Deleuze, Gilles
Filosofo francese, nato a Parigi il 18 gennaio 1925 e morto ivi, suicida, il 4 novembre 1995. Tra le figure più innovative del pensiero del Novecento, D. ha rappresentato un punto di svolta negli studi teorici sul cinema, mostrando come il rapporto tra tale forma espressiva e la filosofia non si basi sulla pretesa superiorità di quest'ultima, chiamata a esplicare i concetti presenti in qualche modo nelle immagini cinematografiche, ma su un'analogia di pratiche che coinvolgono entrambi gli ambiti. In questo senso la riflessione di D. porta a ripensare la filosofia stessa attraverso il cinema e le sue immagini.
Nel 1944 si era iscritto alla facoltà di Filosofia presso la Sorbonne dove studiò, tra gli altri, con G. Cangui-lhem e J. Hyppolite. Furono quelli anni importanti per la sua formazione intellettuale: D. conobbe infatti e frequentò F. Châtelet, J. Lacan, P. Klossowski. Si laureò nel 1948 e fino al 1957 insegnò in vari licei del Paese. Dal 1947 al 1960 fu assistente della cattedra di Storia della filosofia alla Sorbonne. Nel 1960 divenne ricercatore al CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e dal 1964 ottenne la docenza di filosofia presso l'Università di Lione. Nel 1969 venne chiamato alla cattedra di Filosofia all'Università di Parigi VIII, che tenne sino al ritiro dall'insegnamento, nel 1987. Alla fine degli anni Sessanta, D. incontrò F. Guattari, con cui iniziò un progetto di lavoro che si concretizzò in diversi testi scritti insieme.Sin dalla fine degli anni Sessanta, la riflessione di D. si sviluppò lungo la linea di un ripensamento totale della filosofia a partire dalla crisi del discorso filosofico tradizionale, insufficiente a rendere conto delle trasformazioni del reale. Già in Différence et répétition (1968), una rilettura a tutto campo della filosofia come produzione continua di concetti, D. afferma che "la ricerca di nuovi mezzi d'espressione fu inaugurata da F. Nietzsche, e deve essere oggi proseguita in relazione con il rinnovamento di altre arti, quali il teatro o il cinema" (trad. it. 1971, p. 7). Forme espressive come la letteratura, la pittura, il teatro o il cinema vengono quindi studiate in funzione dell'apporto che l'arte può dare alla filosofia, essendo quest'ultima sempre chiamata a esplorare i limiti del pensiero, a confrontarsi con una realtà esterna, non filosofica, ma che la spinge alla riflessione. È in quest'ottica che vengono alla luce testi come Marcel Proust et les signes (1964; trad. it. 1986), Kafka. Pour une littérature meneure (in collab. con F. Guattari, 1975; trad. it. 1975) e Francis Bacon. Logique de la sensation (1981; trad. it. 1995). Il confronto con il campo dell'arte permette a D. di affermare che, se "creare concetti sempre nuovi è l'oggetto della filosofia" (Qu'est-ce que la philosophie?, in collab. con F. Guattari, 1991; trad. it. 1996, p. XIII), tale obiettivo si raggiunge attraverso un confronto serrato con le altre pratiche ‒ in particolare quella artistica ‒ al fine di ritrovare la natura creatrice e inventiva del discorso filosofico. L'attenzione di D. per il cinema ‒ concretizzatasi soprattutto in due testi, Cinéma 1. L'image-mouvement (1983; trad. it. 1984) e Cinéma 2. L'image-temps (1985; trad. it. 1989) ‒, dunque, non ha come scopo quello di istituire una nuova teoria del cinema, quanto di elaborare una filosofia che in esso trovi un campo fecondo in cui svilupparsi, in cui creare nuovi concetti, poiché, come sottolineato in L'image-temps, "una teoria del cinema non è 'sul' cinema, ma sui concetti che il cinema suscita" (trad. it. 1989, p. 308). I due testi si costituiscono come altrettante parti di un'opera generale, in cui D., attraverso continui riferimenti a celebri film, delinea non una storia del cinema ‒ per quanto venga fatta una distinzione tra cinema classico e moderno ‒ ma una classificazione dei segni e delle forme che questo ha sviluppato lungo la sua storia. In L'image-mouvement al centro dell'indagine sta la capacità di questa forma d'arte di creare un'immagine del reale inteso come movimento, ossia come realtà in continuo e costitutivo mutamento. A partire da una rilettura di alcune delle tesi di H. Bergson, D. afferma che l'immagine cinematografica non riceve a posteriori la possibilità del movimento, ma la possiede come suo originario statuto ontologico. Il montaggio, nelle sue diverse forme, concatenando blocchi di immagine-movimento, diventa allora lo strumento attraverso cui viene restituita allo sguardo dello spettatore un'immagine indiretta del tempo, vale a dire un'immagine della realtà come movimento che si svolge nel tempo. Quest'ultima, per D., è articolata e si divide in varie forme a seconda della reazione che essa suscita, a seconda del punto di vista che si adotta, sia dalla prospettiva della macchina da presa, sia dalla prospettiva dello spettatore. L'immagine-movimento si articola in tre tipologie: l'immagine-percezione (che riguarda la realtà percepita nei suoi elementi costitutivi, cose, situazioni, personaggi), l'immagine-azione (che riguarda le trasformazioni che gli elementi del reale subiscono nel tempo della narrazione) e l'immagine-affezione (che riguarda il movimento non in senso fisico ma come intensità emotiva). Secondo D. questi tre tipi sono strettamente connessi e, nel loro insieme, contribuiscono a stabilire le coordinate di un cinema inteso come identità di movimento e immagine: la percezione degli elementi distinti ma relazionati tra loro determina infatti sempre una loro azione nel tempo, così come l'esitazione nel passaggio tra percezione e azione, lasciando emergere elementi che vengono assorbiti dal soggetto come qualità pure, crea l'intensità dell'immagine-affezione. Con il passaggio dal cinema classico ‒ dominato proprio dalla centralità dell'immagine-movimento ‒ al cinema moderno, il rapporto tra percezione, azione e affezione (che D. definisce legame senso-motorio) entra in crisi. In L'image-temps il filosofo affronta la rottura del legame senso-motorio, dello schema logico percezione-reazione, a partire dal Neorealismo, in cui al primato dell'azione si sostituisce il primato del vedere e del vagare: i personaggi del cinema moderno, di cui il Neorealismo è l'iniziatore, si ritrovano in un mondo in cui scompare l'azione e ciò che rimane è un mondo frammentato, in crisi, all'interno del quale i personaggi si muovono a stento. Gli autori del cinema moderno, tra i quali, soprattutto, Orson Welles, Jean-Luc Godard, Alain Resnais, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Marguerite Duras, Hans-Jürgen Syberberg, Stanley Kubrick, in modo diverso e con diversi risultati, hanno portato avanti una nuova concezione dell'immagine in cui i singoli componenti non vengono più presentati come elementi concatenati in un'unità superiore, contribuendo a determinare il tutto, ma sono accostati in modo asimmetrico, dispersivo. Nel cinema moderno ciò che domina è la lacerazione, la distanza tra il sonoro e il visivo, tra oggetto e quadro, tra uomo e mondo. Se il cinema classico offriva un'immagine indiretta del tempo attraverso il montaggio, il cinema moderno ne dà un'immagine diretta, in cui il tempo non si offre come successione lineare di istanti, ma come compresenza di falde temporali diverse. Dall'immagine-movimento si passa all'immagine-tempo. È in questo senso che si sviluppa un nuovo rapporto tra immagine e pensiero: se nel cinema classico il movimento automatico delle immagini porta alcuni autori (primo fra tutti Sergej M. Ejzenštejn) a indagare il cinema come arte che suscita il pensiero, nel cinema moderno invece (posizione rappresentata da Antonin Artaud), il pensiero si riconosce impotente, consapevole della propria impossibilità di pensare il tutto. Tuttavia ‒ prosegue D.‒ proprio per la sua capacità di restituire un'immagine stratificata del tempo, in cui momenti diversi possono liberamente coesistere, esso scopre la potenza del falso nella narrazione. L'indiscernibilità tra l'oggetto reale (opsegno) e il suo riflesso, la coesistenza di attuale e virtuale inducono D. a parlare di 'immagine-cristallo', simbolo a un tempo della rifrazione e della reciprocità, come cifra caratteristica del cinema moderno. Il film crea un mondo che non indaga la realtà rappresentandola secondo le leggi della verosimiglianza, ma crea immagini nuove, costitutivamente false e tuttavia in grado di indagare a fondo il reale e il pensiero.Il rapporto tra cinema e filosofia si sviluppa dunque nel pensiero di D. non come indagine sui contenuti filosofici di questo o di quel film, ma come riconoscimento del fatto che sia l'immagine cinematografica sia il concetto filosofico sono atti di creazione, sono pratiche inventive ‒ come D. stesso affermò nella conferenza Qu'est-ce que l'acte de création?, tenuta a La Fémis nel maggio del 1987 e pubblicata nel 1990 (Avoir une idée en cinéma, 1990; trad. it. in "Filmcritica", 1995, 459-60, pp. 436-39) ‒, e proprio in questo trovano un terreno di confronto in cui potersi ripensare: "Il cinema stesso è una nuova pratica delle immagini e dei segni, di cui la filosofia deve fare la teoria in quanto pratica concettuale" (L'image-temps, 1985; trad. it. 1989, p. 308).
Deleuze, pensare il cinema, a cura di R. De Gaetano, Roma 1993.
R. Bellour, Pensare, raccontare il cinema di Gilles Deleuze, in "Aut-aut", 1996, 276, pp. 145-61.
R. De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Roma 1996.
Le cinéma selon Deleuze, éd. O. Fahle, L. Enge, E. Laurenz, Paris 1997.
B.M. Kennedy, Deleuze and cinema: the aesthetics of sensation, Edinburgh 2000.
The brain is the screen: Deleuze and the philosophy of cinema, ed. G. Flaxman, Minneapolis 2000.
S. Hême de Lacotte, Deleuze philosophie et cinéma, Paris 2001.
L'effet Deleuze. Philosophie, esthétique, politique, in "Magazine littéraire", 2002, 406, pp. 19-58 (in partic. R. Bellour, L'image de la pensée, pp. 42-43; M. de Oliveira, Une idée de cinéma, pp. 44-45).