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Della Bella, Giano

di Raoul Manselli - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Della Bella, Giano

Raoul Manselli

Figlio di Tebaldo, apparteneva a una delle famiglie più nobili di Firenze, facendo capo al ceppo degli Scolari, di sicura fede guelfa. Figlio di mercante e mercante anch'egli, dimorante nel sesto di Porta San Piero, fu quasi certamente iscritto all'arte di Calimala; si trovava, perciò, all'estero al momento della battaglia di Montaperti - non compare infatti nel cosiddetto Libro di Montaperti, tra coloro che furono tenuti a presentarsi in armi - ed era, comunque, in Borgogna per affari nel 1263 con suo fratello, Comparino, alla testa di un gruppo di finanzieri. Fu certamente fra coloro che appoggiarono e sostennero l'impresa di Carlo d'Angiò, se, tra l'altro, chiese e ottenne, a Lione, l'assoluzione dalla scomunica che aveva colpito i Fiorentini. Successivamente fu uno degli otto soci della banca dei Pazzi, una delle più importanti dell'epoca, e operò attivamente negli affari. Nel 1289 fece parte del collegio dei priori e mostrò già, per la parte popolare, una notevole propensione che venne accentuata e precisata anche da contrasti familiari.

Fu così che G. passò alla fine fra il popolo, dal quale fu accolto con entusiasmo anche perché portò con sé altre grosse personalità del suo ambiente sociale, attirandosi, invece, l'odio implacabile dei ‛ grandi ' che si sentirono traditi.

Nell'urto fra gruppi e famiglie si venne allora affermando la personalità di G., ormai abbastanza avanti negli anni - tra i cinquanta e i sessanta; non possiamo precisare di più -, così che divenne l'esponente del popolo e perciò fu considerato l'autore e il sostenitore di una politica dichiaratamente ostile ai ‛ grandi ', o, come si disse anche, ai magnati, che culminò negli Ordinamenti di Giustizia del 15 gennaio 1293.

Questi Ordinamenti che per molti rispetti si richiamano alle analoghe misure antimagnatizie, ordinate in quegli anni in molte città italiane (per esempio, contemporaneamente, a Bologna), disponevano una nuova organizzazione delle arti, portate al numero di ventuno, pur rimanendo una disparità di poteri fra le maggiori e le minori; queste ultime, infatti, non potevano partecipare all'elezione dei priori e del gonfaloniere di giustizia, anche se i suoi membri erano, tuttavia, eleggibili al priorato. Il gonfaloniere, inoltre, veniva posto a capo di un gruppo di armati, per il sostegno degli Ordinamenti.

Anche più gravi erano le vere e proprie norme antimagnatizie, che creavano una precisa discriminazione fra i magnati, di cui era stato fatto un elenco per famiglie, aggravando soprattutto le norme penali previste, nel caso di violenze contro ‛ popolari ' e affermando il principio della responsabilità collettiva di tutto il gruppo familiare.

Questa legislazione, che G. volle applicare con severa giustizia, provocò gravi risentimenti di cui si fecero esponenti Dino Pecora, fautore di misure addirittura demagogiche, e Corso Donati, esponente dell'odio magnatizio. Si sperò allora in un aiuto del nuovo pontefice, Bonifacio VIII, o si cercò di eliminare con la violenza G.: questi però fu, alla fine, costretto a fuggire per un caso avverso, il ferimento di un popolano da parte di Corso Donati. Gli avversari politici, infatti, fecero credere ai suoi seguaci che il ‛ grande ' avesse potuto godere dell'appoggio del loro capo. Colpito anche dalla scomunica del papa, quale nemico di Parte guelfa, il Della B. avrebbe potuto resistere, ma volle evitare lotte intestine a Firenze, preferendo l'esilio, ove lo raggiunse il 5 marzo 1295 il bando, con il saccheggio della casa e dei beni.

Recatosi in Francia riprese la sua attività di banchiere e di mercante fino alla morte, avvenuta tra gli anni 1311 e 1314.

D. ricorda, perciò, G. come ancora vivente (Pd XVI 127-132) e come legato sempre, malgrado il suo esilio, alla parte popolare: con acume è stato notato che tutto questo fa pensare che il poeta fosse stato al corrente di legami ancora vivi tra il capo esule e i suoi seguaci in Firenze. Quanto al personale atteggiamento e giudizio di D. va sottolineato il modo freddo e distaccato con cui parla di G., l'assenza di ogni ricordo dei suoi Ordinamenti e la dura antitesi di esser stato egli tra coloro che per antica nobiltà potevano fregiarsi della bella insegna... del gran barone Ugo di Brandeburgo e avevano il diritto di ricordarne la memoria il giorno di s. Tommaso apostolo, mentre aveva, invece, preferito ‛ raunarsi col popolo ', passare cioè alla parte popolare. Ci sembra che sia calzante l'osservazione del Sapegno: " Il tono di oggettivo ragguaglio, con cui Dante accenna alla sua attività politica, potrebbe celare un rimprovero,. certo non mostra simpatia ".

Bibl. - Oltre ai commenti al c. XVI del Paradiso e le relative ‛ lecturae ', si veda: G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze 1899 (Torino 19602 senza l'appendice documentaria, tra cui l'edizione degli Ordinamenti di Giustizia), passim (v. indice della seconda ediz.); Davidsohn, Forschungen III 42-43 n. 158 e 160, 54-55 n. 233, 128-131 n. 657; ID., Storia, II II passim (ma specialmente 614 ss.); I. Del Lungo, I Bianchi e i Neri, Milano 1921, 71 ss., 96-97, 106-109; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze s.a. [ma 1926], 268 ss. (che ci sembra esageri quando definisce la presenza politica di G. come " larvata signoria " e " dittatura " [p. 276]).

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