TOMA, Gioacchino
Nacque il 24 gennaio 1836 in «strada S. Catterina» a Galatina, in Terra d'Otranto, figlio di Pietro (1803-1842), di professione medico, e di Petrina Strati (1812-1844).
La morte del padre all’età di sei anni, e, due anni dopo, quella della madre, segnarono indelebilmente un’adolescenza inquieta e travagliata, ben descritta dallo stesso Toma nel suo romanzo autobiografico. La formazione giovanile vide fasi alterne, ripartite fra lo studio in alcuni istituti religiosi e la vita di strada a Galatina. La ribellione al duro insegnamento proposto in un convento francescano ne provocò l’allontanamento e l’espulsione, cui seguì, in particolare dopo la morte della madre, un periodo durante il quale divenne il capo di una banda di ragazzi dedita a piccoli crimini.
Le prime opere realizzate sono alcuni disegni caricaturali (ritratti di Vecchio, Vecchia e Gentiluomo); fin da bambino fu sempre attratto dalla grafica, come ricorda lo stesso artista, grazie alle incisioni del Poliorama pittoresco che «mi divertivo a ritrarre attentamente con la penna» (Toma, 1898, p. 5). Affidato alle cure della famiglia materna – lo zio «uomo triviale» e la nonna «vecchia avara, brontolona e di sgarbate maniere» (ibid., pp. 9 s.) – con la quale ebbe rapporti conflittuali, nel 1848 prese parte alle dimostrazioni a favore della Costituzione. I disordini causati dalle intemperanze del gruppo di ragazzi comandati da Toma portarono i parenti a confinarlo in un convento di cappuccini. Poté infine esercitarsi nella pratica del disegno quando, nel 1850, dopo una malattia, fu inviato dai parenti all’ospizio dei poveri di Giovinazzo, in Terra di Bari, che, esemplato sul modello del Reale Albergo dei poveri di Napoli, comprendeva dei laboratori professionali. Il professore di disegno dell’istituto Nicola Ricciardi, colpito dalle capacità del giovane, gli affidò alcuni compiti collegati all’attività manifatturiera dell’Ospizio; tra gli altri, ebbe l’incarico di preparare i disegni per un ricco servizio da tavola. Il carattere intemperante portò al ferimento di un compagno e a una detenzione in carcere per quindici giorni, che ne acuì i problemi ai polmoni, tanto da dover ritornare a Galatina per essere assistito dai familiari. Tra il 1853 e il 1855, nonostante le delusioni e le preoccupazioni per il futuro, operò tra Galatina e Tricase, dove si trovavano il fratello e la sorella, eseguendo in particolare opere a carattere religioso e il Ritratto di Don Pasquale Piri, suo benefattore. Nel 1856 decise di abbandonare la Puglia per trasferirsi a Napoli, dove, senza soldi, ebbe l’opportunità di conoscere il pittore Gennaro Guglielmi che ne favorì l’introduzione nell’ambiente artistico locale, in particolare nel campo delle decorazioni a ornato. In questo periodo, Toma continuò a esercitarsi nel disegno – «riempivo interi albums di disegni di composizione su motivi di tutti gli stili d’ornato» (ibid., p. 25) – e si perfezionò nel disegno su trasparente, specializzazione che favorì il contatto con il famoso paesista Alessandro Fergola, allora coinvolto nel cantiere della villa della Favorita. Fergola lo incaricò dell’esecuzione dei trasparenti per il comparto ornamentale della residenza reale, affidandogli anche l’esecuzione dell’apparato decorativo; il rapporto fra i due si concluse bruscamente a causa della riduzione del compenso promesso da parte di Fergola.
Arrestato dalla polizia borbonica all’interno di un caffè e scambiato per un cospiratore, dopo due mesi di carcere Toma fu obbligato a lasciare la città; nonostante la ricerca di un garante fra la nobiltà cittadina che gli permettesse di continuare a vivere a Napoli, fu condotto a Piedimonte Matese (allora Piedimonte d’Alife). Qui, fra 1857 e 1858, si legò ai notabili locali, in particolare a Beniamino Caso e alle famiglie Del Giudice e Gaetani di Laurenzana, per le quali eseguì numerosi ritratti.
Ai mesi del domicilio coatto si datano alcuni fra i primi dipinti conservati di Toma, tra cui spiccano una serie di nature morte viste e indicate dal critico Michele Biancale e ispirate al lessico dell’artista e amico napoletano Guglielmi (ad esempio le due tele intitolate Frutta e conservate alla Galleria d’arte moderna di Firenze).
Grazie alle garanzie fornite dal duca di Laurenzana, di cui stava eseguendo il ritratto, Toma riuscì, dopo diciotto mesi, a rientrare a Napoli, dove ebbe l’occasione di partecipare all’importante esposizione borbonica del 1859, alla quale presenziò con il suo primo soggetto storico, un’Erminia derivata dalla Gerusalemme liberata di Tasso, che, nonostante le riserve stesse dell’autore, fu premiata con la medaglia d’argento e cento ducati. Negli ultimi anni del dominio borbonico, divenne fervente patriota ed ebbe l’incarico di organizzare un movimento insurrezionale in Irpinia in concomitanza con la spedizione garibaldina dei Mille. Col grado di sottotenente, partecipò all’assalto di Benevento e a diverse fasi della guerra del Volturno, tra cui il famoso episodio dello scontro armato presso Santa Maria Capua Vetere il 1° ottobre 1860. In fuga dopo la battaglia di Pettorano del 17 ottobre, fu imprigionato a Isernia, dove venne liberato, insieme agli altri garibaldini catturati, dall’intervento del generale Enrico Cialdini.
Tornato a Napoli, diede avvio a un nuovo corso pittorico. Nel 1861 fu presente all’Esposizione nazionale di Firenze con Un prete reazionario (forse da identificare con L’obolo di San Pietro al Museo nazionale di Capodimonte, Napoli) e l’etichetta di ‘pittore palizziano’. A partire dal 1862 partecipò con assiduità alle esposizioni della Società promotrice di belle arti di Napoli, di cui fu anche socio, alternando soggetti di ispirazione domestica, pervasi da un intimismo credibile e veritiero che guardava più alle opere di Bernardo Celentano che alla matrice aneddotica dei fratelli Domenico e Gerolamo Induno – L’orfana (1862; Galleria civica d’arte moderna di Palermo) –, a quadretti «di rivendicazione risorgimentale» (Causa, 1975, p. 11) come O Roma o morte! legati al clima verista diffuso da Domenico Morelli in città, il cui apprezzamento per I figli del popolo (1862; Pinacoteca provinciale di Bari) è segnalato quasi sottotraccia dallo stesso Toma nella propria autobiografia.
Negli stessi anni ritrasse, in dipinti dalla forte carica sentimentale (Il fiore appassito del 1863 o La vedova triste), la modella prediletta Nannina. La piena adesione al lessico morelliano fu raggiunta nel Clemente VII nasconde i tesori della Chiesa del 1857, ma presentato quasi due decenni dopo, nel corso della XII Promotrice del 1875, e, soprattutto, nel teatrale Un esame rigoroso del Sant’Uffizio (Napoli, Museo civico di Castel Nuovo).
Il dipinto, uno dei principali esempi di scena storica dell’autore, illustra il famoso episodio della ribellione nei confronti dell’inquisizione spagnola del 1547, particolarmente avvertito dalla classe intellettuale napoletana e, per sensibilità e ideali personali, dallo stesso autore. Fu tra le sue opere di maggior fortuna – venne riproposto all’Esposizione universale di Parigi del 1867 dove ottenne il plauso di Ernest Meissonier – e gli garantì, con la sua vendita, un lauto guadagno.
Più in generale, la vicinanza allo stile di Morelli e dei suoi epigoni pose Toma in una situazione di insicurezza che avvertiva per una generale «mancanza di studi» (Toma, 1898, p. 54). Questa inadeguatezza si manifestò a livello creativo nell’incapacità di portare a termine un’opera per il concorso bandito dal Comune di Napoli nel 1863 e incentrato sul tema «le Signore del '99 che, per sfuggir la plebaglia, si ritirano armate in Castel Sant'Elmo» (Causa, 1955, p. 45), un soggetto che voleva rendere omaggio alle protagoniste di un episodio della rivoluzione del 1799.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, per ovviare a una fase di stasi nella sua produzione e provvedere al sostentamento della famiglia – verso la metà del decennio si sposò con Diletta Perla, con la quale ebbe sei figli – si dedicò all’insegnamento del disegno. Fra i numerosi istituti in cui svolse un’attività didattica, vi fu la Scuola operaia di arti e mestieri che aveva sede nell’ex convitto Cirillo. Negli stessi anni fu attivo nell’Ospizio femminile di San Vincenzo Ferreri nel rione Sanità come docente di disegno applicato al ricamo; in questo periodo, probabilmente, iniziò a ideare i primi disegni di merletti napoletani, che, raccolti in quaranta tavole, sarebbero stati pubblicati nel 1883 nell’album Merletti napoletani a piombini a punto legatore che l’autore dedicò alla regina Margherita di Savoia, appassionata dell’arte del ricamo.
Il tema dell’insegnamento fu particolarmente avvertito da Toma; oltre a ideare una serie di tele collegate al tema (L’onomastico della maestra, 1870; Madre che insegna a leggere a una bambina, collezione privata, Milano), si impegnò a promuovere un nuovo metodo pratico di studio del disegno ornamentale: i suoi risultati furono presentati in occasione del VII Congresso pedagogico di Napoli (1870), in cui fece parte della Commissione preposta al disegno.
Il mondo degli ospizi popolato da giovani orfane al lavoro si rivelò determinante nella scelta dei soggetti che inaugurarono il filone del nuovo decennio. La scuola delle merlettaie cieche (collezione privata, Vercelli) rivela una rassomiglianza con le novità apportate dai macchiaioli, ravvisabili sul piano stilistico e sentimentale. Si suppone che Toma abbia guardato sia alle ricerche toscane di Silvestro Lega e Odoardo Borrani, plausibilmente conosciute attraverso il filtro di Adriano Cecioni, a Napoli fra 1863 e 1867, sia alle analoghe esperienze degli autori della Scuola di Resina, un processo già avviato alcuni anni prima ne Il pittore e la modella (1864) e che avrebbe portato a pieno compimento negli anni successivi. Le due madri e la prima versione di Luisa Sanfelice in carcere (Museo nazionale di Capodimonte, Napoli; la seconda, pressoché coeva, si conserva alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma) ben rappresentano la nuova fase pittorica degli anni Settanta, contraddistinta dall’innata capacità nel calibrare gli effetti di luce diffusa e da un’inedita tavolozza, virata su sobrie combinazioni cromatiche organizzate su scale di grigi e su delicate variazioni di colore. In particolare, nell’immaginario dell’epoca rimase impresso il ton gris che iniziò a contraddistinguere i dipinti di Toma e che contribuì a liberarlo dall’eredità di pittore morelliano o palizziano, a favore di un orientamento autonomo, che non aveva pari nel coevo panorama napoletano. La prima versione della Luisa Sanfelice, tra le sue opere più riuscite, presentata alla XI Promotrice del 1875, riscosse tiepidi apprezzamenti, ricordata più per essere «un quadro grigio e tranquillo. Niente di tragico al di fuori» (Netti, 1875, p. 182).
L’organicità della pittura degli anni Settanta trova corrispondenza nelle tele proposte all’Esposizione nazionale di Napoli del 1877, dove esibì La messa in casa (Comune di Napoli), Il viatico dell’orfana e La guardia alla ruota dei trovatelli (entrambi alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma).
Una pittura «scolorita, timorosa, quasi sofferente» per Netti (1877, p. 59), saldamente impostata su quei principi di composizione prospettica e di attenta resa luministica che aveva adottato nelle opere degli anni precedenti, ma in cui si inizia anche a percepire l’irrompere di una nuova sensibilità, che negli anni Ottanta si sarebbe manifestata con raffinati modulazioni chiaroscurali e più maturi impianti compositivi.
Nel 1878 fu nominato professore aggiunto di pittura ornamentale, insieme a Stanislao Lista, all’Accademia di Belle Arti di Napoli. L’assegnazione dell’incarico, cui non fu estraneo il probabile beneplacito di Morelli, va ricondotta al disegno di riorganizzazione accademica operata da Filippo Palizzi, eletto nello stesso anno direttore dell’istituto. Grazie alla riconosciuta fama acquisita in campo grafico, Toma, che nel 1885 ottenne l’insegnamento di disegno dei gessi nella scuola di Architettura, fu in grado di mantenere la cattedra all’interno dell’Accademia fino alla morte.
All’Esposizione nazionale di Torino del 1880 presentò Educande al coro (collezione privata), La confessione del prete e La pioggia di cenere del Vesuvio (Galleria d’arte moderna di Firenze).
Quest’ultimo dipinto, che conobbe una discreta fortuna iconografica e fu acquistato dal ministero della Pubblica Istruzione, rivela la svolta impressa da Toma al proprio linguaggio e testimonia il confronto con la pittura dai facili effetti di Meissoinier e con gli analoghi motivi già trattati da Giuseppe de Nittis.
Negli anni Ottanta, i dipinti aneddotici, sebbene mai veramente abbandonati (Il romanzo nel chiostro, 1888; Museo nazionale di Capodimonte, Napoli), iniziarono progressivamente a essere sostituiti dalla produzione in serie di soggetti puramente paesaggistici. Le numerose vedute del Vesuvio – elaborate tra loro anche a distanza di anni come in Sotto il Vesuvio di mattina (1882) o Sotto il Vesuvio di sera (1886; entrambi al Museo nazionale di Capodimonte, Napoli) –, le marine, tema sovente sfruttato per introdurre accenti narrativi (I funari di Torre del Greco, 1882; Museo nazionale di Capodimonte, Napoli; e le due versioni de I sommozzatori), o gli scorci dell’entroterra campano, «dal cancello al viale, al cortile, alla casa rustica» (Biancale, 1933, p. 84), rendono evidente la volontà di trattare il paesaggio con una pennellata che tende a divenire sempre più libera e meno controllata. Vi fu anche il tentativo di trasporre in maniera scenografica uno dei temi di successo dell’artista, come nella Luisa Sanfelice deportata da Palermo a Napoli del 1884 (Museo Pignatelli, Napoli).
Allo scadere degli anni Ottanta, Toma cercò di rivitalizzare la propria produzione di soggetti di genere, associando a inconsuete descrizioni d’ambiente (Il tatuaggio della camorra, 1888-1890 o Il refettorio delle cieche, entrambi a Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) e motivi di carattere popolare e sentimentale (Il bacio della nonna) uno stile più vitalistico e corsivo.
La produzione di ritratti fu costante, ma limitata in quantità, tanto da poter essere annoverata come attività estemporanea nel catalogo dell’autore. Toma raggiunse i vertici qualitativi nella tragica intensità del Ritratto del figlio morente o nei fedeli Autoritratti, in cui esprime con schiettezza la propria personalità, dagli ardori giovanili al carattere sommesso e schivo degli ultimi periodi.
Morì a Napoli il 12 gennaio 1891, a causa delle complicazioni provocate da un ictus.
Una selezione dei suoi dipinti fu esposta postuma in occasione della XXVII Promotrice di Napoli dello stesso anno.
Autobiografia, Napoli 1886; nuova ed. intitolata Ricordi di un orfano, Napoli 1898. Inoltre: F. Dall’Ongaro, Istruzione artistica. Scuola d’arti e mestieri in Napoli [1871], in Id., Scritti d’arte, Milano-Napoli 1873, pp. 218-224; Id., L’Arte a Napoli nel 1871 [1873], ibid., pp. 210-217; F. Netti, Luisa Sanfelice. Quadro del signor G. T., in L’Illustrazione Universale, 7 marzo 1875, pp. 182 s.; R. De Zerbi, L’arte moderna. Lettere a proposito della Esposizione Nazionale di Belle Arti in Napoli, Firenze 1877, pp. 35 s.; F. Netti, Esposizione artistica italiana a Napoli. Note d’arte. Dieci altri pittori, in L’Illustrazione Italiana, 22 luglio 1877, p. 59; Yorick, Vedi Napoli e poi... Ricordo dell’Esposizione Nazionale di Belle Arti, Napoli 1883, pp. 116 s.; B., Gli artisti napoletani all’Esposizione di Parigi, in L’Illustrazione Italiana, 21 aprile 1878, p. 270; A. De Gubernatis, Dizionario degli artisti italiani viventi, Firenze 1889, pp. 512-516; D. Angeli, G. T., in Emporium, XXII (1905), 9, pp. 153-160; G. Tesorone, G. T. e l’opera sua, in Napoli nobilissima, s. 1, XV (1906), pp. 99-105; F. Sapori, G. T., Torino 1919; G. Calò, G. T. pittore, Firenze 1922; E. Guardascione, G. T. Il colore in pittura, Bari 1924; M. Tinti, G. T., in Vita artistica, II (1927), pp. 117-122; N. Vacca, L’adolescenza di G. T., in Rinascenza salentina, I (1933), 3, pp. 113-117; M. Biancale, La giovinezza di G. T., in L’esame, XII (1933), pp. 501-518; Id., G. T., Roma 1933; S. Ortolani, G. T., Bergamo 1934; A. De Rinaldis, G. T., Milano 1934; V. Della Sala, Ottocentisti meridionali, Napoli 1935, pp. 260-267; C. Lorenzetti, L’Accademia di Belle Arti di Napoli (1752-1952), Firenze 1952, pp. 135, 145, 147, 188, 263-266; L. Salerno, Mostra di G. T. (catal.), Roma 1954; R. Causa, G. T., in Bollettino d’arte, XL (1955), 1, pp. 39-52; E. Crispolti, Appunti per due tele di G. T., in Emporium, LXIV (1958), 2, pp. 55-63; La Sala Toma (catal.), a cura di R. Causa, Napoli 1962; R. Causa, Napoletani dell’Ottocento, Napoli 1966, pp. 61-79; Id., G. T., Bari 1975; P. Ricci, G. T., pittore piccolo-borghese, in 'nferta napoletana, XIII (1975), pp. 167-197; L. Galante, G. T., Lecce 1975; F. Netti, Scritti critici, a cura di L. Galante, Roma 1980, pp. 19- 22, 61, 107, 179-181, 284; M. Picone, T., G., in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, II, Milano 1991, pp. 1043 s.; G. T. 1836-1891 (catal.), a cura di B. Mantura - N. Spinosa, Napoli 1995 (con amplia bibliografia); S. Gallo, Aspetti del realismo a Napoli: l’interferenza di Adriano Cecioni, in Dialoghi di storia dell’arte, III (1997), 4-5, pp. 236-249; P. Sabbatino, Scritture di artisti. Dupré, Celentano, Toma, in Letteratura & Arte, IV (2006), pp. 191-209; B. Mantura, Un inedito ritratto di G. T., in Bollettino d'arte, CXLVI (2008), 4, pp. 129 s.; A. Bojano, G. T. Sorvegliato politico tra artisti, sotterfugi e nobiltà, Napoli 2017.