OLIVETTI, Gino
OLIVETTI, Gino (Jacob Angelo Gino). – Nacque a Urbino il 5 settembre 1880 da Raffaele, possidente, residente a Ivrea e lontano parente degli omonimi industriali meccanici, e da Emilia Coen, possidente, originaria di Urbino.
Ospite temporaneamente dei genitori di Emilia, la famiglia tornò presto in Piemonte per seguire le attività del padre, sicché Olivetti crebbe fra Ivrea e Torino, dove compì gli studi universitari in un ambiente dominato da figure come Salvatore Cognetti de Martiis, Gaetano Mosca e Cesare Lombroso, laureandosi in giurisprudenza nel 1902. Educato nella fiducia positivista nel progresso tecnico e scientifico e nella sensibilità per la questione sociale, dopo la laurea svolse viaggi di formazione in Gran Bretagna, Francia e Germania. Forte di tali esperienze, nel 1906 fu assunto come segretario generale della neocostituita Lega industriale torinese. Braccio destro del presidente, l’imprenditore serico Luigi Bonnefon Craponne, nel 1910 pose l’associazione padronale torinese in prima linea nella creazione della Confederazione italiana dell’industria.
Forgiare «una vera coscienza industriale» (Belloni, 2011, p. 19) fra imprenditori che apparivano restii ad assumere un ruolo non meramente tecnico per fronteggiare la sfida delle organizzazioni operaie divenne il compito primario che avrebbe guidato per un trentennio l’opera di leader e ideologo industriale di Olivetti. In lui la ferma difesa degli interessi e delle prerogative padronali si fondava, oltre che sulla cultura forense, su un’attenzione, allora precoce nel panorama italiano, per gli esperimenti di organizzazione scientifica del lavoro di impronta statunitense, intesi come base di un’assoluta autorità padronal-manageriale sul luogo di produzione.
Filantropo (fu presidente della Croce verde di Torino) e moderatamente favorevole alla legislazione sociale, era refrattario a ingerenze governative che riteneva improprie, come il piano giolittiano di monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. La tensione fra governo e imprenditori su questo terreno si acuì nel maggio-giugno 1913 per la serrata degli industriali torinesi contro gli scioperi scoppiati nel settore automobilistico. Nell’arco di pochi mesi la Confederazione dell’industria e Olivetti si avvicinarono alle forze nazionaliste, anticipando una curvatura ideologica che lo avrebbe portato a svolgere di fatto, negli anni Venti, un ruolo di cerniera fra il liberalismo più moderato e conservatore e il fascismo.
Le inusitate esigenze produttive del conflitto mondiale lo confermarono nella convinzione della necessità di razionalizzare i processi lavorativi secondo i dettami dell’organizzazione scientifica del lavoro, mentre il coinvolgimento imprenditoriale nella macchina della mobilitazione industriale lo spinse a promuovere un più incisivo ruolo istituzionale degli imprenditori rispetto al potere statale mediante un organismo padronale nazionale più rappresentativo e coeso della Confederazione dell’industria. Nacque così, nell’aprile 1919, la nuova Confederazione generale dell’industria italiana o Confindustria, di cui Olivetti fu segretario generale sino al 1933. Vedendovi una possibile estensione in tempo di pace dello spirito di collaborazione maturato durante la guerra, sostenne gli accordi di settore su orario e minimi salariali sottoscritti dai rappresentanti di alcune categorie imprenditoriali e operaie all’inizio del 1919, ma non nascose i forti timori per la crescente conflittualità sociale, ispirata dagli avvenimenti di Russia.
Respinse recisamente l’opzione consiliarista del gruppo torinese di Ordine Nuovo, emersa durante l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, perché a suo dire configurava un’inaccettabile messa in discussione del potere padronale. L’esigenza di meglio coordinare gli sforzi imprenditoriali evidenziata da questa vertenza si rafforzò in Olivetti di fronte all’ulteriore aggravarsi della situazione economica e politica. Il decreto del governo Giolitti, che chiudeva la vertenza torinese con l’istituzione di una commissione paritetica di rappresentanti imprenditoriali e operai incaricata di formulare proposte sull’intervento delle maestranze nel controllo tecnico e finanziario aziendale, rimase lettera morta dinanzi alla stretta recessiva del 1921, con il conseguente crollo dell’Ansaldo e dell’Ilva, e al precipitare del quadro politico, con la crescente attenzione manifestata da alcuni ambienti imprenditoriali nei confronti dell’emergente forza fascista.
Invero, ancora nel luglio 1922, Olivetti – che dalle elezioni del 1919 era sceso direttamente in campo politico nelle file della destra liberale torinese inaugurando una carriera parlamentare destinata a durare quasi vent’anni – era personalmente favorevole a soluzioni politiche più moderate di quella mussoliniana. Oltre all’approccio esplicitamente antiliberale del Partito nazionale fascista, lo inquietavano gli attacchi brutalmente antisemiti rivolti contro la sua persona dal pubblicista fascista Giovanni Preziosi. Tuttavia questo non gli impedì di tracciare una chiara linea di collaborazione con il neocostituito governo Mussolini, che Confindustria salutò, al momento del suo insediamento, nel novembre 1922, con «benevola e cordiale attesa», in nome dello «sforzo verso una sistemazione in cui si proclamano alfine il diritto della proprietà, il dovere per tutti del Lavoro, la necessità della disciplina» (Belloni, 2011, p. 145).
Gli eventi vorticosi degli anni successivi rinsaldarono tale collaborazione, confermando contemporaneamente il ruolo centrale di Olivetti come coordinatore e stratega dell’organizzazione padronale. Il patto di palazzo Chigi, del dicembre 1923, tra Confindustria e Confederazione generale delle corporazioni garantì l’autonomia dell’organo imprenditoriale rispetto alle più ambiziose richieste del sindacalismo integrale fascista, guidato da Edmondo Rossoni, e al tempo stesso consolidò il legame tra imprenditori e fascismo, legame che sopravvisse alla prova drammatica del delitto Matteotti (1924), per poi cementarsi definitivamente con l’accordo di palazzo Vidoni dell’ottobre 1925.
Durante la crisi politica legata all’uccisione del deputato socialista, Olivetti e la Confindustria scelsero la strada del silenzio pubblico, inviando contemporaneamente a Mussolini un memoriale segreto nel quale richiedevano la «normalizzazione» della vita politica e auspicavano che «il senso di maggior fiducia e di maggior stabilità» garantito sino a quel momento dalla politica fascista, «prima e…più essenziale condizione per l’espansione dell’attività produttiva», fosse mantenuto e anzi sviluppato. Pochi mesi dopo, l’accordo di palazzo Vidoni fissò il reciproco riconoscimento tra la Confindustria, che assunse il nome di Confederazione generale fascista dell’industria italiana, e le corporazioni fasciste, riservando ai due organismi la «rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici…[e] degli industriali» (ibid., p. 184).
Si apriva così per Olivetti il periodo di massima adesione al fascismo, sancito dall’iscrizione al Fascio romano nel gennaio 1926. Tale periodo sarebbe durato, pur fra persistenti diffidenze reciproche e alcune tensioni con il regime, che con una legge dell’aprile 1926 abolì definitivamente le libertà sindacali, sin quasi alla metà degli anni Trenta. Promotore e segretario generale dell’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (ENIOS) fondato nel 1926, Olivetti ribadì costantemente la propria fiducia nel contributo che l’efficientismo e la modernizzazione produttivi potevano fornire all’Italia fascista.
Il primato tecnico-manageriale e l’assoluto controllo padronale sulla disciplina lavorativa costituivano, del resto, assieme alla strenua difesa dell’iniziativa privata, i pilastri della versione di corporativismo attenuata, rispetto al pensiero organicamente fascista e statalista di Alfredo Rocco e al corporativismo organico e integralista di Ugo Spirito, che Olivetti professò dalla cattedra di diritto corporativo alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, ingaggiando scambi non privi di polemiche anche aspre, mediante libri, articoli e interventi a convegni, soprattutto con Spirito.
«Fascista di adattamento» (ibid. p. 183), Olivetti fu estromesso dal regime dai vertici confindustriali dopo l’attuazione della legge costitutiva delle corporazioni approvata dal Gran consiglio del fascismo, nel novembre 1933. Costretto alle dimissioni da Confindustria, si concentrò sull’attività di pubblicista, praticata con successo sin dagli esordi nella Lega industriale torinese, e dal 1936 assunse la presidenza dell’ENIOS. Nel giro di pochi mesi, però, nel 1938, la crescente offensiva antisemita del regime lo indusse alle improvvise dimissioni da ogni carica. L’anno successivo abbandonò il paese alla volta della Svizzera, per poi passare a Parigi e in ultimo in Argentina.
Lì morì nel 1942, forse a causa di una tubercolosi contratta a metà degli anni Trenta.
Fonti e Bibl.: Le informazioni anagrafiche sono ricavate dall’atto di nascita, Urbino, Archivio comunale, Stato civile, Registri di nascita, 1880, I, n. 380. Si vedano i seguenti lavori, basati su fonti pubblicistiche e su alcune tracce conservate nelle carte di polizia fasciste: M. Moneta, G. O. e le origini del sindacalismo imprenditoriale, in Relazioni industriali. Rassegna di politica sindacale e di problemi del lavoro, V (1987), 3, pp. 291-320; G.C. Jocteau, G. O.: la Confindustria e il corporativismo. Il ruolo dell’ideologia nel sindacalismo padronale, in Annali di storia dell’impresa, VIII (1992), pp. 343-378; F.H. Adler, G. O., in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia - S. Luzzatto, II, Torino 2003, pp. 263 s.; E. Belloni, La Confindustria e lo sviluppo economico italiano. G. O. tra Giolitti e Mussolini, Bologna 2011. Ulteriori informazioni sono ora disponibili presso l’Archivio Olivetti, si veda in particolare il volume S. Granata, P. Rapini, Gino Olivetti. Biografia dell'altro Olivetti, un protagonista della storia italiana, Aosta 2014.