DELLA GENTE, Giberto
Nacque a Parma attorno all'anno 1200, giacché durante il 1260 dichiarò a fra' Salimbene de Adam, che si era recato a trovarlo nella sua residenza di Compegine, nel Parmense, di essere ormai sessantenne. Suo padre fu Egidio di Gilberto Lombardo da Panna, detto anche. Giliolo di Donna Agnese, oppure Egidiolo de Gente, "della Gente", appunto.
La incertezza del cognome paterno viene spiegata dallo stesso Salimbene con queste parole: "Egidiolo ebbe doppio cognome, infatti fu chiamato di Donna Agnese, o dalla madre o dalla, moglie, perché era stata una donna eccezionale... Fu detto anche da Gente, perché, quando era nei paesi d'oltre mare, parlando familiarmente degli eserciti, diceva di sovente: La nostra gente si comporta così!". Comunque, i figli di Egidio furono comunemente denominati Della Gente, cognome che rimase ai discendenti di Giberto.
La famiglia appartenne al ceto sociale dei milites di Parma ed il padre del D., Egidio, fu più volte podestà in numerose città padane: a Modena nel 1220, a Cremona nel 1228-1229, a Reggio nel 1233 e a Vercelli nel 1240: la sua carriera è un segno evidente della stima che gli attribuì la società lombarda della prima metà del Duecento. Ebbe tre figli: Guido, che fu podestà di Reggio nel 1254, Guglielmo, abate del monastero benedettino di Leno, e Giberto.
La prima notizia relativa al D. risale al 1245, anno in cui a Parma si accentuò la tensione politica entro il gruppo dei sostenitori di Federico II: allora il D., insieme con Gherardo da Correggio, seguì Bernardo di Rolando Rossi, il quale dopo che nel 1243 un suo stretto parente, Sinibaldo Fieschi, fu eletto al soglio di Pietro col nome di Innocenzo IV, non sentendosi sicuro entro la compagine imperiale, abbandonò Parma. I fuorusciti si recarono a Piacenza presso il legato papale, Gregorio da Montelongo, ed in seguito raggiunsero Milano. Federico II ordinò che fossero banditi da Parma e fece distruggere le loro case. Due anni dopo (giugno 1247) il D. partecipò, sotto la direzione militare di Ugo da Sanvitale e di Gherardo da Correggio, alla battaglia di Borghetto del Taro (16 giugno) contro i Parmensi sostenitori di Federico II, scontro che si concluse con la vittoria dei fuorusciti. Quel giorno, secondo il racconto di Salimbene, mentre i banditi si trovavano a Noceto e non sapevano quale decisione adottare, il D., che era un apprezzato oratore ("magnus concionator et prolocutor"), li incoraggiò ad attaccare la città, sfruttando il fattore della sorpresa. Dopo la conclusione vittoriosa dell'attacco e la presa di Parma, il D. ne organizzò, con Gherardo da Correggio, immediatamente creato podestà, la difesa dall'assedio di Federico II.
I rapporti con il Correggio furono in seguito rinsaldati dal matrimonio tra il figlio di Gherardo, Guido, "miles bellicosus et ad proeliuni doctus", e la figlia del D. Mabilia.
Dopo la morte di Federico II avvenuta nel 1250, il D. fu creato podestà dei Mercanti e, forte di tale responsabilità politico-economica, nei primi mesi del 1253 strinse segreti accordi con i ghibellini estrinseci di Parma, con i Cremonesi e con Uberto Pelavicino, i quali erano ancora in guerra contro il gruppo guelfo che governava la città emiliana. Lo scopo che il D., fattosi portavoce del mondo mercantile ed artigianale (Salimbene dice addirittura "cuin auxilio beccariorum"), si prefiggeva era quello di riportare la pace tra le fazioni, cosa che non sarebbe stata possibile senza la realizzazione di una sorta di dittatura personale, che lo ponesse al di sopra delle parti. Qualche giorno prima del 20 maggio 1253, ascoltato il parere dei giuristi Giovanni di Donna Rifiuta e Prandone Rossi, nonché quello del giudice Guglielmo da Cornazzano, impose, come "potestas Populi et Mercadancie", al milanese Enrico da Mozzo, podestà del Comune, agli Anziani e alla Credenza, la sua nomina ad unico arbitro tra la parte guelfa e i ghibellini estrinseci. Nel documento relativo a tale nomina, conservato negli Statuti di Parma (pp. 209-226), si dà ampio mandato al D. di dettare le condizioni di pace, a patto che fosse in seguito eletto "potestas Populi, Mercadancie et Communis" sino alla fine del 1253 e poi per altri cinque anni. Il 20 maggio, sulla piazza di S. Maria, di fronte ai rappresentanti dei francescani e dei domenicani e a tutto il popolo, il D. fissò i patti per la pace, che prevedevano la restituzione dei prigionieri e la cessione al Comune, da parte del Pelavicino, dei castelli ghibellini del Parmense e di Borgo San Donnino. Il successivo 18 giugno fu varata una riforma statutaria che attribuiva pieni poteri al D., ormai legalmente considerato signore della città.
Da lui dipendevano tutte le societates armate, le arti e le fortezze del Comune. Gli era data potestà, nei cinque anni e mezzo del suo mandato, di rifortificare la città ed il territorio, di esercitare la piena giurisdizione, di crearsi una milizia personale al fine di difendere nei loro diritti tutti i "cives maiores et minores" di Parma. Tutti i rappresentanti politici ed i magistrati elettivi allora in carica furono considerati decaduti; per cinque anni la città non avrebbe più eletto alcuna magistratura comunale, giacché con la riforma tutti i poteri erano stati attribuiti al D., che avrebbe governato il Comune col titolo di "potestas Communis, Populi et Mercadancie" e con uno stipendio di 1.500 lire parmensi all'anno.
Forte di questi poteri straordinari il D. si presentò, anche agli occhi delle città vicine, come un garante di pace dopo decenni di lotte civili. Nell'ottobre del 1253, ad esempio, la vicina Reggio chiese il suo intervento per riportare e mantenere l'ordine e la tranquillità sul proprio territorio, anche in previsione del già deciso e imminente ingresso in città del vescovo Guglielmo da Fogliano, personalità da molto tempo rifiutata da una parte dei Reggiani. Il D. ed i Parmensi, accompagnati da sacerdoti "cum. crucibus et vexillis", scortarono in Reggio il presule (28 ottobre). Il giorno successivo, "magna cum leticia", il dittatore di Parma conciliò i partiti avversi della città vicina, ma ordinò anche la decadenza del legittimo podestà, imponendo al posto di quest'ultimo il proprio fratello Guido. All'inizio del nuovo anno (1254) il potere del D. si rafforzò ulteriormente: il 10 giugno fece approvare dal Consiglio di Parma uno statuto con cui si prolungava sino a dieci anni la durata della sua carica podestarile e si stabiliva che essa fosse trasmissibile, in caso di morte durante il decennio del suo mandato, ai suoi eredi. Qualche giorno dopo (19 giugno) il Comune gli portò a 2.000 lire annue gli emolumenti. Nel contempo l'immatura scomparsa del fratello Guido permise al D. di essere eletto anche podestà di Reggio, ove pose come proprio vicario il nipote Guido de Ancelis. Il D., in tale modo, era giunto al culmine della sua potenza.
Proprio allora il gruppo guelfo, da cui egli si era separato per poter realizzare la sua dittatura personale, non sentendosi più garantito nei propri interessi, iniziò ad osteggiarlo. La manovra ebbe esito favorevole innanzi tutto a Reggio, ove l'8 febbr. 1255, in seguito a tumulti provocati da forti discordie, il D. ed il suo vicario furono espulsi dalla città, che un mese dopo, annullate le leggi straordinarie del 1253, ritornò al normale regime podestarile. A Parma, invece, il potere del D. era ancora saldo, tanto che egli poté compiere una riforma completa degli statuti cittadini, impresa di certa validità, come è dimostrato dal fatto che la legislazione da lui varata rimase in vigore anche dopo la fine della sua signoria. Tuttavia l'opposizione dei guelfi lo spinse ad avvicinarsi sempre più al partito imperiale. Un primo episodio del contrasto fra il D. ed i suoi antichi fautori si ebbe tra il 1257 ed il 1258 in occasione dell'elezione del vescovo di Parma. che avrebbe dovuto succedere ad Alberto da Sanvitale, morto il 16 maggio 1257. Il capitolo dei canonici della cattedrale designò Giovanni di Donna Rifiuta, maestro di diritto canonico e arciprete della città, cui fu contrario il D., che intendeva imporre invece suo fratello Guglielmo, abate di Leno. Nel contrasto finì col prevalere un terzo candidato, Obizzo da Sanvitale, appoggiato dal gruppo guelfo che faceva capo al cardinal Ottobuono Fieschi. La tensione in città aumentò durante il 1258, che fu un anno di carestia e di grave crisi economica; i prezzi dei cereali lievitarono ed il D. fu costretto ad emanare severe misure restrittive per il controllo degli scambi commerciali e dei mercati della città e del distretto, al fine di evitare indebiti accaparramenti. Tali disposizioni, dettate da obiettivi motivi d'ordine economico, gli valsero l'accusa di avarizia, registrata da Salimbene; ma la sua popolarità tramontò definitivamente solo quando egli fu costretto - sempre p er motivi economici - a svalutare, diminuendo la quantità di argento fino, la moneta parmense nei confronti della lira imperiale. Se infatti nel 1254 il cambio era di tre soldi di Parma per un, soldo imperiale, nel 1258 occorrevano quattro soldi parmensi per acquistare un soldo imperiale. Nell'opinione pubblica il D. apparve non solo come un affamatore del popolo, ma anche come un falsificatore di moneta, che agiva "plus ad utilitatem. propriani quam communem". Tutti additavano, a riprova dell'accusa, gli alti e poderosi palazzi che si era fatto costruire, in stridente contrasto con le sue modeste origini di "pauper miles". Solo l'inflessibile uso degli organi di polizia, fondato sul terrore, era ancora in grado di sorreggere l'ormai impopolare regime del D.: eppure, su simili basi all'inizio del 1259 egli ottenne la riconferma della podestaria, venendo riconosciuto - secondo l'ampia formula allora adottata - "potestas, rector et perpetuus dominus Communis, Populi et Mercadancie".
Oltre alle difficoltà, che l'opposizione interna creava al D., si profilava intanto un serio pericolo esterno, giacché Uberto Pelavicino mirava ad impossessarsi di Parma. A bloccare la minaccia non valsero né l'attività di fortificazione dei confini subito promossa dal D., né la sua politica estera di fiera opposizione al Pelavicino. Nel dicembre del 1259 il Consiglio maggiore di Parma, temendo il peggio, depose il D. dopo sei anni ed otto mesi di signoria, e nominò come podestà Inghiramo Frangilasta da Pistoia, che assunse la carica nel 1260. Il D. si ritirò a Compegine, ove ricevette qualche tempo dopo la visita di fra' Salimbene de Adam, che già era stato in rapporto con lui e che si era proposto.di indurlo ad abbracciare la vita religiosa, vestendo l'abito francescano e rinunziando alla gloria mondana. Fu un tentativo inutile: "Laboravi rogans, sed noluit intelligere, ut bene ageret. Nani iniquitatem meditatus est in cubili suo", osserva in proposito Salimbene. Il frate riportò ad ogni modo una cattiva impressione dal colloquio, giacché comprese che il D. era intenzionato a vendicarsi "de Parmensibus et de Reginis, qui ... eum de dominio deposuerant".
La nomina a podestà di Pisa per il 1261 fece tornare il D. sulla scena politica italiana. Anche la fortuna delle armi sembrò volgere allora dalla sua parte, giacché ebbe modo di conquistare per i Pisani i castelli di Montecalvoli e di Santa Maria in Monte e di concludere favorevolmente, tra il settembre e l'ottobre, l'assedio di Fucecchio. Allo scadere del mandato, il D. lasciava Pisa in una solida situazione diplomatica, giacché aveva sottoscritto, a nome di quel Comune, un trattato di alleanza con Siena, Pistoia e Volterra. Nel marzo del 1262 raggiunse Padova, ove era stato eletto podestà per quell'anno; nella città veneta svolse una intensa attività diplomatica, che si concluse il 23 aprile con un accordo tra Padova, Vicenza, Verona e Treviso. Prima di scadere dalla carica il D. organizzò i grandi festeggiamenti per la translatio delle reliquie di s. Antonio ed assistette il 15 febbr. 1263, insieme con Bonaventura da Bagnoregio, alla ricognizione del corpo del santo.
Ritornato a Parma si reinserì nella vita politica del Comune, ove ormai si era affermato anche il figlio Lombardino, che nel 1262 aveva lavorato alla riforma degli statuti. Ad un decennio di distanza si riproponeva l'esigenza della pace tra le fazioni della città: appunto per rispondere a tale esigenza, dopo una attiva campagna di propaganda nel 1264, il D. riuscì a far approvare una legge che concedeva agli estrinseci la possibilità di ritornare in città, e di rientrare in possesso dei loro antichi privilegi e possessi. Ma la situazione politica generale nella pianura padana precipitò: a metà dicembre 1264, a Modena, i guelfi ruppero la situazione di equilibrio cacciando la fazione ghibellina. Le conseguenze di questa novità si ripercossero a Parma tra il 18 e il 19 dicembre, quando le fazioni si scontrarono sulle piazze; l'esito incerto del conflitto ed una iniziativa di pace avviata dal canonico Giacomo Grasso riproposero la possibilità di una soluzione mediata. Il governo della città fu infatti affidato a due podestà: Giacomo Tabernerio e il D., che avrebbero dovuto rappresentare in concordia gli interessi rispettivamente del gruppo guelfo e del gruppo ghibellino. Ormai la posizione politica del D. si era spostata apertamente verso il partito dell'Impero e quando il 28 maggio 1266 un colpo di Stato, compiuto dal capo della "pars Ecclesie", Baldo da Froa, spezzò di nuovo l'equilibrio, il D. dovette rifugiarsi, insieme con i fautori dei Pelavicino, a Borgo San Donnino. Occupato e saccheggiato quest'ultimo nel 1268 ad opera dei guelfi, il D. tentò l'ultima resistenza nel suo castello di Compegine, dove fu assediato dagli avversari. Nel 1270 il podestà di Parma, Gerardo Boiardo da Reggio, giunse finalmente ad occupare la "fortezza" e la fece radere al suolo. Il D. riuscì tuttavia a salvarsi e si rifugiò come esule in Ancona, ove poco tempo dopo morì.
Nel testamento lasciò come propri eredi i figli Lombardino e Pinone. Dispose anche un consistente legato per i frati minori e per i frati predicatori di Parma, affinché pregassero per ottenergli la remissione dei peccati. Si trattava di colpe non solo politiche. Stando a quanto risulta da un documento del 1310, infatti, durante il suo governo il D. aveva sicuramente realizzato, probabilmente per interposte persone, "usuras et acta in fraudem usurarum".
Anche i figli del D. ebbero un'esistenza travagliata: Pinone, bandito da Parma nel 1287, fu ucciso a Compegine il 17 maggio di quello stesso anno dai nipoti Guglielmino e Guibertino. Quattro anni più tardi, Lombardino vide distruggere per la seconda volta la rocca avita di Compegine dai Parmensi, i quali intendevano in tal modo vendicare un assassinio politico da lui perpetrato. Lombardino morì nel 1298.
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