CAPPONI, Gino
Nacque intorno al 1350 da Neri di Recco e da Francesca di Lapo Magli. Fu uno dei principali uomini politici fiorentini del Periodo premediceo e con i suoi successi e il suo prestigio fece assurgere tra le principali famiglie di Firenze i Capponi i quali, pur preminenti nel mondo commerciale fiorentino sin dal secolo XIII, nonavevano nel complesso svolto in città un ruolo politico di primo piano. Il giovane C. ricevette l'educazione tipica dei mercanti, e, a tredici anni terminò gli studi all'abbaco; ebbe incarichi pubblici soltanto dopo i quaranta anni, forse perché era stato dichiarato magnate durante la sollevazione dei Ciompi del 1378. Tuttavia è estremamente controverso sia che abbia partecipato a quell'evento, sia che abbia scritto la cronaca, intitolata appunto Il tumulto dei Ciompi, che gli è stata spesso attribuita. Non esistono chiare testimonianze sul ruolo che ebbe nel 1378, né il suo nome appare nelle liste di cittadini proscritti in quel periodo.
Dopo il 1391 il C. si alleò manifestamente agli Albizzi; in quell'anno passò lo scrutinio e fece parte della Balia che esiliò i principali rivali degli Albizzi, gli Alberti. Nel 1394 fu tra i Sedici gonfalonieri di compagnia e nello stesso anno ebbe la prima importante carica amministrativa come vicario di Firenzuola. In quest'epoca il C. diresse un banco in società con Iacopo di Latino Pigli, ma i registri della prestanza del 1403 rendono chiaro che egli allora non era ricco. Nel 1397 fu priore per la prima volta e vicario ad Anghiari; la successione di pubblici incarichi continuò negli anni seguenti, in cui il C. fu podestà di Montevarchi (1398), ambasciatore a Gubbio (1399) e podestà di Castiglione Fiorentino (1400). Nel marzo 1401 entrò in carica come gonfaloniere di giustizia, e fu il primo membro della sua famiglia a ricoprire la suprema magistratura fiorentina.
Ormai il C. era chiaramente tra i capi politici del regime, e ciò è confermato, dalle cariche che in seguito ricoprì in un breve volgere di anni: nel 1402 fu podestà di San Gimignano, nel 1404 capitano di Pistoia, nel 1405 podestà di Prato.
In quest'epoca il problema di Pisa, che era stato al centro della politica estera fiorentina per più di un secolo, era giunto alla fase decisiva. L'occupazione di Pisa da parte dei Visconti negli ultimi anni del secolo XIV e la pericolosa fluidità della situazione che si presentò dopo la morte di Gian Galeazzo nel 1402 resero l'occupazione fiorentina di Pisa insieme necessaria e possibile. Formalmente signore di Pisa era allora Gabriele Maria Visconti, figlio illegittimo del duca deflinto; ma anche il governatore francese di Genova, Boucicault, vi aveva una notevole influenza.
Nella primavera 1405 il C., allora membro dei Dieci della guerra, fu inviato in missione segreta presso il Boucicault per negoziare l'acquisto di Pisa da parte di Firenze; ma il prezzo chiesto dal francese era alto sia dal punto di vista finanziario sia da quello degli impegni politici da prendere col papa avignonese. Quando poco dopo, nello stesso anno, Gabriele Maria fu scacciato dai Pisani e a sua volta offrì di vendere la città a Firenze, la nuova proposta attrasse tutto l'interesse dei Fiorentini. Nuovamente fu il C. a condurre i negoziati, prima a Livorno e poi a Pietrasanta, e l'affare fu concluso per 200.000 fiorini. In seguito all'accordo il C. occupò la fortezza di Pisa con truppe fiorentine e la consegnò a Lorenzo Raffacani, primo castellano fiorentino; ma i Pisani riuscirono a scacciare la guarnigione, e a Firenze non restò che il ricorso alla forza. Nel marzo 1406 fu raccolto un esercito e cominciò l'assedio; Maso degli Albizzi e il C. furono inviati al campo come primi commissari. Nei mesi successivi la politica del C. fu di evitare le pesanti perdite e il grave danno alla città che un assalto avrebbe comportato: le operazioni iniziali si limitarono quindi a uno stretto assedio intorno alle mura. Dato che il tempo passava senza risultati concreti il governo fiorentino, impaziente di questa tattica, richiamò l'Albizzi e il C. e ordinò ai nuovi commissari di prendere la città d'assalto. Ma l'iniziativa fallì e le discordie tra i due principali condottieri, Attendolo Sforza e il Tartaglia, minacciarono di far fallire disastrosamente l'impresa. A questo punto, nel 1406, il C. fu di nuovo mandato al campo, poiché era notoriamente in buoni rapporti con entrambi i comandanti: e infatti riuscì a comporre il loro dissidio disponendo l'esercito, diviso in due, sulle due sponde dell'Arno. Il C. inoltre irrigidì l'assedio e si dice che abbia minacciato di impiccare tutti i Pisani che venivano mandati fuori dalla città per risparmiare vettovaglie. Finalmente, in settembre, Giovanni Gambacorta, che guidava la resistenza pisana, decise di negoziare, e furono il C. e Bartolomeo Corbinelli a concludere con lui l'accordo. L'esercito fu fatto entrare segretamente il 9 ottobre e il C., che lo comandava, ebbe somma cura di impedire il saccheggio; poi arringò i Pisani sulla necessità di accettare il nuovo regime.
Fu il C. stesso ad essere scelto a ricoprire per primo la carica di capitano fiorentino di Pisa: e per quanto la severità del dominio fiorentino sia stata esagerata, è certo che le prime fasi di quel governo comportarono per i Pisani repressioni e umiliazioni. Il C. deve esser parzialmente ritenuto responsabile di ciò, ma un'iniziale severità era necessaria per non perdere Pisa a causa di rivolte interne o di aggressioni esterne. Il C. fu anche responsabile dell'asportazione da Pisa del famoso manoscritto delle Pandette di Giustiniano, portato da Amalli tre secoli prima (ora alla Laurenziana). Tuttavia sembra che non abbia dimostrato quell'animosità personale verso i Pisani che caratterizzò il comportamento di molti fiorentini, e che tentasse di governare con imparzialità.
Molte delle notizie che possediamo su questi avvenimenti derivano dai Commentari sull'acquisto di Pisa, scritti dal C. stesso o da suo figlio Neri sulla base degli appunti paterni. La seconda ipotesi sembra più probabile poiché, se da un lato la relazione ha tratti di immediatezza e di vivacità propri di una testimomanza oculare, dall'altro la sua eleganza stilistica è più facilmente attribuibile a Neri che al padre, il cui stile era sbrigativo e scarsamente letterario. Bernardo Rucellai, che alla fine del XV secolo tradusse in latino i Commentari, li attribuì esplicitamente a Neri.
Da allora in poi il C. ebbe in Pisa notevoli interessi, usandola come centro dei suoi traffici e ricoprendovi occasionalmente delle cariche. Nel 1409 fu sospettato di non esser stato estraneo alla fuga a Pisa dei cardinali dissidenti, e fu tra gli ambasciatori fiorentini inviati dal pontefice Alessandro V per congratularsi della sua elezione da parte del concilio. Nel 1411 fu camerlengo di Pisa e nel 1412 tra i dieci ufficiali incaricati di sorvegliare l'amministrazione della città. Negli ultimi anni fu nominato console catalano a Pisa, il che è un ulteriore indizio di una sua frequente presenza nella città.
Il ruolo svolto dal C. nell'annessione di Pisa molto contribuì al suo prestigio in Firenze, ed egli continuò ad essere impiegato costantemente negli affari della Repubblica. Nel 1407 e nel 1408 il C. fu inviato come ambasciatore a Lucca e cercò di negoziare l'acquisto di Sarzana con Gabriele Maria Visconti; nel 1410 accompagnò Giovanni XXIII che attraversava il territorio fiorentino per recarsi a Roma e fu ancora una volta capitano di Pistoia. Nel 1413 fu inviato come ambasciatore a Venezia per persuadere i Veneziani a concludere la pace con l'Ungheria.
In questi anni il maggiore pericolo per Firenze era rappresentato dalle ambizioni di Ladislao di Napoli e in seguito all'occupazione di Roma da parte di questo, avvenuta appunto nel 1413, il pericolo sembrò esser giunto al culmine. Quando il re si mosse verso nord per minacciare Firenze, tra i Fiorentini si verificò una netta divisione sulla politica da seguire. Maso degli Albizzi e Agnolo Pandolfini sostenevano che Firenze non poteva sostenere una guerra prolungata e il Pandolfini concordò unn tregua di sei anni col re di Napoli. Ma a questa politica si opponevano violentemente il C. e Niccolò da Uzzano, che accusarono di tradimento i partigiani della pace e chiesero che il Pandolfini venisse processato. Il C. fu particolarmente deciso nelle consulte di maggio e di giugno del 1414, quando dichiarò che sarebbe stato meglio vivere sotto il governo dei Ciompi che sotto la tirannide di Ladislao. Perciò il C. fu accusato da Sandro da Quarata di voler fomentare la guerra civile; ma la Signoria lo assolse dall'accusa e fece giustiziare Sandro per calunnie e sedizione. Senza dubbio Maso degli Albizzi e la sua fazione si salvarono dagli effetti potenzialmente rovinosi della loro politica grazie all'improvvisa morte di Ladislao, avvenuta quell'anno stesso. La politica sostenuta dal C., che voleva Firenze forte per difendersi a qualunque costo contro la stretta degli Stati confinanti era realistica, ed egli lo riasserirà anche pochi anni dopo, quando la minaccia verrà dal nord, dalla politica viscontea.
Questo episodio mostrò chiaramente l'esistenza di una crescente frattura tra il C. e Maso degli Albizzi, che egli accusò di tentar di dominare lo Stato. Nei suoi Ricordi, scritti nell'ultimo anno di vita, il C. affermò che la forza della Repubblica era basata sul non permettere ad alcun cittadino di diventare troppo potente, e per tutta la sua carriera egli fu il campione del tradizionale repubblicanesimo fiorentino. Dopo l'urto del 1414 il C. ebbe, relativamente, poche cariche pubbliche; ma ciò può essere dovuto all'età avanzata più che a motivi politici. Comunque nel 1415 egli andò ancora una volta a Firenzuola come vicario, e nel 1417 fu tra i sei ufficiali incaricati dell'amministrazione di Arezzo; nel luglio del 1418 divenne per la seconda volta gonfaloniere di Giustizia. Ormai prossimo alla settantina, il C. era ancora capace di vigorose azioni politiche, come dimostrò l'anno seguente, quando ancora una volta egli capeggiò il partito della guerra contro un piano. degli Albizzi per una tregua con Filippo Maria Visconti. Il C. deplorò il tradimento, da parte di Firenze, degli alleati e particolarmente di Genova, che tale tregua comportava, e previde il giorno in cui Firenze avrebbe dovuto fronteggiare da sola la minaccia viscontea. Ancora una volta egli perse la partita, e non visse abbastanza per vedere realizzarsi i suoi più gravi timori quando, nel decennio seguente, Firenze dovette subire da Milano tutta una serie di umilianti sconfitte.
Si ritiene che intorno al 1420 il C. abbia anche introdotto a Firenze da Lucca l'arte del battiloro, la produzione cioè di stoffe di seta e d'oro intrecciati. I Capponi da lungo tempo erano attivi nell'industria della seta fiorentina, anche se il C. fu più attivo come membro delle arti della lana e del cambio. Egli fu cinque volte console dell'arte della lana, e sebbene poco si sappia delle sue attività commerciali, vi, sono indizi che negli ultimi anni egli si sia sempre più dedicato ad esse. Senza essere ricchissimo, sembra che il C. avesse accumulato una certa fortuna, e al tempo della sua morte, nel 1421, aveva proprietà considerevoli: possedeva la villa di famiglia a Legnaia e inoltre aveva un certo numero di fattorie a sud di Firenze, fuori della porta Romana, e a Quarantola in Val di Pesa.
Comunque il C. fu soprattutto un politico di professione e uno statista perspicace. I suoi Ricordi, sulla cui autenticità non sussistono dubbi, sono una raccolta di aforismi politici e privati che hanno molto del realismo e dell'acutezza del Machiavelli. Oltre alla sua devozione per Firenze e per la sua tradizionale forma di limitato repubblicanesimo oligarchico, il C. riteneva che per l'uomo politico il servizio dello Stato venisse prima delle preoccupazioni per la salvezza della propria anima, poiché non era più possibile governare gli Stati seguendo i precetti cristiani. Il C. vedeva la guerra come uno degli aspetti della politica, ma insisteva perché il supremo comando militare non fosse mai affidato a cittadini dello Stato. In realtà sembra che egli avesse una conoscenza delle cose militari e dei problemi dei soldati di gran lunga superiore a quelladei politici contemporanei. Il suo rifiuto di rischiare un assalto contro Pisa nel 1406 si riflette nei Ricordi, là dove egli insiste perché si evitino le battaglie campali: era questo un luogo comune tra i condottieri che in genere veniva però deplorato dai politici.
Il C. morì il 19 maggio 1421.
I Ricordi non sono soltanto la somma delle esperienze di un politico attivo, ma contengono anche i consigli lasciati ai figli da un padre affettuoso. Il C. insiste perché i suoi figli rimangano uniti e mantengano le loro proprietà in comune il più a lungo possibile, e perché coltivino il maggior numero possibile di legami di amicizia. I tre figli che sopravvissero alla morte del C., e cioè Neri, Lorenzo ed Agostino, sembrano aver rispettato i consigli paterni almeno per alcuni anni, e la relativa solidarietà tra i membri della famiglia Capponi, di cui i discendenti del C. formarono la branca principale, spiega in parte il grande aumento di prestigio che godette nel secolo XV. Il C. aveva sposato Margherita di Iacopo Nasi nel 1388; una seconda moglie, Francesca di Niccolo Serragli, è menzionata in alcune fonti; ma i figli sopravvissuti erano tutti nati da Margherita.
Fonti e Bibl.: La raccolta degli scritti attribuiti al C. fu pubblicata da L. A. Muratori nel vol. XVIII dei Rer. Ital. Script., Mediolani 1731, coll. 1099-1219, sotto il titolo di In Gini Capponii, eiusque filii Nerii Monum. histor. de rebus Florentinorum...; i commentari sul Tumulto dei Ciompi e sull'Acquisto di Pisa furono anche pubbl. da D. M. Manni nelle Cronichette antiche di vari scrittori del buon secolo della lingua toscana, Firenze 1733, pp. 251-81, e il Tumulto dei Ciompi fu anche ripubblicato da G. Scaramella nella nuova ediz. dei Rer. Ital. Script., XVIII, 3, ma attribuito ad A. Acciaiuoli. Per più recenti edizioni dei Ricordi si vedano quelle di G. Folena, Ricordi polit. e familiari di G. C., in Miscell. di studi offerta a A. Balduino e B. Bianchi, Padova 1962, pp. 29-39, e la traduz, inglese a cura di R. Sereno, The Ricordi of G. di Neri C., in American Political Science Review, LII (1958), pp. 1118-22.Per la discussione sulla paternità dei Commentari, sivedano G. Brizzolara, Osservaz. e ricerche intorno all'autore dei Commentari, Pontedera 1895;H. Hauvette, Notes sur les chroniqueurs G. et Neri Capponi, in Bulletin italien, V(1905), 1, pp. 66-72;G. Scaramella, Questioni varie intorno alle cronache capponiane pubblicate dal Muratori, in Archivio muratoriano, VI (1908), pp. 307-26.Per la biografia del C., si vedano particolarmente I. Masetti-Bencini, Neri Capponi; note biogr. tratto da documenti, in Riv. delle biblioteche e degli archivi, XVI (1905), pp. 94100;Id., Alcuni documenti su G. C. il Vecchio, ibid., XXIII (1912), pp. 1-20;M. Mariani, G. C. nella vita polit. fiorentina dal 1393 al 1421, in Arch. stor. ital., CXV(1957), pp. 440-84;P. Litta, Le famiglie celebri italiane, sub voce Capponi, tav. XI. Si confrontino inoltre: Anonimo fiorentino, Cronica volgare dall'anno 1385 al 1409, già attribuita a Piero di Giovanni Minerbetti, in Rerum Ital. Scrip., 2ed., XVIII, 2, a c. di E. Bellondi, pp. 332, 353ss.; G. Cambi, Istorie, in Delizie degli eruditi toscani, XX (1786), pp. 132, 153, 325, 407;Marchionne di Coppo Stefani, Istoria fiorentina, ibid., XIV (1781), pp. 276, 293;G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, a cura di F. L. Polidori, Firenze 1839, pp. 311;Rinaldo degli Albizzi, Commissioni per il comune di Firenze dal 1399 al 1433, a cura di C. Guasti, I, Firenze 1867, pp. 6, 172, 194, 235, 236, 238-40, 388;F. Guicciardini, Dialogo... del reggimento di Firenze, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1932, p. 162;Giovanni di Paolo Morelli, Ricordi, a cura di V. Branca, Firenze 1956, pp. 442, 444, 461, 464;S. Ammirato, Istorie fiorentine, II, Firenze 1641, ad Indicem;G. Capponi, Storia della Repubblica fiorentina, Firenze 1876, ad Indicem;G. Corazzini, L'assedio di Pisa, Firenze 1885, passim;P.Silva, Pisasotto Firenze dal 1406 al 1438, in Studi storici, XVIII (1909), pp. 153 s.; C. Gutkind, Cosimo de' Medici, London 1938, pp. 51 ss.; C. C. Bayley, War and Society in Renaissance Florence, Toronto 1961, pp. 76, 80, 83, 98;L. Martines, The Social World of the Florentine Humanists, Princeton, N. J., 1963, ad Ind.;H. Baron, The Crisis of the early Italian Renaissance, Princeton, N. J., 1966, pp. 368-371;C. Bec, Les marchands écrivains. Affaires et humanisme à Florence, 1375-1434, Paris 1967, pp. 131-50e ad Incem;R.Goldthwaite, Private Wealth in Renaissance Florence, Princeton, N. J., 1968, pp. 189-91;F. W. Kent, Ottimati families in Florentine politics and society, 1427-1530, tesi di laurea, università di Londra, anno accad. 1971, pp. 407 ss.