COPPEDÈ, Gino
Nacque a Firenze il 26 sett. 1866 dall'intagliatore Mariano e da Antonietta Bizzarri; nel capoluogo toscano, dopo i primi studi presso le Scuole pie, frequentò, dal 1884 al 1891, la Scuola professionale di arti decorative industriali.
L'istituto, diretto dallo scultore A. Passaglia, si proponeva di codificare e diffondere gli insegnamenti che si impartivano nelle antiche "botteghe"; e, nella riproposta del vasto repertorio storico-artistico fiorentino, privilegiava le espressioni decorative del Cinquecento e del manierismo.
Contemporaneamente a questi studi il C. operò nel laboratorio patemo, dedicandosi alla scultura in legno: con tutta probabilità furono proprio gli insegnamenti della scuola e l'impeto compositivo dei giovane (quale risulta, ad es., dal frontespizio che egli disegnò per Ricordi di architettura nel 1892) che influenzarono i prodotti della "Casa artistica", indirizzandoli verso una ricchezza decorativa inusitata anche per questo artigianato, pur tradizionalmente incline all'uso esagerato dell'omamentazione.
Sempre nell'ambito del laboratorio patemo, il C. si trovò a collaborare con alcuni architetti toscani, il che lo convinse a dedicarsi all'architettura; questo orientamento era del resto coerente con gli studi già compiuti e per giunta indotto dal generale clima di Firenze impegnata in questi anni non solo nella progettazione del nuovo centro (con lo sventramento del Mercato vecchio), ma anche in una miriade di restauri, di rifacimenti, di completamenti in stile; la scultura in legno da cui il C. proveniva era poi tradizionale bagaglio dei maggiori architetti di quel passato che si stava celebrando, da Filippo Brunelleschi ai Nigetti, per non dire di Benedetto da Maiano dal quale i Coppedè vantavano una discendenza da parte materna.
Dal '91 al '96 completò la propria formazione con la frequenza alla scuola di architettura presso l'Accademia di belle arti.
Un più sistematico esercizio del disegno e della composizione degli stili influenzò, a quanto è dato vedere, la personalità del C.: il progetto per "una cappella sepolcrale di stile di Brunellesco" con cui si licenziò professore di disegno architettonico nel '96, evidenzia appunto, pur nella "pittoresca" rilettura degli stilerni brunelleschiani, questorichiamo al rigore accademico che in qualche modo mitiga l'esuberanza compositiva de.1 giovane. Anche in unaltra esercitazione gompiuta nell'ambito scolastico, Bozzetto di una villa sul Mediterraneo (in Ricordi di architettura, XV[1894-95]), sono rintracciabili gli effettì di un serio impegno progettuale, se pure il tema meno severo della prova pare autorizzare il C. all'applicazione di quel repertorio manierista che gli è più caro e congeniale.
In un inedesimo registro stilistico sono collocabili alcuni progetti di questi anni per opere in ferro (balaustre, tettoie, capiscala, mensole) eseguite per alcune fonderie di Pistoia, città nella quale per due anni (1897-98) il C. insegnò al regio orfanotrofio "Puccini".
I primi lavori del giovane architetto - secondo la sua testimonianza (Ricorsodell'arch. prof. Gino Coppedè al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, Roma 1913) - furono due "riordinamenti" compiuti a Padova per il palazzo dell'onorevole Wollemborg ed a Bologna per quello del senatore Sanguinetti; fu tuttavia la progettazione e la realizzazione del castello MacKenzie a Genova che segnò il suo primo importante successo.
L'occasione gli venne offerta dal facoltoso Evan MacKenzie, fiduciario genovese dei Lloyds di Londra, il quale commissionò al C. la semplice ristrutturazione di una ampia casa colonica nei pressi di piazza Manin. La figura del committente fu certo decisiva: innamorato di Firenze, il MacKenzie era tra l'altro studioso e collezionista di testi danteschì. La fantasia e l'abilità promozionale del C. trasformarono ed incrementarono le primitive intenzioni dei ricco imprenditore con una proposta, per lui evidentemente suggestiva. La costruzione che occupa un'area assai vasta e che comprende, oltre al corpo principale. una vera e propria cinta muraria con cortili, torrette e vari annessi, risultò lavoro veramente complesso ed impegnò progettista e maestranze dal 1897 al 1906. La tipologia è quella di un vero e proprio castello, "una vera cittadella domestica buona per la lotta e per la parata, che sì difende da vicino e si annuncia da lontano..." (Il castello ...) e presenta riferimenti evidentì alle forme arnolfiane del fiorentino Palazzo della Signoria.
Se ci si può richiamare, per rimanere a Genova, al precedente del castello De Albertis, di certo il C. si mosse nell'ambito di un'operazione ancor più eclettica dal moTento che mise "a Profitto la bellezza di tutti i generi di architettura... le fuse insieme con meravigliosa armonia..." (ibid.) studiando fin nei minimi particolari anche ogni elemento dell'arredo. All'interno infatti, nelle numerose sale dei complesso, ancora si dispiega la fertile e provocatoria vivacità dei C. con un repertorio ornamentale che spazia dalla riproduzione del monumento ai caduti nella battaglia di Cheronea al pendolo di Galileo, pur trovando un generale motivo unitario nel carattere quattrocentesco. Davvero "... sotto la sua guida - come scrisse più tardi il Labò - legnaioli e ferrai ceramisti e vetrai... ritentarono gli usi, risognarono i sogni dei loro antenati..." (cfr. Castelli e ville ...).
Quest'opera è già, per molti aspetti, esemplificativa di quel "paradosso" del "cosidetto stile umbertino" giustamente rilevato dalla Bossaglia (1968): quello che va conformandosi come "stile Coppedè" (comune alla mobilia come all'architettura) presuppone proprio l'ingigantimento, il paradosso del gusto corrente, con una rivisitazione spesso originale di quei caratteri ora gotici, ora quattrocenteschi, ora cinquecenteschi e manieristi che erano effettivamente parte non trascurabile della cultura e del gusto italiano del tempo. D'altra parte è proprio all'impegno in questo fantastico assembiaggio che la critica più attenta fa risalire la genialità sui generis di quella che è stata definita come una delle più straordinarie figure che emersero in Italia in questo periodo (Meeks, 1966).
La fortuna di critica e di pubblico di questo episodio procurò al C. incarichi numerosi, tanto che, pur mantenendosi legato a Firenze e alla Casa artistica, si trasferì con la giovane moglie, Beatrice Romanelli (che aveva sposato nell'89), a Genova; e specie nell'area ligure, ai primi del Novecento, la sua attività professionale fu davvero frenetica.
Fra le opere più significative - nel solco della tipologia del MacKenzie, anche se generalmente di minor impianto ed ambizione - vanno ricordate almeno la villa Turke a Sturla (1904), il castelletto di Priaruggia a Quarto dei Mille (1902), il castello Bruzzo (progettato nel 1904, ma costruito più tardi) a Genova; in Toscana il castello dell'onorevole Frisoni a Bucine (Arezzo) del 1906 e la villa Rolandi-Ricci a Lido di Camaiore presso Viareggio (1909-10); e ancora la villa Biancardi a Codogno (Milano) del 1907-10, la villa Cattaneo a Lugano, costruita intorno al 1912. Opere queste, che il C. scelse per illustrare il proprio lavoro pubblicando, più tardi (1914), lesessanta tavole di Castelli e ville in caratterequattrocentesco.
Ma la sua attività non si limitò a queste architetture pittoresche, fantasficamente ambientate sulle coste liguri o nei paesaggi aperti della campagna; ebbe occasione sovente di misurarsi con i problemi della trama edilizia dei maggiori centri urbani. Se il C. mostrò in questo caso di uniformarsi al linguaggio neorinascimentale, considerato uno dei massimi ideali estetici in architettura, tuttavia del Rinascimento privilegiò gli sviluppi più tardi dando vita, in sintonia con quanto era andato facendo nella scultura in legno e nel mobile d'arte, ad un linguaggio che certo sembra risentire del più opulento ed immaginifico manierismo toscano. Di questo indirizzo può essere esemplificativo il palazzo costruito dal 1903 al 1908 per il commendator Pastorino a Genova, in corso Andrea Podestà (IlCaffaro, 14 maggio 1908), e nella medesima città i coevi palazzi Bogliolo, Zuccarino o, per certe soluzioni decorative, l'hotel Miramare; particolarmente chiarificante (quale anticipazione del linguaggio che sarà adottato su più ampia scala a Roma) risulta anche il palazzo di via Maragliano a Genova (1907). Qui, più che negli altri lavori, si percepisce l'influenza della lezione liberty, specie quale elemento catalizzatore ed unificante del tessuto decorativo della facciata. La massima tangenza del C. con il linguaggio dell'area liberty si ha, tuttavia in occasione dell'allestimento del padiglione di Sampierdarena all'esposizione di Milano "Pro Sempione" del 1906 e successivamente (1909-10) nei progetti iniziali della "Mostra di marina ed igiene marinara" di Genova. Per quest'ultima, allestita solo nel 1914, il C. che ne fu l'architetto capo, progettò il piano generale e la maggior parte dei padiglioni, dando sfogo a tutta la sua fantastica vena inventiva con architetture effimere che sbalordirono i contemporanei pur abituati, nelle esposizioni, alle proposte più varie e stravaganti: di fatto, fra encomi e critiche, la mostra si trasformò, specie a livello locale, in una cassa di risonanza del suo principale artefice (Rassegna universale, I [1912], pp. 7 s.; L'Illustraz. ligure, II[1912], pp. 1 s.; A. Calcaprina, in IlCorriere del popolo, 23-24 maggio 1914; L'Illustraz. ital., 27 dic. 1914, pp. 558 s.; Il Secolo XIX, 23 maggio 1914; Rassegna ufficiale illustrata..., I[1914], pp. 3-6).
A questa data dunque il C. era già un artista assai affermato: accademico di molte accademie (Firenze, Genova, Perugia, Urbino), gli venne conferita la laurea in ingegneria ed architettura dalla Regia Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma; fu cavaliere e poi ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia e venne chiamato come giudice in numerosi concorsi di architettura. Nel 1917 fu libero docente in architettura generale presso la università di Pisa; a quest'ultima attività è connessa una sua pubblicazione di carattere storico, Galeazzo Alessi e il fiorire del Barocco a Genova (Genova 1913).
Dopo la guerra (durante la quale allestì numerosi ospedali da campo) riprese a pieno ritmo la sua attività professionale, legata spesso, in questi anni, alle attività imprenditoriali della famiglia Cerruti che da Genova si spostavano in varie parti d'Italia: così il C. fu tra i primi nell'intrapresa della ricostruzione di Messina ove, oltre alla villa e al palazzo Costarelli, al palazzo Bonanno, al palazzo Tremi (1912-15), eseguì alcuni edifici per i Cerruti (1918-25). Per questi progettò anche una villa a Terracina (1917, oggi distrutta). Sempre per mezzo del Banco Cerruti il C. divenne l'architetto della Società anonima Edilizia moderna, per la quale eseguì numerosi progetti. Particolarmente significativo fra questi è il gruppo di edifici costruiti a Roma, alle spalle di piazza Quadrata (oggi piazza Buenos Aires).
Secondo la prima progettazione, che risale al 1915, il nuovo quartiere doveva comprendere palazzi destinati ai ceti medio-alti con quella tipologia che a Genova aveva già dato, sul piano imprenditoriale, buoni risultati. Sennonché dopo la guerra, in relazione alle mutate condizioni economiche, si decise di privilegiare una tipologia ancor più signorile, più esclusiva e più rappresentativa. Il palazzo detto "degli ambasciatori", che costituisce, con l'arcone su via Dora, l'ingresso monumentale al quartiere, fu terminato nel 1921; fra il 1920 e il 1924 vennero progettati gli edifici circostanti piazza Mincio e l'anno successivo il gruppo di villini a nord, sulla medesima piazza. Questo quartiere rappresenta appieno gli intendimenti del C. in una programmatica sintesi di tradizione e modernità - "Artis praecepta recentis / Maiorum exempla ostendo", come è inciso in fregio ad uno di questi palazzi - attuata con la riproposta del più esuberante, fantastico, repertorio coppedeiano. Al di là della sistemazione urbanistica e della realtà spesso banale dei contenitori (si noti tuttavia l'articolata aggregazione volumetrica del gruppo dei villini detti "delle fate"), la funzione dell'architetto viene ancora individuata nel nobilitare questa architettura con le più varie combinazioni decorative: dal neomanierismo al moresco, dal neogotico al neobarocco, senza prescindere dalla contemporaneità del passaggio dagli stilemi liberty a quelli art-déco. Il tutto pare finalizzato al gusto della meraviglia, alla esigenza di lusso richiesta dalla committenza quale precisa istanza di una società altoborghese per la quale questa architettura, ancora alla metà degli anni Venti, rappresentava il massimo della ricercatezza.
Altre opere del C. in questi anni andarono ripetendo più o meno clamorosamente i fasti del quartiere romano: per esempio, i già menzionati edifici per la famiglia Cerruti a Messina, il palazzo in via Palepoli a Napoli, il castello costruito a Siviglia per il marchese de la Motilla dopo il 1924 (limitrofo all'antica residenza del patrizio sivigliano) e terminato nel '31 dall'architetto Vincente Traver. Sono anche da ricordare progetti non realizzati come quello per un riordinamento edilizio circostante la fontana di Trevi o un altro, grandioso, per la nuova stazione Termini a Roma (progetto Ugolotti-Coppedè: Progetti di massima per una "nuova stazione centrale...", Roma 1923; La Tribuna, 20 genn. 1923; Il Cittadino, 8 apr. 1923). Ma lo "stile Coppedè" fu applicato ànche all'arredo di quelle navi che avrebbero dovuto mostrare al mondo la grandezza del genio italiano e che parvero funzionali alla ricerca di un "primato" adatto ad una nazione mediterranea.
In collaborazione con il padre e il fratello Adolfo, progettò a partire dal 1914 i saloni di prima classe del "Conte Rosso", che furono eseguiti a Firenze dalla Casa artistica solo anni dopo. E ancora per conto del Lloyd Sabaudo disegnò arredi per il "Conte Verde" (1923), per il "Conte Biancamano" (1924-25), per il "Conte Grande" (1926-27); per il "Saturnia" (1926) della Soc. Cosulich di Trieste. Pur nella molteplicità delle chiavi stilistiche adottate (nei vari piroscafi e, all'intemo di ciascuno di essi, nei vari ambienti) la marca coppedeiana risulta inconfondibile per la papticolare ricercatezza degli arredi, per l'uso di tutti gli aspetti della decorazione e per una sorta di "coerenza" che riesce a rendere unitaria l'eclettica varietà di queste sale.
Ma il segno dei tempi mutati si avverte, dopo una certa data, anche nell'operare del C.: l'edificio costruito a Roma in via Veneto, ancora per la Società anonima Edilizia moderna, e terminato nel 1927, pur senza tradire la poetica coppedeiana, appare impostato con una maggiore sobrietà, mitigando in una più classica compostezza l'esuberanza decorativa dei palazzi di piazza Quadrata. In questo caso il C. mostrò di tenere in qualche considerazione le critiche che da più parti erano state rivolte al suo eperato, a una concezione dell'architettura, ad una scuola - della quale il C. si presentava esemplarmente come uno dei campioni - che era ormai per essere definitivamente superata dai tempi. Accomunato in questa sorte al fratello Adolfo, divenne l'ostacolo da abbattere sul cammino di un'architettura che si voleva nuova, rivoluzionaria, di un gusto che oggettivamente andava affermandosi, radicalmente diverso. La morte del C., avvenuta a Roma il 20 sett. 1927, per quanto inattesa, coincise veramente con la fine di un'epoca.
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