ROSSINI, Gioachino Antonio
ROSSINI, Gioachino Antonio. – Nacque a Pesaro il 29 febbraio 1792, da Giuseppe e da Anna Guidarini (l’atto di battesimo reca il nome «Giovacchino Antonio»; Rossini usava le due grafie «Gioachino» e «Gioacchino»).
Il padre, detto Vivazza, era suonatore di corno e di tromba; la madre, dilettante di canto, iniziò una discreta carriera nei teatri delle Marche e della Romagna dopo che fu abolito il divieto per le donne di esibirsi in scena negli Stati della Chiesa (1798). Rossini accompagnava i genitori nelle loro trasferte teatrali, o veniva affidato alla nonna. A Bologna, nel 1799, ricevette le prime lezioni di musica dopo i rudimentali insegnamenti del padre. Quest’ultimo, dichiaratosi «repubblicano vero», dopo il ritorno del regime pontificio nel 1799 venne arrestato e incarcerato per undici mesi: un’esperienza certamente traumatica per il piccolo Gioachino.
In seguito all’incerta situazione politica, nel 1802 i Rossini si stabilirono a Lugo, città natale di Giuseppe, dove Rossini beneficiò di un regolare insegnamento musicale impartito dai canonici Giuseppe e Luigi Malerbi: la loro biblioteca, che conteneva musiche di Georg Friedrich Händel, Johann Sebastian Bach, Christoph Willibald Gluck, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Joseph Haydn, giovò molto alla formazione musicale del ragazzo. Nel 1804 la famiglia si trasferì a Bologna, dove Rossini prese lezioni di canto (nell’autunno del 1805 il tredicenne comparve in scena nel teatro del Corso, nella parte del piccolo Adolfo nella Camilla di Ferdinando Paer). Nel 1806 iniziò a frequentare il liceo musicale nelle classi di violoncello, pianoforte e contrappunto, quest’ultimo sotto la guida di Stanislao Mattei. Durante gli studi compose sinfonie, musiche da chiesa e, nel 1808, un’intera messa di gloria per Ravenna. Anche le Sei sonate a quattro per due violini, violoncello e contrabbasso, destinate a un facoltoso dilettante ravennate, sono da ascrivere a quell’anno (l’anziano Rossini le attribuì al 1804). Nei quattro anni di studi lavorò anche come maestro al cembalo, scrivendo occasionalmente arie da inserire in opere altrui. Il tenore Domenico Mombelli gli commissionò alcuni pezzi per il dramma serio Demetrio e Polibio (libretto di Vincenzina Viganò): composta probabilmente nel 1810 (anche se il vecchio Rossini la datò al 1805), l’opera fu eseguita solo nel 1812 (Roma, teatro Valle, 18 maggio). Nello stesso 1810 Rossini sospese gli studi musicali e intraprese la carriera teatrale.
Il debutto, con buon esito, avvenne al teatro Giustiniani di S. Moisè a Venezia con una farsa (ossia un’opera in un atto), La cambiale di matrimonio (Gaetano Rossi, 3 novembre 1810). Nell’autunno 1811 fu scritturato come maestro al cembalo al teatro del Corso di Bologna, con l’incarico di scrivere un’opera buffa in due atti per una compagnia che annoverava la rinomata Maria Marcolini come prima donna contralto. L’equivoco stravagante ebbe un’ottima accoglienza di pubblico, il 26 ottobre e le due sere successive, ma il libretto di Gaetano Gasbarri, davvero stravagante per le numerose allusioni salaci e per il linguaggio involuto e pleonastico, fu stroncato dalla critica e l’opera fu proibita dalla censura. Al S. Moisè di Venezia l’8 gennaio 1812 andò in scena la farsa semiseria L’inganno felice (Giuseppe Foppa; non v’è nesso alcuno con l’opera omonima di Giovanni Paisiello), suscitando enorme entusiasmo. L’avveduto impresario, Antonio Cera, lo scritturò sul campo per altre tre farse. Per il teatro Comunale di Ferrara scrisse un’opera-oratorio, il «dramma con cori per musica» Ciro in Babilonia (Francesco Aventi, 14 marzo 1812); la protagonista, ancora la Marcolini, lo raccomandò alla Scala di Milano, dove debuttò con La pietra del paragone (Luigi Romanelli, 26 settembre 1812), data per 54 recite filate. Un altro passo importante fu la commissione di un’opera seria per La Fenice di Venezia: l’esito di Tancredi (Rossi, 6 febbraio 1813) consolidò la fama del giovane maestro.
Tratto da una tragedia di Voltaire, il dramma presenta il consueto lieto fine; il finale alternativo tragico, tentato a Ferrara (teatro Comunale, marzo 1813), rappresenta un esempio straordinario di ‘realismo’ musicale, ma fu ritenuto dallo stesso compositore poco coerente con il linguaggio dell’opera.
L’accoglienza sfavorevole di una ripresa della Pietra del paragone al S. Benedetto di Venezia spinse Rossini a mettere in musica per lo stesso teatro nel giro di tre settimane un libretto a lui congeniale, L’italiana in Algeri di Angelo Anelli (già musicato da Luigi Mosca nel 1808), apportando alcune modifiche che valorizzassero il ruolo eponimo: trionfò a partire dal 22 maggio 1813. Stendhal definì poi la musica di quest’opera buffa come «une folie organisée et complète» (Stendhal, 1824, p. 92).
La prima scrittura per un’opera che inaugurasse la stagione di Carnevale gli giunse dal teatro alla Scala, ma Aureliano in Palmira (libretto dell’esordiente Giuseppe Felice Romani, in seguito spesso attribuito a un fantomatico Gian-Francesco Romanelli, 26 dicembre 1813) ebbe esito controverso.
È priva di fondamento la diceria secondo cui Giovanni Battista Velluti (l’unico castrato per cui Rossini scrisse un’opera) avesse reso irriconoscibile la propria parte gravandola di troppe fioriture (cfr. ibid., pp. 431 s.): fu semmai il compositore ad approfittare dell’arte consumata del grande cantante per sviluppare il proprio linguaggio canoro (cfr. Crutchfield, 2013, pp. 69 s.).
In contemporanea, Rossini allestì Tancredi per l’inaugurazione del teatro Re (dal cognome dell’impresario, Carlo Re, 18 dicembre 1813), affermando: «tutti si divertono colla mia musica poco m’importa se è in uno o nell’Altro Teatro» (Gioachino Rossini. Lettere e documenti [d’ora in poi GRLD], IIIa, 2004, p. 57); fu poi una sua strategia conquistare una data piazza operando in simultanea in più teatri. Nel gennaio 1814 allestì Tancredi a Genova, ma per ragioni sconosciute la scrittura per un’opera nuova fallì. Tornò a Milano e a Merate spinto da una relazione con la principessa Amalia Canziani vedova Belgiojoso (scrisse d’essersene «Inamorato come un as’asino»; p. 64). Il 14 agosto 1814 Il turco in Italia (Romani) suscitò poco entusiasmo alla Scala: si trattava non già dell’opera buffa ‘a rovescio’ rispetto all’Italiana in Algeri che forse si attendevano i milanesi, ma di una satira assai pungente sui costumi coniugali coevi e sul cicisbeismo. Il fiasco di Sigismondo a Venezia (Foppa, sul soggetto dell’innocente perseguitata; La Fenice, 26 dicembre 1814), la sua quattordicesima opera in poco più di quattro anni, segnò la fine della prima fase creativa.
Nonostante qualche rovescio, Rossini non aveva più rivali: il suo stile brillante e avvincente – «la sua musica ha una magica attrattiva cui non si resiste» (Carpani, 1824, p. 94) – mise in secondo piano gli altri musicisti e segnò la fine dell’interrègne tra Domenico Cimarosa e lui (Stendhal, 1824, pp. 18 s.). I teatri dell’Italia settentrionale erano diventati troppo angusti per il suo genio esuberante: un pubblico aduso alla convenzione, un numero limitato di cantanti di prima sfera, orchestre mediocri, cori spesso solo maschili. Napoli, il suo nuovo traguardo, gli offriva una delle migliori orchestre d’Europa, un coro misto stabile e la perfetta organizzazione di una stagione annua sotto la guida di Domenico Barbaja, esperto impresario foraggiato dalla corte e dagli introiti del gioco d’azzardo; e in più il fior fiore canoro dell’epoca, con la primadonna Isabella Colbran in testa. Il cambio di rotta coincise con il definitivo tramonto dell’era napoleonica.
Rossini giunse a Napoli il 27 giugno 1815. Vi esordì con Elisabetta regina d’Inghilterra.
Il libretto di Giovanni Schmidt metteva in scena la magnanimità di una regnante per celebrare il ritorno di Francesco IV e la sua indulgenza nei confronti dei collaboratori di Gioacchino Murat. Se la sera del 4 ottobre al San Carlo il sovrano non poteva applaudire un esordiente straniero, lasciando anzitempo il teatro non privò di tale piacere i sudditi; e Rossini poté scrivere di aver fatto «fanatismo» e «furore» (GRLD, IIIa, 2004, pp. 98, 101). Per la nuova opera egli fece ampio ricorso all’autocitazione da partiture anteriori: il procedimento – adottato poi anche a Parigi – sembra avergli consentito di concentrarsi sulle innovazioni formali richieste dal contesto. Tra le usanze da osservare a Napoli c’era il recitativo accompagnato, mentre fuori Napoli vigeva l’uso del recitativo ‘secco’, ossia con il solo basso continuo.
Il 18 ottobre Barbaja chiese al sovraintendente dei teatri reali l’autorizzazione a scritturare Rossini per due successive opere (ibid., I, 1992, p. 110); è la prova decisiva che i primi contratti con il San Carlo non furono pluriennali. Anche quando in seguito ebbe contratti a lungo termine con incarichi direttivi e partecipazioni agli introiti del gioco d’azzardo, Rossini non s’impegnò mai in esclusiva; descrivere gli impegni fuori Napoli come «licenze» (Radiciotti, 1927-1929, I, p. 173 e passim) è improprio. Se la maturità di Rossini trovò il suo baricentro artistico a Napoli, non si può prescindere dalle opere che si intrecciarono nell’arco di sette anni anche su altre piazze: Roma, Milano, Venezia.
All’inizio di novembre Rossini fu a Roma per rimettere in scena Il turco in Italia e scrivere l’opera d’apertura del Carnevale al teatro Valle (26 dicembre 1815), Torvaldo e Dorliska (Cesare Sterbini), un soggetto semiserio, troppo tetro per il pubblico romano desideroso di lepidezze. Il giorno stesso Rossini s’impegnò con l’impresario concorrente a scrivere entro poche settimane un’opera buffa per il teatro Argentina. Al rinomato Jacopo Ferretti, Rossini preferì il duttile Sterbini, che gli imbastì un Barbiere di Siviglia – un rifacimento del Barbier de Séville di Pierre Augustin Caron de Beaumarchais – con il titolo mutato in Almaviva, o sia L’inutile precauzione per far risaltare il protagonista della stagione, il tenore Manuel García. Dopo una caotica preparazione, l’opera andò in scena il 20 febbraio 1816, «e fu Sollennemente fischiata» (GRLD, IIIa, 2004, p. 119); un trionfo incontrastato giunse però a partire dalla seconda recita (una narrazione precisa e documentata sulla genesi del Barbiere è in Lamacchia, 2008). Per consolidare la propria fama a Napoli con un’opera buffa Rossini rinunciò a una scrittura per il Regio di Torino. Gli fu anche richiesta una cantata celebrativa per uno sposalizio reale: Le nozze di Teti e di Peleo (Angelo Maria Ricci, teatro del Fondo, sede provvisoria durante il ripristino del San Carlo dopo un incendio, 24 aprile 1816) fu la prima di cinque cantate celebrative commissionate dalla corte al compositore in auge. L’opera buffa per il teatro dei Fiorentini era impegnativa: «Il Dialetto Napolitano che non troppo capisco forma il dialogo e lo sviluppo di questa azione» (GRLD, IIIa, 2004, p. 136). La gazzetta (Giuseppe Palomba) fu ben accolta il 26 settembre, ma rimase l’unica esperienza buffa di Rossini a Napoli, anche perché le opere che comportavano parti in dialetto napoletano erano difficili da riproporre altrove. Otello (Francesco Berio, dalla tragedia di William Shakespeare e dalle sue rielaborazioni per mano di Jean-François Ducis e Giovanni Carlo Cosenza, teatro del Fondo, 4 dicembre 1816) superò tutte le aspettative: Rossini stesso lo definì «una cosa tanto Clasica» (p. 151). Di nuovo a Roma, s’intese con Jacopo Ferretti su La Cenerentola – dalla fiaba di Charles Perrault, non senza elementi desunti da libretti anteriori per opere di Nicolas Isouard e Stefano Pavesi –, che andò in scena il 25 gennaio 1817 «e fece veramente un fanatismo» (p. 159). Dopo qualche settimana passata presso i genitori a Bologna, tornò a Milano e da Belgiojoso («Io dormo tutte Le notti con La B.»; p. 172). Scrisse La gazza ladra (Giovanni Gherardini, da un recente mélodrame historique francese): «Il Libro è versificato da un Poeta di fresca data, ed in conseguenza mi fà impazzire; il soggetto però è bellissimo» (p. 162). Il trionfo venne consacrato alla Scala il 31 maggio e la musica mandò in visibilio lo stesso Rossini, che la descrisse in una lettera, l’unica in cui egli abbia celebrato la propria musica (cfr. pp. 173-177).
Nel luglio del 1817 trascorse qualche giorno a Ischia: «faccio bagni per il mio maluccio [...] e non voglio più donne per mano» (p. 181). Si trattava probabilmente di una gonorrea, contratta già in età adolescenziale, che saltuariamente gli procurava attacchi febbrili, documentati fin dal 1812. La malattia, ma forse più l’infedeltà, provocò la rottura con Amalia Belgiojoso («La B. Mi ha trattato Infamemente»; 17 settembre 1817, p. 186). Armida (Giovanni Schmidt, dal soggetto tassesco) segnò l’inizio della relazione con la primadonna del San Carlo, Isabella Colbran, sua musa artistica. Dopo la fortunata ‘prima’ del 9 novembre nel teatro restaurato, per via delle impervie difficoltà canore l’opera venne ripresa solo poche volte altrove, eccezion fatta per il popolare duetto Amor, possente nome. Dopo la poco apprezzata Adelaide di Borgogna (Schmidt, soggetto storico medievale, Roma, teatro Argentina, 27 dicembre 1817), Rossini scrisse per il San Carlo un’opera-oratorio, ravvivando l’antica tradizione di allestire un soggetto biblico durante la quaresima. «L’Oratorio mi costa assai fatica perche di un Genere non di molto effetto Popolare ma Sublime» (p. 200). Malgrado il successo di Mosè in Egitto (Andrea Leone Tottola, 5 marzo 1818), l’anno dopo Rossini volle rifare l’ultimo atto, aggiungendo tra l’altro la celeberrima preghiera Dal tuo stellato soglio.
Con Colbran, che possedeva una villa a Castenaso, tornò a Bologna verso la fine di aprile per occuparsi di due incarichi insoliti: preparare e dirigere una stagione teatrale nella natia Pesaro e fornire un’opera commissionata da un ricco dilettante di Lisbona senza però recarsi (come era altrimenti solito fare) sul luogo. Per Pesaro scelse La gazza ladra, che, presente anche la madre, il 10 giugno 1818 andò in scena al teatro Nuovo (dal 1854 denominato Rossini), seguita dal Barbiere di Siviglia. Dopo questa fatica, Rossini si ammalò a tal punto che a Napoli giunse la falsa notizia della sua morte. È probabile che solo al ritorno a Bologna abbia cominciato a scrivere la farsa semiseria Adina (Gherardo Bevilacqua, eseguita solo il 12 giugno 1826 al teatro Saõ Carlos di Lisbona). Tornato a Napoli a metà settembre, poté finalmente occuparsi di Ricciardo e Zoraide (Berio, reinvenzione di un episodio cavalleresco dal Ricciardetto di Niccolò Forteguerri, San Carlo, 3 dicembre 1818): «L’Esito della mia Opera fu il più Brillante ch’io ebbi da poi che fo il Maestro» (p. 226). Subì il destino contrario Ermione (Tottola, dall’Andromaque di Jean Racine, San Carlo, 27 marzo 1819), mai ripresa nell’Ottocento: «Temo che il sogetto sia troppo tragico» (p. 230). Subito dopo, in vista di un lauto guadagno, si recò al San Benedetto di Venezia. Su un vecchio libretto di Schmidt, riveduto da Tottola e Bevilacqua, raffazzonò musiche dalle opere precedenti: fatto sta che alla ‘prima’ del 24 aprile Eduardo e Cristina suscitò un indicibile entusiasmo. Tornando a Napoli, passò per Pesaro, dove si fermò il 24 maggio per essere festeggiato al teatro, ma fu fischiato da una claque prezzolata da una principessa di cui aveva declinato l’invito l’anno precedente. Fu comunque solo per ragioni contingenti se non tornò più a Pesaro fino al 1839, in viaggio per Napoli, dopo la morte del padre settantacinquenne.
A Napoli, Rossini era occupatissimo con le sue incombenze di direttore della musica, funzione assunta il 1° aprile 1819, quando entrò in società con Barbaja «Tanto ne’ Giocchi che nell’Impresa con condizioni piuttosto vantaggiose per me» (lettera del 17 aprile 1819, GRLD, I, 1992, p. 366). In seguito alla rinuncia di Gaspare Spontini, Rossini accettò di anticipare l’impegno successivo, scrivendo un’opera per l’autunno 1819 anziché un oratorio progettato per la quaresima 1820. Scelse un soggetto «un po’ Romantico ma mi pare d’Effetto» (ibid., IIIa, 2004, p. 254), richiedendo a Tottola di trarre dal poema di Walter Scott La donna del lago l’opera omonima. L’esito tiepido del 24 ottobre si tramutò presto in trionfo: ma Rossini era già partito alla volta di Milano per onorare un contratto con la Scala. Di passaggio a Roma, consegnò all’impresario Pietro Cartoni i suoi adattamenti per dare all’Otello un lieto fine credibile (teatro Argentina, Carnevale 1820). A Milano il 26 dicembre andò in scena Bianca e Falliero (Romani, da una tragedia francese, senza alcun nesso con Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni), accolto con indifferenza. A metà gennaio allestì Fernando Cortez di Spontini al San Carlo. Per la festa dei Sette dolori di Maria (24 marzo) scrisse, su commissione dell’Arciconfraternita di S. Luigi, una messa di gloria da eseguire in S. Ferdinando.
Alla nota polemica del compositore e letterato Carl Borromäus von Miltitz, diffusa fin dal 1824 (Wendt, 1824, pp. 211 s.), si contrappone un appunto nel diario del melomane scozzese John Waldie, che indica anche i cantanti: «La musica di Rossini era bellissima – un’ouverture e poi cori, duetti, terzetti e arie – gli assoli di Tarquinio e di Rubini furono splendidi – buoni anche quelli di Ambrogi, Benedetti e Ciccimarra» (Ragni, 2012, p. 453).
Il 28 febbraio 1820, il giorno del trentaseiesimo compleanno della Colbran, era morto a Bologna il genitore della primadonna, Juan Colbran. Da quel momento la donna si legò ancor più a Rossini, il quale le fu d’aiuto anche nella gestione dei suoi beni. La cantante fece un ingente prestito al duca di Berwick (circostanza che più tardi condusse Rossini alla composizione dello Stabat mater). I suoi affari personali furono compromessi dai moti rivoluzionari del luglio 1820, in seguito ai quali fu abolito il gioco d’azzardo.
Le quattro opere uscite dalla penna di Rossini nel 1819 furono un record negli anni della maturità, cui seguì un deciso rallentamento, con la produzione di una sola opera all’anno fino a fine carriera. Nel 1820 fu la volta di Maometto II (Cesare della Valle, dalla propria tragedia in versi Anna Erizo), andato in scena al San Carlo con gran ritardo il 3 dicembre.
Rossini vi sperimentò un tendenziale superamento dell’opera a numeri chiusi: in certi casi, le forme musicali si estendono al di là dei limiti segnati dai cambi di scena. Inoltre il dramma si distingue per una tinta particolarmente tragica e per il suicidio dell’eroina.
Il ritardo aveva creato difficoltà al successivo suo impegno romano, un’opera ascrivibile al genere semiserio: Matilde di Shabran (Ferretti, teatro Apollo, 24 febbraio 1821); Rossini dovette chiedere l’aiuto di Giovanni Pacini per terminarla in tempo. Il ricorso a collaboratori non era un’eccezione: fin dai tempi della Pietra del paragone Rossini se ne serviva quasi sistematicamente per i recitativi ‘secchi’ e per le arie minori.
Rinunciando all’annuale rientro a Bologna, Rossini si recò subito dopo a Napoli, dove l’intervento degli austriaci e la revoca della costituzione avevano messo fine ai moti rivoluzionari. Il primo ministro imperiale Klemens von Metternich ottenne in cambio, tra l’altro, una trasferta dell’opera napoletana a Vienna. Quando Rossini si mise a musicare il libretto di Tottola per Zelmira (dalla tragedia di Dormont du Belloy) sapeva già che, dopo il debutto sancarliano (16 febbraio 1822), sarebbe stata presentata dalla stessa compagnia a Vienna. Era un’opera a forti tinte drammatiche e al tempo stesso di classica compostezza, una fusione d’invenzione melodica e di dotte armonie. Mentre stava componendo Zelmira, meditava anche sul suo futuro, privato e artistico. In una lettera dal tono solenne palesava alla madre l’intenzione di sposare Isabella (cfr. GRLD, IIIa, 2004, pp. 302 s.). Progettava un futuro artistico comune ed era intenzionato a non tornare a Napoli dopo la tournée a Vienna. Il 7 marzo Rossini e Colbran lasciarono Napoli alla volta di Bologna: nel piccolo santuario della Vergine del Pilar a Castenaso si sposarono il 16 marzo 1822. Il 22 marzo 1822 raggiunsero Vienna e vi rimasero fino al 22 luglio.
La presentazione di otto titoli rossiniani e la presenza dei coniugi entusiasmò i viennesi (che peraltro stravedevano per la musica di Rossini fin dal 1816). Rossini voleva incontrare Ludwig van Beethoven, ma forse la visita (contrariamente a quanto egli stesso affermò da vecchio) non ebbe mai luogo. Di certo frequentò Metternich.
La scrittura giunta ai coniugi dalla Fenice di Venezia fu forse da loro intesa come un addio all’Italia. La composizione di Semiramide (dalla tragedia di Voltaire) avvenne durante l’ottobre, nella quiete di Castenaso, dove Rossini convocò il librettista, Rossi. A metà novembre, su invito di Metternich, raggiunsero il Congresso di Verona per comporre alcune cantate. A Venezia La Fenice non volle più allestire una ripresa di Zelmira dopo che il San Benedetto l’aveva preceduta procurandosi in anticipo una copia della partitura (non protetta dalla legge). Rossini sottopose allora Maometto II a una revisione, sostituendo il finale tragico con uno lieto (26 dicembre 1822). L’opera fallì, non ultimo per il declino vocale di Colbran. Semiramide, dal 3 febbraio 1823, registrò invece un successo crescente, anche se l’esorbitante durata dell’opera metteva a dura prova i cantanti: la si può considerare la sintesi della maturità artistica di Rossini e il compimento della sua esperienza di operista italiano.
Il successivo viaggio dei coniugi alla volta di Londra fu interrotto da una sosta a Parigi, dove il compositore, il 16 novembre 1823, fu festeggiato con un sontuoso banchetto. Cogliendo l’occasione, un «dilettante» appassionato, Henri Beyle (alias Stendhal), pubblicò un libro critico-biografico, Vie de Rossini, che sta all’origine di una storiografia rossiniana assai distorta. Al King’s Theatre di Londra andò in scena una Rossini season, ma gli introiti non coprirono gli enormi costi, tra cui quelli per la celebre coppia, e l’impresa fallì. Un’opera iniziata, Ugo re d’Italia (ignoto il librettista), rimase incompiuta. Oltre che da Giorgio IV, la coppia fu molto richiesta dall’alta società, il che permise ai Rossini di accumulare una cospicua fortuna. Trattative con il governo francese portarono a un primo contratto, firmato a Londra, per la composizione di un’opera francese e di una italiana.
A Parigi, Rossini accettò di prendere in mano anche la direzione del Théâtre-Italien; la carica, lasciata dopo due anni, gli permise di trasferire all’Opéra musicisti di formazione italiana, preparandosi il terreno. La difficoltà di corrispondere alle grandi attese con un’opera francese mise in crisi Rossini, che abbandonò un primo progetto. L’incoronazione di Carlo X gli fornì il destro per debuttare a Parigi con un’opera italiana, Il viaggio a Reims (Luigi Balochi, Théâtre-Italien, 19 giugno 1825). Conscio dell’irripetibilità di un’opera celebrativa, la ritirò dopo quattro recite, malgrado il grande successo. Per accostarsi al genere francese decise di rielaborare due opere napoletane, adattandole per le scene dell’Académie royale de musique. Le siège de Corinthe (Balochi e Alexandre Soumet, da Maometto II, 9 ottobre 1826) segnò «une révolution à l’opéra; on allait enfin y entendre chanter» (Le moniteur, 11 ottobre 1826). Moïse (Balochi ed Étienne de Jouy, da Mosè in Egitto; 26 marzo 1827) consolidò la sua fama e costituì per molti versi un abbozzo ideale per la sua prima opera francese originale. Alla quale fece però precedere, d’intesa con il nuovo direttore dell’Opéra, Émile Lubbert, in cerca di un nuovo genere che facesse fronte alla concorrenza del Théâtre-Italien destinato a un appalto privato, un’opera buffa del tutto insolita per l’Opéra (aveva due soli atti ed era priva del consueto balletto «analogo»): di fatto, Le comte Ory (Eugène Scribe, 20 agosto 1828) riutilizzava gran parte della partitura del ritirato Viaggio a Reims. L’opera ebbe un successo duraturo, sebbene tale sottogenere, a volte chiamato petit opéra, non si sia poi consolidato. Dopo vari ritardi, provocati tra l’altro dal ritiro dello spartito al fine di imporre un nuovo e più vantaggioso contratto con un vitalizio di 6000 franchi, Guillaume Tell (Jouy e Hippolyte Bis, dal dramma di Friedrich Schiller e da precedenti trattazioni francesi del soggetto, in particolare Jean-Pierre Claris de Florian) andò in scena il 3 agosto 1829, riscuotendo lì per lì un successo più d’ammirazione che d’entusiasmo.
Tornato, dopo cinque anni, con la moglie a Bologna (dove nel 1827 era deceduta cinquantacinquenne l’adorata madre), rimase in attesa del libretto per la nuova opera, la seconda delle cinque che avrebbe dovuto scrivere nel decennio, come previsto dal contratto esclusivo con l’Opéra. Il 4 maggio 1830 lo reclamò a gran voce (cfr. GRLD, III, 2000, pp. 650-665). La rivoluzione di luglio lo spronò a tornare immediatamente a Parigi per difendere i suoi diritti contrattuali; solo nel 1836 poté rientrare soddisfatto a Bologna. Durante il contenzioso non poteva rischiare di rompere il contratto scrivendo opere per terzi; il governo, d’altronde, non poteva chiedergli una nuova opera senza riconoscergli la pensione. Dopo sei anni di inoperosità artistica imposta da tali circostanze legali (pubblicò soltanto, nel 1835, Les soirées musicales, una raccolta di brani per voce e pianoforte su versi di Pietro Metastasio e di Carlo Pepoli), Rossini non sentì più il bisogno di ritornare in campo e abbandonò pure l’idea di inaugurare la basilica di S. Francesco di Paola a Napoli con una messa chiestagli da Barbaja, forse intesa ad assorbire i brani che aveva intanto scritto per uno Stabat mater. Quest’ultimo era stato promesso al prelato Manuel Fernández Varela alla vigilia della sua partenza da Madrid, dove Rossini si era recato nel febbraio 1831 per tutelare i propri interessi circa il prestito fatto da Colbran al duca di Berwick, fallito nel frattempo. L’insistenza di Varela costrinse Rossini a buttar giù lo Stabat in tempo per il Venerdì santo del 1832, chiedendo aiuto al suo protégé Giovanni Tadolini, che scrisse, oltre alla fuga finale, sei pezzi per i solisti, da intercalare tra i sei pezzi di maggior portata composti da Rossini. In quella veste lo Stabat fu eseguito una volta sola, il Venerdì santo del 1833, a Madrid (cappella di S. Felipe el Real), suscitando un interesse circoscritto. Morto Varela, la partitura venduta all’asta giunse a Parigi nel 1841: Rossini, ormai ritiratosi a Bologna, scrisse quattro nuovi pezzi in sostituzione dei sette di Tadolini. La ‘prima’ della versione definitiva ebbe luogo il 7 gennaio 1842 al Théâtre-Italien a Parigi, scatenando un vero fanatismo in tutt’Europa per la nuova manifestazione creativa del maestro. Rossini invitò Gaetano Donizetti a dirigere la ‘prima’ italiana a Bologna (18 marzo 1842, Archiginnasio): lo fece per la propria debolezza emotiva e nell’intento (fallito) di convincere il collega ad accettare la direzione del liceo musicale, del quale egli era dal 1839 «consulente perpetuo onorario».
Negli anni del contenzioso parigino si era affezionato a Olympe Pélissier (1797-1878), un’intelligente demi-mondaine già amante di artisti come Horace Vernet, Eugène Sue e Honoré de Balzac. Nel 1837 la fece venire da Parigi a Bologna, separandosi da Colbran, con la quale fin dai tempi del ritiro di lei dalle scene (1824) si era ormai dissolto il comune interesse artistico. Morta Isabella il 6 ottobre 1845, nel 1846 sposò Olympe. Nel 1847 compose un notevole Tantum ergo, e in seguito all’elezione di papa Pio IX acconsentì a scrivere qualche composizione celebrativa. Un incidente occorso durante i moti del 1848 – fu pubblicamente tacciato di essere reazionario da un gruppo di rivoltosi – determinò l’improvvisa partenza da Bologna (comunque già progettata; cfr. Fabbri, 2001, p. IX). Si rifugiò nella più placida Firenze, dove però gli mancarono i vecchi amici e l’impegno per il liceo musicale. Il sentimento di appartenere a un’epoca tramontata e il senso di inutilità indussero una grave crisi psicosomatica, manifestata con nevrastenia, insonnia, ipersensibilità e pensieri suicidari (cfr. Mordani, 1871).
Nel 1855 Olympe lo convinse infine a recarsi a Parigi, dove i medici gli consigliarono cure nella stazione balneare di Trouville nonché nelle terme di Wildbad nella Foresta Nera e a Kissingen, in Baviera («Io sono sempre in lotta coi miei nervi, qualche cosa ho guadagnato nelle mie cose in Alemagna»; lettera del 23 ottobre 1856, Fabbri, 2001, p. 171). L’ambiente sociale stimolante di Parigi lo aiutò a superare la grave crisi depressiva. Il 15 aprile 1857 dedicò a Olympe, «comme Simple temoignage de reconnaissance pour les soins affectueux intelligens qu’elle me prodigué dans ma trop longue et terrible maladie», una raccolta dal titolo Musique anodine – un preludio e sei ariette per voce e pianoforte sull’aria metastasiana Mi lagnerò tacendo (Pesaro, Fondazione Rossini) – che segnò il suo ritorno regolare alla composizione. Scrisse ben 160 pezzi da camera strumentali e vocali, cui dava titoli curiosi, e li raccolse in una serie di album che chiamò i suoi «péchés de vieillesse». Cercò di farli eseguire solo in casa propria, durante i suoi ambìti samedis musicaux frequentati dal bel mondo artistico e intellettuale di Parigi, senza pubblicarli, nell’intento di lasciare a Olympe un ricco patrimonio dopo la sua morte (il resto era destinato a Pesaro per fondare un liceo musicale). Da un pezzo commemorativo per il suo collega Louis Niedermeyer (morto nel 1861) si sviluppò un intero capolavoro, la Petite Messe solennelle, eseguita con l’originario accompagnamento cameristico (due pianoforti e armonium) per la prima volta il 14 marzo 1864 nella dimora parigina del conte Pillet-Will. Volle anche strumentare il brano per grande orchestra e organo: in questa forma fu eseguita postuma il 24 febbraio 1869 al Théâtre-Italien.
Morì il 13 novembre 1868 nella villa di Passy, che si era fatto costruire nel 1859, per i postumi di un intervento chirurgico non asettico su un cancro rettale. Ai funerali solenni nella basilica della Trinité, il 21 novembre, parteciparono oltre quattromila persone. La salma, tumulata nel cimitero del Père-Lachaise, fu traslata in S. Croce a Firenze nel 1887.
A partire dal 1813 le opere di Rossini godettero di una fulminea diffusione e conquistarono durevolmente i cartelloni teatrali, dapprima in Italia, poi in Europa, indi Oltreoceano: «La gloire de cet homme ne connaît d’autres bornes que celles de la civilisation» (Stendhal, 1824, p. v). Ma già a partire dagli anni Trenta gran parte dei titoli rossiniani scomparve dai cartelloni per l’avvento del nuovo gusto romantico, che comportò uno stile canoro più veemente e meno fiorito. Se Il barbiere di Siviglia fu in assoluto la prima opera italiana mai uscita di repertorio, e la prima di cui sia stata prodotta un’edizione critica (Milano 1969, a cura di A. Zedda), anche melodrammi grandiosi e onerosi come Semiramide e Guillaume Tell mantennero una notevole persistenza per tutto l’Ottocento. La riscoperta novecentesca di Rossini seguì fasi successive, in particolare su impulso del teatro di Torino (L’italiana in Algeri diretta da Vittorio Gui, 1925), del Maggio musicale fiorentino (negli anni Cinquanta, anche con la partecipazione di Maria Callas) e del Rossini Opera Festival (Pesaro, 1980 e successivi). Il rinato interesse mondiale per Rossini è confermato dall’esistenza di due società a lui dedicate, una tedesca e una giapponese, e da un secondo festival rossiniano annuale, dal 1989, a Bad Wildbad. Un fenomeno singolare è stata la riscoperta del Viaggio a Reims, scomparso nel 1825 e resuscitato a Pesaro nel 1984, poi divenuto un’opera di culto, entrata stabilmente nel repertorio operistico mondiale (seicento recite in quarantaquattro diversi allestimenti nei primi venticinque anni).
Nessuno dei ‘marchi d’origine’ universalmente noti dello stile rossiniano – il canto fiorito e scolpito, i ritmi frizzanti e incitativi, il crescendo, l’iterazione meccanica di motivi orchestrali icastici, le scene di sbigottimento, il tumulto frenetico delle strette, la strumentazione variopinta e brillante – si può considerare un’invenzione di Rossini o una sua esclusiva. Vale l’osservazione fatta da Giuseppe Carpani in una lettera del 26 marzo 1817: «Non ha passi nuovi, ma li accozza in una maniera tutta sua, ed anche il sentito, maneggiato da lui, pare nuovo» (cit. in H.C. Jacobs, Literatur, Musik und Gesellschaft in Italien und Österreich in der Epoche Napoleons und der Restauration, Frankfurt am Main 1988, p. 426). Certi attimi memorabili del teatro rossiniano – la mestizia struggente della ‘canzone del salice’ nell’Otello, l’abbandono melodico voluttuoso dei duetti d’amore in Armida e in Semiramide, l’enfasi innodica delle preghiere in Mosè e Maometto/ Siège, l’afflato estatico della romanza di Mathilde o l’incantesimo sonoro del finale quarto nel Guillaume Tell – alimentarono l’immaginario romantico, al quale peraltro Rossini si accostò con guardinga cautela. Così descrisse nel 1836 il potere espressivo dell’arte musicale: «La musica non è un’arte imitatrice, ma tutta ideale quanto al suo principio, e, quanto allo scopo, incitativa ed espressiva. [...] La musica allora è, direi quasi, l’atmosfera morale che riempie il luogo, in cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione. Essa esprime il destino che li persegue, la speranza che li anima, l’allegrezza che li circonda, la felicità che li attende, l’abisso in cui sono per cadere; [...] Questa forza d’espressione [...] tutta consiste nel ritmo» (Zanolini, 1875, pp. 284-289).
Elenchi completi delle opere si vedono in The new Grove dictionary of music and musicians, XXI, London-New York 2001, pp. 756-764 (Philip Gossett); e in Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Personenteil, XIV, Kassel 2005, coll. 475-490 (Paolo Fabbri).
Fonti e Bibl.: La figura, l’arte e la recezione di Rossini sono diffusamente trattate in Bollettino del Centro rossiniano di studi, Pesaro 1955 e successivi; La Gazzetta. Zeitschrift der Deutschen R. Gesellschaft, Leipzig 1991 e successivi. Indispensabili per i riferimenti biografici sono le prefazioni delle collane della Fondazione Rossini di Pesaro (Edizione critica delle opere di G. R., 1979 e successivi; I libretti di R., 1994 e successivi); dei Works of / Opere di G. R. (WGR), Kassel 2007 e successivi; dei programmi di sala del Rossini Opera Festival, Pesaro 1980 e successivi; e di Tutti i libretti di R., a cura di M. Beghelli - N. Gallino, Milano 1991.
Epistolario. Lettere di G. R. raccolte e annotate, a cura di G. Mazzatinti - F. Manis - G. Manis, Firenze 1902; G. R. Lettere e documenti [GRLD], a cura di B. Cagli - S. Ragni, I (29 febbraio 1792 - 17 marzo 1822), Pesaro 1992, II (21 marzo 1822 - 11 ottobre 1826), 1996, III (17 ottobre 1826 - 31 dicembre 1830), 2000, IIIa (Lettere ai genitori, 18 febbraio 1812 - 22 giugno 1830), 2004, IV (5 gennaio 1831 - post 28 dicembre 1835), 2016; P. Fabbri, R. nelle raccolte Piancastelli di Forlì, Lucca 2001.
Bibliografia essenziale. G. Carpani, Le Rossiniane ossia lettere musico-teatrali, Padova 1824; Stendhal [H. Beyle], Vie de R., Paris 1824 (ma 1823; trad. it. Vita di R., Torino 1983); A. Wendt, R.’s Leben und Treiben, Leipzig 1824; L. Escudier - M. Escudier, R., sa vie et ses œuvres, Paris 1854; A. Azevedo, R., sa vie et ses œuvres, Paris 1864; F. Hiller, Plaudereien mit R., Leipzig 1868 (ristampa delle otto puntate nella Kölnische Zeitung, ottobre 1855; trad. it. Chiacchierando con R., in Bollettino del Centro rossiniano di studi, XXXII (1992), pp. 69-137); F. Mordani, Della vita privata di G. R., Imola 1871; A. Pougin, R. Notes - impressions - souvenirs - commentaires, Paris 1871; L.S. Silvestri, Della vita e delle opere di G. R., Milano 1874; A. Zanolini, R. Biografia, Bologna 1875; G. De Sanctis, G. R. Appunti di viaggio, in Rivista romana di scienze e lettere, I (1878), 3-4, pp. 1-15; G. Radiciotti, G. R. Vita documentata opere ed influenza su l’arte, I-III, Tivoli 1927-1929; H. Weinstock, R. A biography, New York 1968; L. Rognoni, G. R., ed. riveduta, Torino 1977; B. Cagli, Al gran sole di R., in Il Teatro di S. Carlo 1737-1987, II (L’opera, il ballo), Napoli 1987, pp. 133-168; F. d’Amico, Il teatro di G. R., Bologna 1992; D. Colas, L’Opéra de Lumière, Paris 1992 (trad. it. R. l’opera e la maschera, Trieste 1999); R. 1792-1992, a cura di M. Bucarelli, Perugia 1992; R. à Paris, a cura di J.-M. Bruson, Paris 1992; R. a Roma - R. e Roma, Roma 1992; Rossiniana. Antologia della critica nella prima metà dell’Ottocento, a cura di C. Steffan, Pordenone 1992; G. R. 1792-1992. Il testo e la scena, a cura di P. Fabbri, Pesaro 1994; La recezione di R. ieri e oggi, a cura dell’Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1994; R. sulla scena dell’Ottocento. Bozzetti e figurini dalle collezioni italiane, a cura di M.I. Biggi - C. Ferraro, Pesaro 2000; R. in Paris. Tagungsband, a cura di B.-R. Kern - R. Müller, Leipzig 2002; The Cambridge Companion to R., a cura di E. Senici, Cambridge 2004; F. Rossi, «Quel ch’è padre, non è padre...». Lingua e stile nei libretti rossiniani, Roma 2005; Ph. Gossett, Divas and scholars. Performing Italian opera, Chicago 2006 (trad. it. Dive e maestri. L’opera italiana messa in scena, Milano 2009); V. Emiliani, Il furore e il silenzio. Vite di G. R., Bologna 2007; R. Osborne, R. His life and work, London 20072; S. Lamacchia, Il vero Figaro o sia il falso factotum. Riesame del “Barbiere” di R., Torino 2008; G. Carli Ballola, R. L’uomo, la musica, Milano 2009; R. und das Libretto. Tagungsband, a cura di R. Müller - A. Gier, Leipzig 2010; S. Ragni, Isabella Colbran - Isabella Rossini, Varese 2012; A. Zedda, Divagazioni rossiniane, Milano 2012; W. Crutchfield, G. B. Velluti e lo sviluppo della melodia romantica, in Bollettino del Centro rossiniano di studi, LIII (2013), pp. 9-83; A. Jacobshagen, G. R. und seine Zeit, Laaber 2015; I péchés de vieillesse di G. R., a cura di M. Fargnoli, Napoli 2015.
Per una bibliografia più esauriente si rinvia a D. Gallo, G. R. A research and information guide, New York 2010; R. Müller, Bibliografia rossiniana, in Bollettino del Centro rossiniano di studi, L (2010) e successivi.