DALLARI, Gino
Nacque a Modena il 25 dic. 1872 da Gioacchino, tipografo, e da Virginia Chittoni, in una famiglia numerosa (nove figli) e di modeste condizioni, ma che saprà elevarsi (un fratello generale, uno magistrato, alcuni avvocati) col dinamismo tipico dei ceti emergenti. Studente presso il liceo classico "L. A. Muratori" di Modena, per il suo ottimo profitto ottenne riconoscimenti e l'esenzione dalle tasse scolastiche. Conseguita il 20 ott. 1891 la maturità classica con pieni voti, si laureò in giurisprudenza presso l'università di Modena, con 110 e lode e dignità di stampa con una tesi difesa da Olivi, sul tema: Dei nuovi fondamenti della filosofia del diritto (28 giugno 1895). Dal 1896 frequentò il corso di perfezionamento in filosofia del diritto sotto la direzione di colui che considererà il suo maestro, Icilio Vanni. Nel 1900 iniziò la carriera universitaria, conseguendo presso le università di Bologna e Siena la libera docenza in filosofia del diritto; per la medesima disciplina fu straordinario nel 1902 a Siena, nel 1910 insegnò a Parma, nel 1912 a Pavia, nel 1931 a Milano dove tenne i corsi di principi generali del diritto e resterà fino al termine della carriera.
A Pavia diresse (1923-31) l'istituto di esercitazioni giuridiche che "sotto la sua guida illuminata, fu palestra di studi severi, lasciò ricordi incancellabili..., per la dottrina, per la probità austera" (Groppali, 1947, p. 107). A Milano fu incaricato di scienza politica (1935-39) in sostituzione di A. Solmi, quando questi ricoprì la carica di guardasigilli.
Fu dal maestro Vanni che il D., come egli stesso ebbe a dichiarare, ricevette l'impostazione dottrinale e l'interesse per quei temi che approfondì per tutta la vita: il "positivismo sincero", la fiducia nell'"ufficio delle filosofie particolari", il tentativo di sintesi positivismo-criticismo kantiano; l'osservazione della "complessità di ogni fatto sociale" storicamente inquadrato; la "religione del vero e del bene" (G. Dallari, I. Vanni, necrol., in Riv. filosofica, V [1903], 4-5, pp. 341 s.).
Il contributo scientifico e filosofico del D. si svolse pertanto in due direzioni fondamentali, una inerente alla metodologia della ricerca filosofica ed alla funzione della filosofia giuridica, ed una inerente ad una serie di interpretazioni storico-politiche.
Le posizioni inerenti alla prima direzione tematica si possono dire presenti in nuce, ma già sistemate con organica completezza, nella sua prima pubblicazione, che è poi la sua tesi di laurea (Dei nuovi fondamenti della filosofia del diritto, Modena 1896). L'errore del positivismo e del criticismo consiste nella contrapposizione della scienza e della filosofia, per cui ciascuna di esse, avulsa l'una dall'altra, conclude in un dogmatismo acritico (pp. 6-12 passim), che esteso all'etica si tramuta addirittura in relativismo (p. 31). Una filosofia pratico-etica, al contrario, deve fondarsi su una legge ricavata dalla natura scientificamente provata, legge che il D. individua nel principio cosmico di causalità (pp. 39 s.). Così fondata la ricerca filosofica, rivaluta la funzione delle filosofie particolari (funzione critica, metodologica, sintetica, pratica, etica: pp. 41-57). La filosofia del diritto, come filosofia particolare, in collaborazione stretta con la sociologia, ha il fine precipuo dell'esame critico del fondamento delle ricerche operate dalle singole scienze, giuridiche e storiche, intorno alla base razionale delle prescrizioni giuridiche stesse. Esame che deve partire da un uso del criticismo kantiano rinnovato e purgato nell'"alveo delle scienze sperimentali" (p. 135).
Gli stessi principi vengono confermati di lì a poco, ma sulla scorta di una ampia ricerca storiografica di filosofia giuridica (L'odierno avviamento positivo e critico della filosofia del diritto nella storia del pensiero filosofico, Modena 1901). Una riforma del positivismo e del criticismo, ancora più specifica (L'esigenza del positivismo critico per lo studio filosofico del diritto, in Studi senesi, XIX [1903], 4-5, pp. 308-341; poi Torino 1901) viene tentata in seguito; al richiamo, scontato, di un uso rigoroso del metodo induttivo, aggiunge però l'invito a resistere "all'impulso indisciplinato di una pronta immaginazione unificativa di tutte le forme dell'essere", onde evitare di "trascendere... la serie causale delle forme finite [per arrivare ad] una Causa e Sostanza prima, infinita... in se stessa incomprensibile" (p. 5). Così il D. cerca di recuperare l'agnosticismo criticistico, asserendo che l'insuperabile relatività dell'esperienza non colpisce" di tragica limitatezza il pensiero perché è essa stessa la legge generale e suprema delle cose e della vita", il che lo porta a considerare superato il cosiddetto "realismo della sensazione" (p. 7). Per conseguenza l'etica, fondata sull'esperienza, riduce, per il D., il sommo bene a ciò che ha "importanza" per l'"esistenza e cioè "l'esperienza di benessere o di pena (p. 15). Tutte le nozioni etiche, senza eccezioni, sono dei "pensamenti umani" ed è "illusorio obbiettivarle come... regole imperative esistenti al di fuori dell'umano spirito" fondate sulla natura delle cose e tanto meno in Dio, anche se esteriormente sembrano avere un "carattere di universale necessità" o di "ineluttabile autorevolezza" (p. 16). Da queste premesse il D. passa a definire i concetti giuridici come i "necessari modi di dominio mentale delle... relazioni della vita", oppure come le "forme sintetiche che ritraggono in breve il criterio generale ispiratore della loro piuridica disciplina" e di cui danno la "concettuale padronanza" (p. 26).
Un tentativo di applicazione e verifica delle teorie che precedono si ha in un'opera elabcrata per dieci anni circa e preceduta da anticipazioni sugli Studi senesi, opera considerata il suo capolavoro (Ilnuovo contrattualismo nella filosofia sociale e giuridica, Torino 1911). Il nuovo contrattualismo, quale egli trova enunciato in H. J. S. Maine, Spencer, Fouillée, De Greef, Bierling, è un "ibrido" in quanto frutto di una "impossibile sintesi" fra il contratto sociale "quale dalle Dottrine del Diritto naturale era pensato in giuoco nel processo originario dello Stato", ed il "contratto sociale" nel senso etico speculativo, quale le "Dottrine del Diritto razionale lo pensarono come criterio perenne di legislazione" (p. 482). Il contrattualismo che il D. sembra voglia accogliere è connesso con un processo di emancipazione dell'individuo dall'autorità delle formazioni sociali e di queste dallo Stato (pp. 45 s.), che si risolve, nei "grandi Stati moderni", "congiungendo all'accentramento politico una organizzazione unitaria del diritto e della giustizia ed una attività di controllo, di direzione, di ammodernamento e quasi di fusione di tutte le forze sociali - le quali perciòstesso si trovano sciolte dai vincoli delle anteriori aggregazioni esclusive ed autonome, - riescono ad attuare, nel vasto aggregato sociale che essi racchiudono, le condizioni proprie di un insieme organico". Il vero contratto si fonda su questo consensus, o "mutualità permanente di vincoli e di funzioni", o meglio ancora su di un "accordo spontaneo e una subordinazione di tutte le parti ad un fine comune e superiore: la conservazione e il progressivo miglioramento del corpo sociale, nella continuità della storia" (p. 99). Principio, questo, che il D. riscontra nell'evoluzione della proprietà da collettiva a privata in relazione al passaggio dalla comunione primitiva allo Stato assoluto ed allo Stato di diritto (Intorno alla evoluzione della proprietà - Dalla proprietà collettiva della terra alla privata nel corso di nascimento degli Stati moderni, in Riv. ital. di sociologia, XIII [1909], 1, pp. 13-33).
Il suo superamento del positivismo materialistico traspare nelle critiche a Spencer (Il pensiero filosofico di H. Spencer, in Studi senesi, XXX [1904], nn. 1, 2, 32 pp. 126-193; poi Torino 1904) i cui limiti filosofici (p. 46) si riflettono sulle sue conclusioni (pur riconosciute notevoli e per la maggior parte valide dal D.) in psicologia ("notevole deficienza... nel disegno..., nell'evoluzione del diritto e dello Stato", dei quali evidenzia solo il "momento della disgregazione" e trascura quello dell'"integrazione" o della "solidarietà sociale", p. 54);in etica (fondazione della norma su condizioni ideali e immutabili, p. 55).
Quella storicità, la cui mancanza è rimproverata come incoerenza a Spencer, viene invece riconosciuta a H. J. S. Maine ma criticata nella concreta applicazione metodologica relativamente al concetto di progresso giuridico a causa della pretesa di "contrapporre la testimonianza della storia alle dottrine del contratto sociale, da lui [Maine] non comprese nel loro significato speculativo" (Di una legge del progresso giuridico formulata da H. Sumner Maine, in Studi senesi - Scritti in on. di L. Moriani, Torino 1906, pp. 347-420).L'esigenza speculativa si mantiene dunque sempre presente anche peri temi maggiormente connessi alla dimensione positiva del diritto (In tema di personalità giuridica, in Riv. int. di sc. giur., XLII [1906], 1-3, pp. 7 ss.), come si conferma nella costante rielaborazione di una metodologia della ricerca di "filosofia positiva" (Filosofia positiva del diritto, in Riv. ital. di sociol., XVI [1912], I, pp. 25-42; poi Roma 1912). Le tre "categorie fondamentali" del pensiero: sostanza, causa, scopo, presenti anche nel fenomeno giuridico, la filosofia positiva le risolve col suo metodo: "l'osservazione alla base, l'induzione come avviamento, la costruzione induttiva e deduttiva come sintesi teorica, la conferma dei dati nell'esperienza come riprova. Il procedimento stesso delle scienze della natura e della vita, in genere" (pp. 7 s.).Di qui l'"intima tendenza" della norma di diritto "a farsi valere socialmente anche mercè l'impiego della forza... suffragato dal consenziente giudizio dei consociati" (p. 9).
Il momento induttivo, col trascorrere degli anni, si fa sempre più prevalente nel D. con l'accentuato interesse per la ricerca storica (Filosofia del diritto e scienza storica dell'incivilimento, in Riv. ital. di sociol., XVII [1913],I, pp. 32-50; poi Roma 1913) che lo induce a riproporre sempre ulteriori interpretazioni epocali della storia giuridica ed a vagheggiare una nuova scienza ("emologia generale" come "storia universale": p. 10), sull'esempio di Vico, Cattanco e Cantù (pp. 20-22).
Il contributo sistematico del docente relativo alla sua disciplina può dirsi compendiato nelle tre edizioni delle lezioni (Lezioni di filosofia del diritto, Milano 1941; 1 ed., ibid. 1919, 2 ed., ibid. 1939) dove ritrovano applicazione tutte le sue istanze precedentemente enunciate e dove sembra forse ricollegarsi alla tradizione della cosiddetta enciclopedia giuridica (esame in chiave filosofica e di teoria generale dei diversi settori del diritto: privato, pubblico, giudiziario, internazionale, ecc.: pp. 27- 150).Accanto ad una vera e propria risistemazione di materiale già sviluppato (cap. II, genesi ed evoluzione del diritto) entra, di nuovo, un cap. su Le forze di volontà che compongono il diritto, dove tenta un'interessante ricerca di psicologia giuridica in relazione alla formazione della coscienza giuridica a livello individuale e collettivo (pp. 346-428).
Si è detto che l'esigenza induttiva nella seconda parte della vita scientifica del D. si va sempre più accentuando ed infatti essa trova uno svolgimento in due gruppi di saggi, un primo gruppo relativo al motivo ispiratore della guerra, occasionato dal primo conflitto mondiale, il secondo relativo a temi medievistici aventi come perno portante il pensiero politico di Dante.
Il primo gruppo consta di una serie di saggi-articoli raccolti in un'opera unitaria (Guerra e giustizia, Milano 1918), dove la prima conflagrazione mondiale gli fornisce l'occasione di elevarsi ad una serie di meditazioni di filosofia della storia attraverso le quali cerca spiegazioni del presente attraverso il passato e propone soluzioni per il presente e per il futuro, avendo sempre cura di mantenersi fedele al disincantato realismo che compete ad un filosofo in quanto tale, anche se idealmente fiducioso nel futuro. Al pensiero di Nietzsche viene ricollegata la responsabilità delle tendenze imperialistiche tedesche ed europee in genere alle quali egli affianca un pacifismo non inerme ma sostanziato di una vitalistica capacità reattiva militare (Introduzione, pp. 1-45); all'individualismo elitistico, che dai rapporti individuali si estende a quelli sociali fino a quelli internazionali, contrappone l'idea dello Stato etico inteso come sintesi di consenso e di bene comune (Imperialismo e giustizia, pp. 46-105); così quando il fine è etico e di incivilimento anche la conquista imperiale può eticamente giustificarsi, come le conquiste dell'antica Roma o come quella italiana della Libia (Ildiritto di conquista e la storia, pp. 106-126; L'imperialismo americano e le idee di Alfredo Tayer Mahan, pp. 127-56);la crisi della democrazia dei partiti, dove alla eguaglianza di diritto corrisponde un accentuarsi della diseguaglianza di fatto, lo fa propendere per una democrazia sostanziale assicurata dalla presenza di un effettivo sentimento di solidarietà nazionale (La crisi dei partiti politici e la nuova democrazia nazionalista degli Stati Uniti, pp. 157-86);con riferimento a tesi proudhoniane ed evoluzionistiche collettive (L'idea della guerra nel pensiero di un socialista: P.J. Proudhon, pp. 187-261; Un poema sulla giustizia, pp. 262-301); per cui conclude con una rivalutazione delle virtù militari (Virtù militari, pp. 302-20).
Il secondo gruppo di saggi consta, come si è detto, di scritti di storia medievale e dantistica. Le tesi sociologiche e giuridiche vengono qui di volta in volta vagliate sul piano della effettualità storica: il concetto di nobiltà sostanziale contrapposto a quello classista mortificante il progresso ed il ricambio sociali (Sul concetto della nobiltà nella terza canzone del "Convivio" dantesco, in Rend. d. R. Ist. lombardo di sc. e lett., LXI [1928], 11-15, pp. 572-580); una ipotetica anticipazione di un ordinamento internazionale in Dante (La fede imperiale romana di Dante nel Convivio, ibid., LXIII [1930], 6-10, pp. 556-66); una imprescrittibilità dei diritti pubblici (La discesa di Enrico VII in Italia e le Epistole politiche di Dante, in Studi filos. ded. a G. Del Vecchio, Modena 1930, pp. 114-124); l'ideale di "una civile libertà che si armonizzi nella giusta disciplina di un ordine superiore di vita politica e civile" (Il concetto dantesco della civile libertà, in Annali di sc. pol. [Univ. Pavia], IV (1931), 2, pp. 83-116); la ricostruzione delle graduali conquiste politiche, economiche e giuridiche realizzate dalle classi inferiori attraverso una serie di scelte felici e funzionali che sfruttano a proprio vantaggio eventi (come le lotte fra papi, re e imperatori) i quali a tutta prima sembrerebbero sovrastare le capacità di controllo da parte delle classi subalterne (Momenti di storia politica fiorentina (1265-1283), in Studi in mem. di P. Rossi, Siena 1932, pp. 239-76); il carattere tutto contingente ed estrinseco delle distinzioni di parte guelfa e parte ghibellina, prive affatto di carica ideologica ma pura denominazione di alleanze e cli coalizioni di interessi particolaristici accomunati da mere ragioni di equilibrio di forze (Guelfi e ghibellini. Sguardo su l'origine e la diffusione dei due nomi in Italia e sul loro significato politico (sec. XIII), in Rend. d. R. Ist. lombardo di sc. e lett., LXX [1937], 2, pp. 109-128); idea di una missione universale dell'Europa in Dante (Proemio e libro primo di "Monarchia", in Studi in on. di G. Pacchioni, Milano 1938, pp. 121-160); la decadenza dell'Europa ricondotta, attraverso una interpretazione di Dante, al frantumarsi di essa in un sistema di equilibrio di societas gentium di pari dannoso all'ordine internazionale quanto all'unità interna delle singole nazioni e comunque ai "postulati di una coscienza europea" (L'atteggiamento della Francia verso l'Impero d'occidente dal X al XIV sec., in Studi in on. di A. Solmi, Milano 1940, II, pp. 233-57).
Può farsi cenno da ultimo di alcune monografie su specifici aspetti di pensatori nei quali il D. cerca di riscontrare più o meno confortevoli concordanze col suo pensiero storico e sociologico (Il senso storico di C. Correnti, in Riv. ital. di sociol., XXIII [1918], pp. 286-99; Le origini della città antica secondo G.B. Vico, in Riv. intern. di fil. d. diritto, VI [1926], pp. 348-63; L'opera di pensiero civile di G. D. Romagnosi, in Rendiconti d. R. Ist. lombardo di sc. e lett., LXVIII [1935], 19-20, pp. 1013-1026).
Aveva sposato Maria Tosi Bellucci, da cui ebbe tre figlie. Il D. morì a Milano il 21 nov. 1942.
La figura del D. può considerarsi una delle ultime del positivismo accademico italiano che, attraverso le istanze di un criticismo, più ricostruito che, riesumato, ma più ancora sotto l'irresistibile impulso trasformatore impresso alla società ed al pensiero europei dal secondo conflitto mondiale, prelude, sia con i caratteri della sua personalità sia con le sue chiare prese di posizione, alla metamorfosi idealistica della cultura italiana.
Fonti e Bibl.: Necrol. di A. Groppali, in Riv. intern. di filos. d. dir., XXIV (1947), pp. 107-10 (con bibl.); la pratica trasmessa dal mi nistero della Pubblica Istruzione all'Arch. centr. d. Stato di Roma è stata dichiarata irreperibile; docc. scolastici e univ. presso Arch. di Stato di Modena e Univ. di Modena; carriera univ. presso le rispettive università; notizie sulla fam. dal nipote avv. G. Dallari di Roma. V. Miceli, rec. a Guerra e giustizia, in Riv. int. di fil. d. diritto, II (1922), pp. 167-72: D. G., voce redaz. in Nuovo Dig. italiano, IV, p.521; A. Groppali, D. G., in Noviss. Dig. ital., V, p. 107; R. Orecchia, La filos. del dir. nelle univ. ital. 1900-1965, saggio bibl., Milano 1967, pp. 119-22; Id., Maestri ital. di filos. del dir. del sec. XX, pp. 95-62; A. Groppali, D. G., in Enc. filos., II, Roma 1979, s.v.