, pp. 223-24; 232 seg.; R. James, Apocrypha anecdota, in Texts a Studies, V, Cambridge 1897, p. 1; versione franc. in Migne, Dict. des Apocryphes, II, Parigi 1858, pp. 403-420.