DENORES (de Nores), Giason
Nacque a Nicosia attorno al 1530, da Pietro, di potente e nobile famiglia probabilmente originaria della Normandia.
Nell'isola di Cipro possedeva terre e ricchezze; lo zio Giovanni, fratello di Pietro, era un noto giurista e diplomatico e sappiamo di un suo incarico a Tripoli come ambasciatore della Repubblica di Venezia, a cui Cipro, dal 1489, apparteneva. Anche il figlio di Giovanni, Alvise (cugino del D.) ebbe incarichi dalla Repubblica, come premio per la fedeltà della famiglia. La nonna del D. era sorella del potente cardinal Podochataro. Ma proprio col D. la famiglia stringerà ulteriormente i propri rapporti con la nobiltà e i potentati veneziani. Quattro sue nipoti (figlie di una sorella) sposarono membri delle famiglie aristocratiche Da Mosto, Bembo, Memmo, Giustinian, mentre col proprio matrimonio il D. si legò ai Pesaro.
Il D. compì i propri studi universitari a Padova verso la fine degli anni '40 e lì ascoltò le lezioni di filosofia e scienza di Trifon Gabriele, uno dei più noti intellettuali dell'ambiente veneto di quegli anni, la cui intima amicizia il D. ricorderà più volte (cfr. Apologia contra l'auttor del Verrato, Padova, P. Meietti, 1590, p. 152 e In epistulam Q. Horatii Flacci De arte poetica, Venetiis 1553, lettera dedicatoria). Un altro nome da ricordare tra i maestri del D. è quello di Sperone Speroni, che era professore di logica all'università di Padova: a lui il D. risulta debitore della maggior parte delle riflessioni attorno al problema delle unità dell'opera d'arte teorizzate dalla Poetica di Aristotele. Il D. probabilmente terminò i suoi studi poco prima del '53: in quell'anno era di nuovo a Cipro dove apprese la notizia della morte del Gabriele, al quale si ispira un commento all'Arspoetica di Orazio, prima opera critica del D., maturata negli anni padovani "ex quotidianis Tryphonis Gabrielli sermonibus". Questo libro è dedicato al fratello Calcerando "fratri amantissimo e loco parentis abendo": questa frase può far pensare che il D. avesse, in quella data, già perduto il padre.
Nei successivi diciassette anni non si hanno tracce dell'attività letteraria del D.: nel 1570 Cipro fu invasa dai Turchi guidati da Selim II che pose l'assedio a Nicosia e sterminò, alla caduta della città, più di ventimila ciprioti. Il D., con familiari e tanti altri concittadini, riparò a Venezia, mettendosi sotto la protezione economica, politica e militare della Repubblica. Erano circa cinquemila gli esuli greci a Venezia in quegli anni e ponevano, al governo veneziano, un problema di organizzazione e controllo degli immigrati. L'immissione di un gran numero di essi nelle strutture istituzionali (com'era accaduto per il D.) aveva il duplice scopo di mostrare grande mecenatismo e ospitalità e di controllare l'inserimento di stranieri nella vita veneziana (cfr. G. Fedalto, Stranieri a Venezia, in Storia della cultura veneta, III, 1, Vicenza 1980, p. 499). Il D. ottenne questo inserimento legandosi in rapporti d'amicizia con molte famiglie aristocratiche presso cui svolgeva anche un'attività di precettore.
Fu iscritto all'Accademia Pellegrina, fondata nel 1549 da alcuni patrizi veneziani, a cui aveva aderito la cerchia aretiniana (col Dolce e Sansovino); nel dicembre del 1573 il D. era a Padova, lettore di retorica all'inaugurazione dell'Accademia dei Rinascenti, con uno stipendio annuo di 50 ducati, unico dei lettori a godere di tale trattamento, a riprova della considerazione in cui era tenuto. Nel 1577 scrisse a Sebastiano Venier, l'eroe di Lepanto eletto doge in quell'anno, un'orazione: alla dichiarazione di devozione e riconoscenza per la lotta contro i Turchi si accompagnava la richiesta, per sé e per gli altri esuli, di protezione, aiuto e lavoro. L'appassionata preghiera al nuovo doge ebbe presto due esiti: ai Ciprioti venne riconosciuto il diritto a stabilirsi, con molti privilegi, nella città di Pola e al D. venne offerta la cattedra di filosofia morale all'università di Padova, cattedra che era stata, dieci anni prima, di Robortello, il primo commentatore in volgare di Aristotele. Con questo incarico il D. svolse, fino al '90, un'intensa attività intellettuale, vivacemente militante ma in totale ossequio e subordinazione ai dettami ideologico-religiosi del governo che gli aveva dato lavoro ed ospitalità. Non c'è scritto pubblicato dal D. che non risulti improntato a questa rigida ortodossia, esibita, dichiarata e difesa: la punta culminante di questo intransigente magistero esercitato dalla cattedra padovana fu la polemica che oppose il D. a B. Guarini, a proposito della liceità di un genere letterario come la tragicommedia pastorale, esemplificata nel Pastor fido, che divenne così l'obiettivo principale delle censure del Denores. La polemica, violenta ed essenzialmente ideologica, accompagnò il D. fino alla morte avvenuta nel 1590 a Padova. Il Budd (p. 424) mette in relazione la morte del D. con l'esilio del figlio Pietro che, proprio in quell'anno, era stato condannato per aver ucciso un nobile veneziano in duello; il padre, che sappiamo così attento alla propria immagine civile e politica, non avrebbe resistito alla vergogna della condanna che colpiva la propria famiglia.
Tutte le opere del D. furono pubblicate tra Padova e Venezia e godettero, all'epoca, di buona notorietà: soltanto il commentario oraziano, già citato, giunse in poco tempo ad una seconda edizione in Francia (Venezia 1553, Parigi 1559). I testi del D., al di là del valore specifico delle teorie, rimangono una tipica espressione di una cultura controriformista impegnata ad elaborare un'organizzazione complessiva, organica e definita, della conoscenza e del linguaggio. Pur essendo autore impegnato soprattutto nella riflessione filosofica e teorico letteraria, il D. non esita ad intervenire sui temi più vari - dalla geografia all'astronomia, alla politica - secondo il modello del filosofo classico alla ricerca di una struttura globale omologante ogni forma possibile di sapere. Nel caso del D., la ricerca di questa struttura è funzionale all'integrazione di un canone definito della scienza e dell'arte con l'istituzione politica ottimale, individuata ovviamente, in forma storicamente determinata, nella Repubblica veneziana. Questa tensione ad una gerarchia onnicomprensiva che garantisca l'omogeneità e la stabilità dei singoli saperi, delle tecniche specifiche che ad essa afferiscono, è la venatura platonica di un pensiero di derivazione ed articolazione pedantescamente aristotelica. Se il neoplatonismo preriformista era stato caratterizzato da una "repugnanza invincibile per l'aspetto vario o del molteplice o diverso, dell'esperienza artistica da parte di chi vuol cogliere le cose dell'arte nella universalità loro, ossia unità piùpura ed astratta, sacrificando ogni distinzione" (G. Della Volpe, Poetica del Cinquecento, in Opere, V, Roma 1973, p. 109) e se l'aristotelismo era stato riformulato, in età controriformista, come un insieme di tecniche e di precetti d'ordine estetico e morale, il recupero ideologico della tensione platonica all'unicità del valore artistico ed etico s'infiltra nella teorizzazione, di matrice aristotelica, di una gerarchia mondana tanto fissa quanto ricca di articolazioni. E la rigida tassonomia, come controllo e regola dell'esperienza, - che il, D. costruisce quale rituale e quasi ossessiva scomposizione e ricomposizione, nel catalogo, della conoscenza - acquista un senso e un codice solo alla luce di un superiore principio ordinatore che non è soltanto il centro di una metafisica causalistica e meccanicistica, ma è anche la postulazione di un mondo di valori extra mondani rispetto a cui la gerarchia delle forme e dei valori della vita terrena non è altro che una pallida imitazione.
La prima opera del D. è il commentario oraziano citato, In epistulam Q. Horatii Flacci De arte poetica, a cui fa seguito, nello stesso volume, una scolastica Summa praeceptorum de arte dicendi ex tribus Ciceronis libris de oratore collecta;la stampa è a Venezia, presso Andrea Arrivabene, nel 1553- Secondo la prospettiva indicatagli dagli studi fatti con il Gabriele, il D. rilegge la poetica oraziana alla luce della necessità di identificare il diletto, definito come fine dell'arte, con l'utile, cioè con quanto è organico e funzionale alla morale. In questa ottica si interpreta la precettistica di Orazio come insieme di regole edificanti, tese a sancire valori etici. La precisione dei riferimenti ai passi oraziani - come d'altronde la ricca sintesi dei consigli ciceroniani diretti all'oratore, anch'essi nell'ottica di una identità di retorica e morale per cui il bravo oratore è anche un bravo cittadino e un bravo cristiano - indica l'attenzione pedante che il D. ha per l'interpretazione minuziosa ed organica alle prospettive ideologiche. Il commento è qui soprattutto catalogazione, secondo un'attribuzione di valori funzionali ai singoli problemi; valori da ricomporre poi, come si è detto, in un quadro piùgenerale.
L'opera successiva, per la quale occorre attendere ben diciassette anni, è un trattato di geografia astronomica - e va ricordato come anche il Gabriele fosse studioso di astronomia - Breve trattato del mondo e delle sue parti (Venetia, A. Muschio, 1571), dedicato a Filippo Mocenigo, arcivescovo di Cipro. Muovendo, aristotelicamente, dal minimo rilievo empirico, l'osservazione delle tre dimensioni dei corpi terreni, il D. passa gradualmente ad esaminare gli elementi che li compongono ed a classificarli secondo tale composizione. Via via passa alle organizzazioni più complesse dei corpi celesti, del cielo e dei pianeti, dello zodiaco, della Terra suddivisa in zone orografiche e climatiche. Costantemente il D. ricorda la necessità di pensare un unico principio ordinatore, riconosciuto ovviamente nella Provvidenza regolatrice di Dio.
È del 1573 il Discorso intorno alla rhetorica, pubblicato a Padova e dedicato all'Accademia dei Rinascenti: si propone di descrivere la "distintione, deffinitione et divisione della Retorica", definita come "governatrice delle repubbliche, maestra della vita, lume della verità, madre dell'onestà, conservatrice della giustizia". Essa ha origine dalla dialettica, disciplina che ha per fine il vero, e dalla politica che ha per fine il bene; è destinata secondo i principî aristotelici, a far nascere la fede nei valori che propone. Con la consueta precisione tassonomica il D. distingue le varie parti della retorica. Sottolinea l'importanza dell'elocuzione motivandola ancora una volta con un rilievo morale: poiché la natura degli uomini non è buona, dà maggiore importanza alle parole che agli argomenti e quindi la scelta delle figure retoriche è fondamentale per accreditare la "verità" dei discorso. Quindi è affrontato il tema dell'argomentazione di cui si enumerano i topoi e le "prove" principali; a conclusione di queste descrizioni analitiche, il D. ridistribuisce la materia cosi sezionata in tavole sinottiche che restituiscono insieme la scomposizione orizzontale e la gerarchia verticale. Queste tavole si ritrovano a conclusione di quasi tutte le opere del D. a testimoniare la ricerca costante di un senso generale a cui finalizzare le analisi specifiche.
Nel Breve trattato dell'oratore (Padova, S. Galignani, 1574) si ripropone il valore sociale ed etico delle doti dell'oratore (ancora sulla scorta della prospettiva ciceroniana illustrata nell'opera precedente). Rivolto alla "studiosa e valorosa gioventù de' Nobili della Illustrissima Repubblica Viniziana" I il trattato si presenta come un libro didattico rivolto ai futuri governanti della città per permettere loro di valutare e comprendere meglio i dati dell'esperienza. L'arte del dire (che è dunque anche arte dell'analisi e della comprensione) è, nell'ottica del D., strumento di governo e di potere: il fine è quello di persuadere un pubblico che può essere quello dell'uditorio di un tribunale come quello dei sudditi di un principe. Per catturare l'attenzione di questo pubblico e convincerlo delle tesi sostenute, l'oratore dovrà conoscere la storia, il diritto, l'etica, la politica, la scienza militare. A partire da questa cultura il discorso retorico si sforzerà di suscitare i sentimenti più utili alla situazione contestuale. Ma gli argomenti - e i corrispondenti registri dei discorso - non vanno valutati con criteri estetici o morali astratti, ma in stretta relazione con le necessità politiche dello Stato: la tipologia delle figure e dei meccanismi retorici diviene una tipologia delle forme delle società e dei rispettivi governi e la costruzione retorica si pone come modello generale, ma pur specifico, della costruzione di uno Stato, secondo l'ideologia del "buon governo". Quattro anni dopo, questa interpretazione della retorica, in termini meno didascalici e più analitici, è riproposta nella Introdutione sopra i tre libri della Rhetorica di Aristotele (Venetia, P. Meietti, 1578). Il D. ricorda innanzi tutto come il senso del pensiero retorico aristotelico sia tutto nella costruzione complessiva del sistema delle categorie e come solo a partire da questo sia possibile comprendere la necessità delle singole parti del sistema stesso. Poi procede ad una minuziosa suddivisione per generi della materia con tavole sinottiche e rassegne delle varie parti e figure. Questa breve introduzione alla disciplina, che precede e prepara le più impegnative elaborazioni teoriche degli anni successivi, si situa in una zona che già segna un distacco dalla prima tradizione dei commentari di Aristotele che da F. Robortello (1548) giungeva sino a L. Castelvetro (1570); proponendo una chiave tutta tecnico-formale per la lettura del testo aristotelico, si comincia ad affacciare, oltre al problema della precettistica morale, la tentazionè di leggere la complessità sistematizzante del pensiero aristotelico come tendenza alla reductio ad unum del molteplice.
Sempre nel '78 venne pubblicata, presso Pasquati a Padova, l'Oratione al serenissimo principe di Venezia, di cui si è già detto, dedicata al nuovo doge Sebastiano Venier. Ed ancora nello stesso anno la militanza ideologica del D. tese a porsi in modo sistematico con un trattatello politico: è la Breve institutione de l'ottima republica (Venezia, P. Meietti), "raccolta in gran parte da tutta la philosophia umana di Aristotele". La filosofia, afferma il D., rende perfetti in parte con le virtù morali, in parte con quelle intellettuali: dunque deve essere alleata alla politica per la formazione di buoni cittadini in un buono Stato, perché l'uomo non può trovare perfezione fuori di un'ottima repubblica. E la repubblica può dirsi ottima se tende al sommo bene che si pone così come principio teleologico di ogni azione. La felicità dell'uomo, a cui ogni azione umana naturalmente è protesa e al cui conseguimento anche l'ottima repubblica è finalizzata, nasce dall'insieme dei beni dell'animo e del corpo: i primi ne sono la sostanza, i secondi servono a non creare impedimenti ai primi. All'interno di questo preciso disegno finalistico, l'analisi di particolari problemi istituzionali è l'occasione per una minuta precettistica di moralità quotidiana, dedicata alle forme cellulari dell'istituzione, quali la famiglia, il borgo, il cerchio parentale. Di lì, procedendo per gradi, la descrizione tipologica e la normativa si spostano alle istituzioni statali, con l'illustrazione dei modi per acquistare e conservare il potere. La giustizia, l'amministrazione, l'educazione, ogni attività della repubblica deve essere improntata al decoro, alla moderazione e alla cura dell'organizzazione della mdiversità": tutto deve essere regolato, incanalato ed omologato nel supremo principio dei bene pubblico ed è Venezia ad incarnare l'ideale dell'ottima repubblica, somma di tutte le qualità teorizzate.
Un altro testo didattico venne pubblicato, ancora dal Meietti, a Padova nel 1581, In M. T. Ciceronis universam philosophiam de vita et moribus. P una sintesi dei principali luoghi della filosofia morale di Cicerone, dai temi dell'amicizia e della vecchiaia a quelli del compito del saggio, dei confini del bene e del male, delle leggi, del buon governo; ed ancora una volta, alla base di tutto, è l'affermazione dei valori morali e pedagogici come principali finalità della filosofia ciceroniana.
È dell'84 il ponderoso volume Della rhetorica, in tre libri, pubblicato ancora dal Meietti a Venezia. Già nella dedica a Tommaso Contarini si afferma che la retorica è una disciplina propria delle repubbliche democratiche e che quindi come è stata patrimonio di Roma ed Atene in passato, oggi lo è di Venezia. Procedendo poi ad una suddivisione organica della materia, il D. stabilisce una scala di valori attorno a cui organizzare la costruzione retorica del discorso, valori naturalmente d'ordine etico-sociale che pongono immediatamente la prospettiva ideologica del trattato. Secondo un modello già aristotelico. la società umana è vista organizzata da leggi concernenti prima il piano familiare, poi via via gli altri livelli di comunità, tutte ispirate ad un ideale di felicità che è sempre più perfezionato a mano a mano che si salgono i gradi della gerarchia. E la retorica è progressivamente finalizzata a questi diversi piani della felicità. Nel primo libro si discutono i generi delle orazioni e la tipologia dell'argomentazione; nel secondo le figure della dispositio; nel terzo l'elocutio con esempi tratti dagli autori classici. Anche al termine di questo trattato, la materia analizzata è riassunta nel motivo grafico di una ruota, al cui interno si collocano tutte le categorie precedentemente illustrate.
Nel 1584, presso Meietti a Padova, venne pubblicata una breve sintesi filosofica tratta dal primo libro della Ethica Nicomachea di Aristotele, il De constitutione partium universae humanae et civilis philosophiae. Anche qui tavole sinottiche distinguono varie parti della filosofia morale con particolare rilievo dei temi civili, affermandosi l'importanza di quelle dottrine speculative che intendono esser utili alla conservazione delle repubbliche. Sempre presso lo stesso editore, due anni più tardi, uscì il Discorso intorno a que' principii, cause, et accrescimenti che la comedia, la tragedia et il poema eroico ricevono dalla filosofia morale e civile e da' governatori delle Repubbliche. Iltrattatello ribadisce le finalità politiche dell'arte e l'utilizzazione in questa prospettiva di ogni tecnica artistica. "Il principio dell'utilità sociale o morale della poesia - scrive Weimberg a proposito di quest'opera - prende una forma schiettamente platonica". La poetica, vi si sostiene, fa parte della filosofia morale che deve rispondere ai bisogni dello Stato e migliorare la moralità del cittadino: tesi che, centrale nella Repubblica di Platone, era stata sancita anche da alcuni passi della Poetica aristotelica. Le varie parti dell'opera devono tutte concorrere allo stesso fine: i caratteri saranno esemplari, i discorsi costruiti così da addestrare all'eloquenza; l'uso del meraviglioso, poi, sarà opportuno perché risveglia l'attenzione e permette un apprendimento migliore. Dunque, sono leciti solo i tre generi derivati dalla poetica classica perché pertinenti ai possibili livelli del discorso e della vita sociale: sono da censurare invece il genere tragicomico e la commedia pastorale, il primo "come composizion mostruosa e l'altra come non convenevole, anzi contraria a' principii de' filosofi morali e civili", perché mette in scena caratteri e linguaggi non pertinenti alla condizione sociale dei pastori (p. 42). Se la struttura della tragicommedia si pone come un nuovo istituto di linguaggio pastorale, il Pastor fido del Guarini costituiva l'esempio più clamoroso di un rinnovamento morfologico dei generi, in direzione dei privilegio di un fine edonistico dell'arte. La censura alla pastorale - che ripropone in termini più radicalmente polemici il dibattito sorto, alla metà del secolo, attorno alla Canace dello Speroni - è il rifiuto di un'autonoma finalità dell'opera letteraria, avvertita come una minaccia al complesso edificio dei valori morali.
La polemica che nacque dal Discorso contro la pastorale durò fino al '90, vale a dire alla morte del D., e fu scandita dai pamphlets che questi e il Guarini si scambiarono. Al Discorso rispose il Verrato nel 1588; la replica del D. la si ebbe all'inizio del '90 con l'Apologia contra l'auttor del Verrato a cui Guarini nuovamente rispose con IlVerrato secondo nel 1593 (i due Verrati furono poi ripresi in un Compendio, nel 1599, che riassumeva la posizione guariniana).
Nella Apologia ilD. non si limita a contrastare le affermazioni teoriche del Guarini ma per molte pagine ricorda le personali benemerenze. Il libello si delinea così come una difesa non solo di una concezione estetica ma soprattutto di una auctoritas, cioè di un ruolo intellettuale che acquista forza nella celebrazione del potere da cui è dipendente. Il ricordare la propria amicizia con i Montefeltro, con la granduchessa di Toscana, con il re di Polonia, vuol dire per il D. restaurare un proprio prestigio indiscusso perché organico ad una ideologia del governo e dell'arte come "instrumentum regni". Ed ancora questo meccanismo di autovalorizzazione nella subordinazione il D. lo applica alla auctoritas del testo di Aristotele. La rigida riduzione dei generi alla tipologia desunta dalla Poetica comporta la condanna degli altri generi che non sono immediatamente riconducibili alle categorie canoniche: se, dice il D., l'arte è come la legge e pone ordine nel disordine, tutto quello che non è predicabile dei valori estetici vigenti è condannabile perché non utile (alle leggi, alla società). L'utile è il fine di un'arte che può usare il diletto come mezzo. Ma accanto a questo ed altri rilievi più specifici, un motivo di condanna emerge come fondamentale, indicativo dell'ideologia del D.: la pastorale è un genere che non è mai stato teorizzato da alcuno.
G. Toffanin ha drammatizzato suggestivamente questa contesa (ne La fine dell'Umanesimo): ilD. e il Guarini soffrono entrambi la crisi di una cultura non più capace di controllare ed interpretare la realtà. E se il Guarini pronuncia una decisa rinunzia al mondo per rinchiudere l'arte nella contemplazione di se stessa, il D. restringe il dominio artistico (il mondo, cioè, che può essere compreso ed interpretato dalla letteratura) alla dimensione che gli appare più alta, quella tragica (da cui il comico e l'epico deriverebbero per contiguità). Negli stessi anni di questa querelle il D. continuò la propria riflessione sui temi più generali e, nel 1588 (Padova, Meietti), pubblicò una Poetica ("nella quale per via di definitione et divisione si tratta secondo l'opinion di Aristotele"). Il poeta è superiore al filosofo, afferma il D., perché ha strumenti più efficaci per instillare le virtù negli animi, perseguitare i tiranni, frenare le ambizioni, sollecitare gli animi. L'arte è un habitus della ragione che deve essere trasmesso attraverso precetti di facile acquisizione ed applicazione ed ogni tipo di "ornamento" sarà finalizzato ai compiti didattici. In questa ottica è ripreso e ribadito il tema delle tre unità aristoteliche, ora totalmente lette in chiave di efficacia retorica (la semplicità della fabula permette l'uso del "meraviglioso"). Il valore del fatto artistico si pone del tutto esterno ad esso: questo acquista senso solo se votato a finalità più generali. Come esempio di un intreccio perfettamente esemplare per ognuno dei tre generi codificati - tragedia, epica, commedia - sono proposte e minuziosamente analizzate tre novelle di Boccaccio che appaiono riassumere tutti gli elementi precedentemente teorizzati (rispettivamente la IV, 9; la II, 8 e la V, 5).
La Poetica del D. si situa, come si è detto, nella zona più estrema della storia del pensiero teorico cinquecentesco, quella che vede in atto una radicale rottura di quell'equilibrio tra autonomia ed eteronomia dell'arte che si era mantenuto precario per decenni, attraverso l'alternanza di dominanti neoaristoteliche e neoplatoniche: contro l'edonismo presecentesco, il rigore controriformista si struttura con griglie sempre più rigide e selettive, che aumentano gli elementi discriminanti e tassonomici quanto è maggiore la necessità dei controllo e dell'inquadramento gerarchico. t quella sorta di ossessione della scienza come catalogazione di fenomeni, oggetti, esperienze che è presente nelle Tavole del mondo e della sphera, del 1589 (Padova, Meietti). Vi è descritto un complesso sistema che organizza tutti i tipi di corpi terreni e celesti, illustrandone la disposizione gerarchica e i rapporti tra i vari livelli. La fonte più immediata di una simile opera è dichiarata nel volume stesso che presenta anche una traduzione dal latino, curata dallo stesso D., di un testo di Trifon Gabriele, la Spheretta, anch'esso breve trattatello di geografia astronomica.
Il D. è un autore esemplare della cultura controriformista capace di sopperire alla scarsa originalità del pensiero con una rivendicazione di valore che si fonda sulla sua organicità alla cultura vigente. L'ultima testimonianza di questa devozione totale al mondo veneziano, vissuto come luogo dei valori supremi, il D. la offre nel Panegirico in laude della serenissima Repubblica di Venezia (Padova, Meietti, 1590). Tutte le istituzioni civili e politiche della repubblica sono descritte col registro dell'apologia, quasi disegno di un modello ultimo di organizzazione dell'esistenza. In Venezia c'è "la forma e l'idea della Repubblica" (p. 39). L'estremo testo del D. offre la cifra interpretativa, il codice di lettura di tutti gli altri testi precedentemente scritti: il panegirico è la forma ultima di tutti i discorsi sull'arte e sulla natura, forma che dà loro senso e "verità".
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