GIAVELLOTTO (ἀκόντιον, ἄκων, ἀποτομὴ, σίγυννος, ecc.)
Presso i Greci era un'arma da getto, usata nei giuochi ginnici. Il primo ricordo lo abbiamo in Omero (Il., XXII, 887); più tardi il lancio del giavellotto fece parte delle gare olimpiche, nelle quali costituiva una delle cinque prove del pentatlo, nonché di altre riunioni festive come le Panatenee. Sembra che il tipo di giavellotto usato nelle palestre non fosse costante: ma generalmente doveva trattarsi di un'asta, nella quale veniva inserita una lunga punta aguzza e affilata, che talvolta, per prudenza, veniva ricoperta.
Le rappresentazioni vascolari, se ci lasciano incerti sul numero di giavellotti che ciascun atleta poteva lanciare, ci mostrano tuttavia l'acontista che si preparava a scagliare l'arma, facendo passare l'indice e il medio nell'amentum (ἀγκύλη), cioè in quella cordicella di cuoio annodata al centro del bastone, e che serviva a imprimere a questo un movimento rotatorio, e quindi forza e sicurezza di direzione; talora poi ci mostrano come l'atleta, portando l'arma sulla spalla, dopo una breve rincorsa, la lanciava a distanza: egli non doveva pertanto oltrepassare una linea determinata (τέρμα). In taluni casi il giavellotto era scagliato anche da fermo. Non sappiamo con sicurezza se ci fosse un tiro con traiettoria curva e uno perfettamente orizzontale; sembra tuttavia certo che ci fosse un tiro dal basso in alto. Il principale scopo del lancio del giavellotto consisteva nel far superare all'arma scagliata un termine fisso (ὑπερακοντίζειν), ma non si deve escludere che il tiratore avesse talora una mira, consistente in una colonnetta, uno scudo, un cerchio tracciato per terra. Un virtuosismo era quello del giavellotto scagliato da cavallo. Il giuoco del giavellotto era praticato anche dagli Etruschi, come dimostra una pittura murale di Chiusi, che esibisce un acontista a cavallo. Abbiamo notizie sicure dell'uso di questo ludo anche presso i Romani.
Per i Romani il giavellotto o pilum fu l'arma caratteristica dei legionarî e dei soldati dei corpi speciali, quali le coorti pretorie e le urbane. Le hastae delle antiche milizie durante la guerra di Pirro erano divenute impotenti a raggiungere la falange, protetta dalle lunghe sarissae di tipo macedone; si rese quindi necessaria l'introduzione di un'arma da lancio a scariche ripetute: fu questo il pilum, che i Romani avevano conosciuto dai Sanniti. Per circa due secoli soltanto gli hastati e i principes ebbero il pilum, mentre i triarii continuarono a essere armati di hastae. Con la riforma militare di Mario, lo ebbero anche i triarii; il suo uso divenne generale nei primi tempi dell'Impero. Dopo le riforme avvenute durante i regni di Adriano e di Diocleziano, il pilum fu lasciato ai primi quattro o cinque dei dieci ranghi militari o cohortes. Gli altri ricevettero un'hasta ad amentum di origine spagnola, la lancea. Durante il sec. IV l'armamento da lancio si modifica ancora per dar luogo a due varietà, il verutum e lo spiculum. La voce pilum diviene un termine generico per designare ogni specie di arma da lancio.
La più antica descrizione del pilum si ha in Polibio (VI, 23, 9). Esso era formato da un'asticella di legno a sezione per lo più angolare, talvolta rotonda, cui era innestato un ferro terminante in una punta a forma di amo o di uncino. La lunghezza del ferro era di circa m. 1,35, quella totale dell'arma di circa 2 m. Il ferro penetrava fino alla metà dell'asticella lignea, incastrandovisi solidamente, in modo che l'arma era distinta in tre parti quasi eguali in lunghezza, e cioè: l'asticella di legno fino al punto ove giungeva l'innesto del ferro, la parte superiore dell'asticella con il ferro, il solo ferro. Ciascuna di queste tre parti raggiungeva la lunghezza di cm. 67 circa. Il diametro dell'asticella era di cm. 3.
Mario, nel riordinare l'armamento dell'esercito romano, volendo che i pila non potessero essere strappati dagli scudi nemici nei quali fossero andati a conficcarsi, e di nuovo impiegati dall'avversario, fece sostituire una delle due ribaditure, che mantenevano il ferro nel punto della sua immissione nell'asticella, con una caviglia di legno che si spezzava sotto l'urto, rendendo l'arma inutilizzabile. Allo stesso scopo Giulio Cesare immaginò di temperare il ferro alla punta, per far sì che si ritorcesse nel momento in cui penetrava nel corpo resistente; anche se si fosse riusciti a estrarla, l'arma restava fuori d'uso. Questa innovazione permise di accorciare l'arma, alleggerendola: alla fine dell'età repubblicana la lunghezza del ferro era ridotta a cm. 90, quella totale a circa m. 1,50. Sotto l'Impero s'accentuò la tendenza ad accorciare sempre più il ferro, fino a ridursi a quell'arma da lancio, che Vegezio (I, 20; II, 15) chiama spiculum, a ferro triangolare e sfilato, superante di soli cm. 30 l'asta di legno, lunga m. 1,60. La forma di quest'arma fu del resto varia, a seconda dell'età e dei luoghi.
Il peso complessivo dell'arma oscillava tra un minimo di 700 gr. e un massimo di un chilo e 200 grammi. La lunghezza del tiro poteva raggiungere i 30 o i 40 m.; la portata media era però di 25 m. Il massimo di distanza fra l'esercito romano e il nemico per un tiro efficace doveva essere perciò di 50 passi. L'acies doveva restare con l'arma al piede (pilis defixis) finché non si fosse raggiunta tale distanza; nel momento in cui il comandante faceva dare il segnale della emissio, la prima linea doveva portarsi in avanti a passo di carica, e giunta a 50 passi dalla linea del nemico, ciascun combattente, tesa la gamba sinistra, doveva lanciare con la mano destra il pilum, la cui forza si trovava così accresciuta dallo slancio della corsa. Le altre linee si succedevano, compiendo ciascuna la stessa manovra. Gli effetti del lancio dei pila potevano essere decisivi per l'esito della battaglia. Spesso il pilum servì, oltre che da arma da getto, anche da arma a mano, quale piccola lancia, per il combattimento da vicino.
Oltre al pilum leggiero fin qui descritto, era in uso nell'esercito romano, almeno ai tempi di Polibio (VI, 23, 16), un altro pilum pesante, usato dagli hastati e dai principes, la cui asta raggiungeva la sezione di 7 o 8 cm. I legionarî, che dovevano fare uso di quest'arma, la portavano durante la marcia sospesa al bagaglio, e si può supporre che se ne servissero per la difesa del campo. Doveva essere senza dubbio un'arma pesantissima e lunga, singolarmente adatta per la sua forma a respingere un assalto contro il vallum. Si trattava in simili casi di scagliare l'arma dal parapetto della muraglia in giù, contro il nemico che dal basso faceva impeto verso l'alto. Questo pilum murale fu molto adoperato nei tempi più antichi; il suo uso andò a mano a mano declinando.
Alcuni esemplari della parte ferrea del pilum sono conservati nei musei germanici, specialmente di Magonza e di Wiesbaden. La forma dell'arma ci è esemplificata in molti rilievi sepolcrali, rinvenuti specialmente in Germania e in Austria.
Nel periodo seriore imperiale alcuni corpi dell'esercito furono armati di piccoli giavellotti o dardi (martiobarbuli, sagittae plumbatae), cinque per ogni soldato, assicurati nell'interno dello scudo. La punta era munita di uncini, e il tubetto da infiggervi il fusto era rafforzato mediante un grosso rivestimento di piombo che rendeva l'arma micidiale. La testa di una siffatta arma da getto fu trovata presso Magonza, e si conserva nel Museo di Wiesbaden.
Bibl.: A. Müller, in Philologus, 1881, p. 123; 1888, pp. 516, 721; 1895, p. 226; A. Baumeister, in Denkmäler, s. v. Waffen; A. J. Reinach, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, IV, i (1905), p. 481 segg., s. v. Pilum; per il lancio del giavellotto come giuoco, A. De Ridder, ibid., s. v. Iaculum; v. anche armi, IV, p. 481 seg.
Sport moderno. - L'attrezzo usato attualmente per il lancio è una sottile e rotonda asta di legno provvista di un puntale metallico, lunga m. 2,60, pesante non meno di gr. 800. Sul centro di gravità del giavellotto si trova l'impugnatura, che è costituita da un avvolgimento di funicella "strafornizzata".
Il giavellotto si lancia di solito con la destra, impugnando l'attrezzo circa verso il centro di gravità. Chi lancia deve portare l'attrezzo all'altezza della testa e tenendo questo costantemente rivolto verso la linea di lancio deve iniziare quindi la rincorsa. A mano a mano che il lanciatore si avvicina alla linea di lancio, il braccio dev'essere portato indietro in modo che, giunto sulla linea suddetta, esso si trovi disteso al massimo. Compiendo allora una rotazione dal basso in alto, lo si riporta violentemente in avanti, facendolo passare sopra la spalla. Al culmine massimo della rotazione il giavellotto dev'essere abbandonato; esso dovrà scivolare nello spazio con la punta in avanti, senza scosse e vibrazioni, compiere una parabola e, giunto al vertice di questa, abbattersi e conficcarsi nel terreno.
Nell'Olimpiade fuori serie svoltasi ad Atene nel 1906, e nella quale fece la prima comparsa il lancio del giavellotto, il vincitore raggiunse m. 53,90; nelle Olimpiadi di Los Angeles (1932) furono raggiunti dal filandese M. Jarvinen m. 72,71, record olimpionico. Il record del mondo appartiene (1932) allo stesso atleta, con m. 72,93. Il record italiano appartiene al veronese Dominutti con m. 61,59 e quello mondiale e olimpico femminile a B. Dietrichson (Stati Uniti) con m. 43,70.