giganti
Figli di Gea, nati dal sangue di Urano (per vari mitografi dal sangue dei titani), i g. furono generati per vendicare i titani rinchiusi da Zeus nel Tartaro. Mostri dalla forma umana, ma di statura straordinaria, e anguipedi (si veda, tra le molte attestazioni letterarie e figurative, la splendida gigantomachia dell'altare di Pergamo al museo di Berlino), trassero dalla loro possente forza fisica folle ardire di muovere apertamente guerra ai loro divini nemici, sotto la guida del re Eurimedonte e con l'appoggio degli Aloidi Efialte e Oto, anch'essi di statura gigantesca.
Nel tentativo di dare la scalata all'Olimpo, Efialte (in D. Fialte) addirittura sovrappose il monte Ossa al Pelio. Zeus, aiutato dagli altri dei e da Eracle, sterminò quegli scellerati a Flegra in Macedonia (una tradizione più tarda indica i Campi Flegrei in Campania), fulminandoli con le sue folgori; e i corpi ancora fumanti di alcuni di loro rimasero sepolti sotto monti che per le loro esalazioni divennero vulcani (in particolare, si ricorda Encelado per l'Etna). La tradizione poetica li vuole altresì relegati dalla vittoriosa potenza divina nel Tartaro: cfr. in particolare, tra gli autori più cari a D., Virgilio (Aen. VI 580-584), Lucano (Phars. VI 665), Stazio (Theb. IV 534, vici 42). Oltre a Eurimedonte, i mitografi greco-bizantini citano i nomi di altri trentatré dei circa cento g. (tra i principali: Agrio, Alcioneo, Clitio, Encelado, Eurito, Gratione, Ippolito, Pallante, Polibote, Porfirione, Toone). La gigantomachia è uno dei miti cui più copiosamente fanno riferimento la letteratura e l'arte figurativa greco-latine; e già nei testi greci e poi, più frequentemente, nei latini s'incontrano frequenti contaminazioni con altre storie di ribellioni agli dei e variazioni anche notevoli: non sempre appare chiara la distinzione tra titani e g., che in qualche caso sono addirittura identificati; Efialte, figlio di Nettuno e di Ifimedia moglie del titano Aloeo, non di rado è considerato un g. vero e proprio; il centimano Briareo viene fatto partecipare alla battaglia di Flegra; sotto l'Etna, anziché Encelado, viene posto Tifeo (aliter Tifone), anch'egli gigantesco, figlio di Gea e del Tartaro, e protagonista di una dura contesa con Giove (la quale inizialmente faceva parte della gigantomachia, divenendo poi episodio autonomo). Cfr. M. Mayer, Giganten und Titanen, Berlino 1887; Roscher, Lexicon Griechische und Römische und Mythologie; Pauly-Wissowa, Real Encyclopädie.
Nel Medioevo non si stentò a credere che fossero veramente esistiti dei g. e che contro la loro empietà si fosse scatenata la vendetta celeste, giacché in loro si riconobbero forze al servizio del male (cfr. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, II, Torino 1892, 88). Alla testimonianza degli autori antichi soccorreva lo stesso testo sacro (attestando dunque un'interessantissima tradizione comune all'area mediterranea orientale): " Gigantes autem erant super terram in diebus illis. Postquam enim ingressi sunt filii Dei ad filias hominum, illaeque genuerunt, isti sunt potentes a saeculo viri famosi " (Gen. 6, 4). Questo passo, che attribuisce un peccato di lussuria a una parte degli angeli, è tra i più delicati per l'interpretazione cristiana: la quale solo dopo il terzo secolo negò risolutamente che nei " filii Dei " fossero da ravvisarsi angeli, dei quali si veniva asserendo la pura essenza spirituale; e dunque ai tempi di D. quel particolare problema era ormai da lungo tempo considerato risolto definitivamente. Quel che però qui importa è che la controversia sull'identità dei " filii Dei " non intaccò mai la convinzione che dunque g. fossero realmente esistiti; tanto più che essi erano anche ricordati in altri passi biblici (Sap. 14, 6 " ab initio, cum perirent superbi gigantes "; anche ,Iudith 16, 8 " nec filii Titan percusserunt eum [Oloferne], nec excelsi gigantes opposuerunt se illi ").
Il tentativo di scalata al cielo apparve anzi parallelo a quel che la Bibbia narrava della torre di Babele (Gen. 11, 1-9), sicché anche Nemrod (in D. Nembròt, Nembrotto) finì per essere considerato un g. (" potens " e " robustus " di Gen. 10, 8 e 9 nella traduzione dei Settanta sono resi appunto con γίγας; ‛ gigans ' è detto anche Golia, in Ecli. 47, 4, alto circa due metri e sessanta: I Reg. 17, 4). Per di più l'esistenza di g. in tempi antichi sembrava comprovata anche da reperti paleontologici, poiché di tanto in tanto affioravano fortunosamente alla luce ossa gigantesche (probabilmente di animali antidiluviani: si vedano al proposito Agost. CIV. XV 9 e Boccaccio Genealogia IV 68).
È questa profonda convinzione che dà ragione della serietà con la quale D. affronta il problema della scomparsa degli orribili giganti (If XXXI 44; cfr. anche v. 31), e cioè quando soggiunge: Natura certo, quando lasciò l'arte / di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte. / E s'ella d'elefanti e di balene non si pente... / più giusta e più discreta la ne tene; / ché dove l'argomento de la mente J s'aggiugne al mal volere e a la possa, / nessun riparo vi può far la gente (If XXXI 49-57).
Nella generazione successiva a D., mentre la cultura umanistica pone più risolutamente l'accento sulla ‛ finzione poetica ' come elemento fondamentale della letteratura (specie antica), si guarda dubbiosamente alla questione della realtà storica dei g.: Pietro e Benvenuto tentano debolmente di difendere questo punto della costruzione dantesca, che peraltro viene poi svalorizzata a favore di un'interpretazione esclusivamente allegorica, che contraddice pienamente alla lettera e allo spirito del testo (afferma Pietro: " Tamen auctor noster allegorice de eis loquitur hic "). Secondo D. - che pone i g. in un pozzo dividente l'ottavo cerchio dal nono, dal quale fuoriescono a guisa di altissime torri dall'ombelico in su: If XXXI 40-145, XXXII 17-18 - essi sono di statura immane: Nembròt misura dalle spalle all'ombelico trenta gran palmi (cioè poco più di sette metri), altezza che non raggiungerebbero tre abitanti della Frisia (che pure avevano fama di essere altissimi) uno sulle spalle dell'altro, mentre la faccia parea lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma [alta circa quattro metri], e a sua proporzione eran l'altre ossa (vv. 65, 58-60); Anteo, che esce dal pozzo per ben cinque alle, / santa la testa (cioè poco più di dieci braccia, circa sei metri e mezzo; vv. 113-114), è altrettanto enorme, o poco meno; lo smisurato Briareo (v. 98) e Fialte sono anche più grandi.
Sulla base di questi dati vari eruditi hanno tentato di calcolare le precise dimensioni dei g. danteschi: ma francamente non si vede l'utilità di tali fatiche, se non in rapporto alle ancora più mostruose dimensioni di Lucifero (v.; e cfr. If XXXIV 28-31). E piuttosto da rilevare come la descrizione dantesca, limitata alla parte superiore del corpo, lasci aperto il problema se D. sapesse che i g. erano immaginati anguipedi dalla tradizione antica (lo avrebbe potuto ricavare, ad esempio, da Phars. IX 656 " stantes serpente gigantas "), come mostra già di sapere Benvenuto (" ideo bene finguntur habuisse pedes anguineos, quia comedunt terram... ", nel commento a If XXXI 30 ss.); è però più probabile, stante la ' umanizzazione ' della loro figura attuata dal poeta (si pensi soprattutto al centimano Briareo), che D. li immaginasse semplicemente come esseri in tutto simili all'uomo, ancorché di proporzioni colossali: come del resto li ritraggono le miniature trecentesche (per queste vedi P. Brieger-M. Meiss-C.S. Singleton, Illuminated manuscripts of the Divine Comedy, Princeton 1969, II 300-307) e mostrano di credere i primissimi commentatori dell'Inferno.
La battaglia di Flegra è ripetutamente ricordata da D. (If XIV 58, XXXI 45 e 92, Pg XII 28-33: la sconfitta dei g. e la morte di Briareo sono ritratti sul pavimento della prima cornice purgatoriale, ad ammonimento dei superbi; cfr. Met. I 151-162, X 150-151; Phars. VII 145, IX 656; Theb. II 595, VI 358, X 909, ecc.) come esempio della folle superbia di chi osò sfidare la potenza divina; coloro che, come Fialte e Briareo (cfr. Aen. VI 287), parteciparono a quella colpevole impresa sono strettamente incatenati (cfr. Phars. VI 665 " vincti terga gigantes "; Theb. IV 534-535 " solidoque intorta adamante Giganturm / vincula "), rabbiosamente frementi nella loro impotenza (cfr. VIII 42-43 " quassa Gigantum / vincula "). Con le braccia libere sono invece gli altri, che pur sempre osarono sfidare la divinità, ma in altre occasioni, di minore gravità: il poeta nomina Anteo, che fu vinto da Ercole campione delle forze del Bene (l'episodio, ampiamente narrato da Lucano in Phars. IV 593-660, assume agli occhi di D. un singolare valore di esemplarità: cfr. Cv III 7-8, Mn II VII 10 e IX 11); Tizio, che tentò di violentare Latona e fu fulminato da Apollo (secondo i poeti classici, nel Tartaro un avvoltoio gli dilanierebbe il fegato per l'eternità: cfr. Aen. VI 595-600; Met. IV 457 e X 43; Theb. IV 538; il particolare è taciuto da D.); Tifone, che contese a Giove il dominio del mondo spargendo il terrore tra gli dei, e fu infine colpito dalle folgori e sepolto vivo sotto l'isola d'Ischia (cfr. Aen. IX 716; Phars. V 101; Theb. X 917; secondo altri, tra cui Ovidio Met. V 321-358, fu sepolto sotto l'Etna: cfr. Pd VIII 70, dove D. respinge la finzione poetica a favore di una spiegazione naturalistica del fenomeno vulcanico). È da notare che Tifone - ricordato da D. già in Cv II V 14 traducendo Aen. I 664, verso grossolanamente frainteso sicché Tifone risulterebbe armato di dardi (e sono invece le folgori di Giove da cui è stato colpito) - propriamente non fu un g., bensì un mostro dalle cento teste di drago: l'abbinamento con Tizio deriva quasi certamente da Phars. IV 595-597 " Typhon / aut Tityos Briareusque ferox, caeloque pepercit / quod non Phlegraeis Antaeum sustulit arvis ". Di Nembròt ‛ gigas ' (VE I VII 4) D. ricorda ripetutamente la colpevole presunzione di voler superare la divinità costruendo la torre di Babele (Pg XII 34-36: esempio di superbia punita scolpito nella prima cornice purgatoriale, e anche lì accostato all'impresa di Flegra; Pd XXVI 125-126); ha le braccia libere, ma a differenza degli altri compagni di pena egli si esprime in un linguaggio incomprensibile a tutti (evidente il rinvio biblico: Gen. 11, 7 " confundamus ibi linguam eorum ut non audiat unusquisque vocem proximi sui "), e gli rimane solo l'infantile sfogo del corno, ricordo della sua passione venatoria: un tempo segno di forza, che qui sta a sottolineare ancor più sardonicamente lo stato di reale impotenza cui è ridotta quell'anima sciocca. Tutta l'ideazione del pozzo dei g. tende a contrapporre alla smisurata dimensione di quegli esseri e alla loro enorme forza fisica la loro sostanziale stupidità, da cui nascono i sentimenti di superbia e di megalomania, e l'assoluta impotenza cui sono costretti per l'eternità da chi essi credettero di poter impunemente sfidare. Cfr. Anteo; Briareo; Fialte; Flegra; Nembrot; Tifeo; Tizio.
Tanto più significativa e velenosa è dunque l'allusione di Pg XXXII 152 e XXXIII 45, nell'allegoria del g. che bacia e poi flagella la puttana sciolta, simboleggiante Filippo IV il Bello e la tresca tra i re di Francia e i papi (Lana: " ogni fiata che li papi hanno guardato verso lo popolo cristiano, cioè hanno voluto rimuoversi e astenersi da tale avolterio, li detti giganti, cioè quelli della Casa di Francia, hanno flagellatoli e infine mortoli, e ridottoli a suo volere "), che l'ira divina punirà inevitabilmente: cfr. Filippo IV re di Francia; Processione Mistica. Il vocabolo, poi, fuori di un preciso riferimento ai g. della mitologia classica, ricorre in Cv IV XXIX 4 Questo non è altro che chiamare lo nano gigante (nella traduzione dell'espressione di Giovenale Sat. VIII 32 " nanum cuiusdam Atlanta vocamus ").