TOMA, Gioacchino
Pittore, nato a Galatina (Lecce) il 24 gennaio 1836, morto a Napoli il 12 gennaio 1891, ebbe, orfano nell'infanzia, i primi insegnamenti di disegno nell'ospizio dei poveri di Giovinazzo, e fu poi pittore autodidatta. Recatosi a Napoli nel 1854-55, vi esercitò il mestiere di dipintore ornamentista. Supposto cospiratore antiborbonico, fu confinato nel 1857 a Piedimonte d'Alife. Di quel tempo sono le prime opere che hanno valore per la critica dell'arte sua: alcuni ritratti (Napoli, duca di Laurenzana) e una serie di "composizioni di frutta", ove i delicati velami delle penombre grige fanno pensare alle "nature morte" del settecentesco Iacopo Nani. Nel'59 il Toma ebbe parte attiva nei moti rivoluzionarî; e nel'60 fu ufficiale combattente nella Legione dei Garibaldini. A Napoli (1861-62) e a Firenze (1863) espose piccoli quadri eseguiti con intendimenti di plasticità cromatica nei modi del Palizzi. Il suo "palizzismo" era già superato nel'64, quando egli espose il Tribunale dell'Inquisizione, opera di molta elevatezza, dove la rappresentazione del fatto storico assumeva significato universale. Il grande successo arriso a questo quadro non rincuorò l'artista. Egli sentì il bisogno di ricostituirsi, più che di rinnovarsi, di studiare in raccoglimento e in disparte, senza che la sua arte fosse assillata da necessità di vita pratica. Visse in disparte per un decennio; e nulla si conosce del suo travaglio e del suo lavoro di quel tempo. Per campar la vita, si diede all'insegnamento del disegno nelle scuole municipali per l'artigianato. Tornò al pubblico nel 1874 con un gruppo di quadri che parvero sorprendenti. Vi ritornò nella mostra del '77 con quattro opere che rivelavano compiutamente il carattere e la misura dell'arte sua. Benché tra queste vi fossero due capolavori: La ruota dell'Annunziata e la seconda edizione di Luisa Sanfelice in carcere (ora nella Galleria nazionale d'arte moderna in Roma; v. italia, XIX, tav. CXCVIII), egli non ottenne che critiche aspre e attestati di fredda estimazione. Non fu compreso, in quella Napoli dove l'arte del Morelli dominava su tutti. Il Toma si ritrasse in solitudine operosa. Una decina di quadri furono da lui esposti fuori di Napoli tra il '79 e l'84; ed erano tra essi alcune vedute di mare e di campagna, lontane dalle tradizioni paesistiche napoletane, caratterizzate da personalissime ricerche luministiche, sottili e delicate. E molto lavorò per sé nell'ultimo decennio della sua carriera: studî di ritratto, studî di paesaggio. Lasciò incompiuti quattro quadri: testimonianze di rara vigoria pittorica.
Il T. fu costruttore di "interni" come nessun altro nella pittura ottocentesca. Ogni suo quadro realizza una visione architettonica di spazio dovuta alle posizioni prospetticamente precisate di persone e di cose, ai rapporti di queste posizioni coi limiti ambientali, ai vuoti generati dalle distanze che persone e cose mantengono tra loro. Il rigore prospettico imponeva staticità di forme plasticamente definite, suggeriva situazioni luministiche adducenti nel fondo i massimi valori di chiarezza. Con quella staticità figurativa, il T. rinsaldava il raccoglimento spirituale delle sue persone, la loro silenziosa attenzione ai moti della vita interna. E, da quelle situazioni luministiche ambientali, traeva la possibilità di definizioni plastiche mediante colori chiari e delicati nei sottili impasti, a risalto su fondali scialbi, su pareti bianche o sbiancate dalla luce. Pittore profondamente umano, il T. seppe dare a ciascun'opera sua la bellezza d'una perfetta unità di vita, d'un'armonia compiuta. Questo ha riconosciuto la critica moderna, e gli ha assegnato nella pittura ottocentesca quel posto di prim'ordine che i contemporanei rispettosamente gli avevano negato. (V. tavv. CLV e CLVI).
Bibl.: E. Guardascione, G. T. e la pittura napoletana, Bari 1924; M. Biancale, G. T., Roma 1933; A. de Rinaldis, G. T., Milano 1934 (con bibl.).