DELLA BELLA, Giano
Figlio di Tedaldo di Accorri, nacque - probabilmente a Firenze - intorno al 1240 da famiglia di antica origine, che secondo una tradizione ormai consolidata nell'età di Dante avrebbe ricevuto dal marchese Ugo di Toscana la dignità cavalleresca e l'insegna "delle sette doghe vermiglie e bianche" (cfr. Paradiso, XVI, vv. 131 s., dove Dante allude a un personaggio che la critica storico-letteraria è concorde nell'identificare nel Della Bella).
A prescindere dal carattere leggendario di tale tradizione e dal fatto che a noi non sono noti documenti relativi a tale casata fin verso la fine del sec. XII, non c'è dubbio che i Della Bella fossero tra le famiglie di rango nella Firenze della prima età comunale. Giovanni Villani li colloca nel gruppo familiare degli Scolari. Un Ranieri di Ugo Della Bella fu console dei mercanti di Calimala nel 1192-93 insieme a un Cavalcanti e un Fifanti; un altro Ranieri Della Bella, ma figlio di un Baldovino, diventò console del Comune nel 1197 e di nuovo nel 1202. Le case dei Della Bella, con la torre detta Boccadiforno, sorgevano nel cuore della Firenze antica, nel popolo di S. Martino del Vescovo, all'ombra della badia e non lontano da quelle degli Alighieri. Alla fine del Duecento il D. risultava proprietario, con altri membri della famiglia, di terre site nella parte occidentale del contado, presso Cerreto Guidi e nel Montalbano, e di un porto fluviale sull'Arno. Certamente i Della Bella avevano costruito le proprie fortune - al pari di tante altre famiglie - con la mercatura e la banca.
Verso la metà del sec. XIII le figure più significative della casata sono i due fratelli: Tedaldo, padre di Giano, di Taldo e di Comparino, e Migliore di Accorri. Quest'ultimo fece parte, nell'ottobre del 1259, dell'ambasceria inviata al papa Alessandro IV per chiedere la revoca dell'interdetto con cui era stata colpita Firenze. La designazione di Migliore, zio del D., accanto a grandi banchieri che intrattenevano stretti rapporti con la Curia romana (Falconieri, Frescobaldi, Spini) testimonia indirettamente un certo peso politico dei Della Bella e un ruolo non secondario da loro svolto nelle attività mercantili-finanziarie. Del resto, pochi anni prima, nel 1255, Cione di Accorri - altro zio del D. - aveva fatto parte dei "Consigli del primo popolo". Dopo Montaperti i Della Bella furono tra i fuorusciti guelfi, anche se i danni ai loro beni provocati dalla parte avversa risultarono così lievi da far ritenere che essi non si fossero esposti troppo nella lotta contro i ghibellini.
Le prime notizie dirette sul D. risalgono al 1263 e fanno riferimento ad attività economiche da lui svolte in Francia. In quell'anno la compagnia dei Della Bella (sono nominati dalla fonte Comparino, Giano e Ugo di Migliore), insieme con altri 146 uomini d'affari fiorentini, giurò fedeltà al papa Urbano IV nell'ambito del progetto papale teso a minare le basi del governo ghibellino di Firenze. È molto probabile, quindi, che i Della Bella abbiano sostenuto, anche finanziariamente, la discesa di Carlo d'Angiò in Italia. Qualche anno dopo, intorno al 1280, il D. divenne uno degli otto soci dell'importante compagnia di Chierico dei Pazzi, della quale probabilmente continuò a far parte per lungo tempo. Per conto di essa ebbe rapporti finanziari con la Sede apostolica: ricevette l'appalto, per la Germania e per qualche anno, della decima a favore della crociata; effettuò operazioni mercantili e finanziarie Oltralpe e, in misura più ridotta, a Firenze. Successivamente lo troviamo impegnato, insieme con i familiari, in operazioni finanziarie e creditizie accanto a importanti mercanti fiorentini (Pulci, Scali, Ardinghelli, ecc.), pisani, lucchesi e genovesi. Sulla base di tali elementi è ragionevole supporre che il D. fosse iscritto all'arte fiorentina di Calimala, la corporazione che raggruppava i grandi mercanti. Il suo definitivo ritorno a Firenze dovette avvenire alla fine del nono decennio del secolo, dal momento che il D. partecipò, combattendo valorosamente insieme al fratello Taldo, alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) e che di lì a pochi mesi fu eletto tra i Priori, la massima carica politica della Firenze del tempo.
Il priorato del bimestre 15 agosto-10 ott. 1289 rappresentò un momento cruciale della carriera politica del D., non tanto perché egli assunse già da allora un ruolo predominante nella vita pubblica fiorentina, quanto perché evidenziò alcuni aspetti dell'atteggiamento e dell'azione politica che si dispiegheranno con ben altra forza negli anni successivi. Quel priorato, infatti, fu dominato dalla figura di Neri Attiglianti, "popolano grasso" sempre in prima linea nella lotta contro i privilegi del clero e delle grandi famiglie feudali, e si caratterizzò per una serie di provvedimenti a favore dei coloni del capitolo della cattedrale e contro la vendita dei fideles. La presenza, certo secondaria ma non trascurabile, del D. fa ritenere che egli - guelfo da sempre - si fosse schierato sempre più decisamente a favore della parte popolare e che si fosse posto in aperto contrasto con il ceto magnatizio.
L'episodio, riportato nella Cronica fiorentina dello Pseudo-Brunetto Latini, dello scontro "fisico" con Berto Frescobaldi, uno dei più potenti e dei più facinorosi tra i "grandi", avvenuto nel 1292 in una seduta del Consiglio nella chiesa di S. Piero Scheraggio, è tutto sommato irrilevante per capire la posizione che il D. andava assumendo; riflette piuttosto certe concezioni del tempo, che erano solite attribuire a contrasti personali divisioni che erano di ben altra natura.
Il D. dominò la scena politica fiorentina dalla fine del 1292 sino al febbraio del 1295, quando fu costretto ad abbandonare la città, per sempre. Tutte le testimonianze concordano nell'attribuirgli un peso determinante nelle vicende di quegli anni, nonostante che egli fosse stato priore solo nel bimestre 15 febbraio-15 apr. 1293. Non sono soltanto cronisti e storici, coevi e non (da Dino Compagni, a Giovanni Villani, allo Stefani, a Leonardo Bruni) a sottolineare il ruolo di protagonista del D.; persino fonti documentarie insospettabili - anche perché redatte in tempi successivi - ne esaltano il peso politico.
Il Compagni, aperto sostenitore del D., lo definisce (I, 11) "grande e potente cittadino", "savio, valente e buono uomo", "capo e guida" dei popolani, e fa pronunciare ai suoi nemici la battuta significativa: "Percosso il pastore, fiano disperse le pecore" (I, 14). Lo Pseudo-Brunetto Latini riassume il suo pensiero con queste parole: "Di questo Giano della Bella si puote con veritade dire ch'elli fosse diritto padre del popolo di Firenze, e llo più leale huomo che giamai fosse a popolo". In due disposizioni testimoniali risalenti al 1318, gli anni 1293-94 vengono definiti come "tempus quo Jannes de la Bella habebatur pro quasi domino civitatis Florentie et de factis communis faciebat communiter quod volebat"; e ancora si afferma che "Gianus de la Bella erat in dominio vel quasi civitatis Florentie cum sequacibus suis". Giovanni Villani, accusando il popolo fiorentino di ingratitudine verso alcuni grandi cittadini del passato, nomina, accanto a Giovanni Soldanieri, a Farinata degli Uberti, a Vieri de' Cerchi e a Dante Alighieri, anche il D. "cominciatore e fattore del secondo e presente popolo" (XII, 44). Per Marchionne di Coppo Stefani (p. 72) il D. era stato "uomo di consiglio e leale al suo Comune e franco ... lo maggiore cittadino di Firenze sì per senno e per virtù". Leonardo Bruni, portato naturalmente ad esaltare le virtù e i meriti individuali, così scrive: "Veduto adunque questa declinazione e disordine della repubblica, uno uomo solo, in quel tempo di grande animo e di grande consiglio, fece impresa di rimediarvi, il quale si chiamava Giano della Bella, disceso di nota e famosa stirpe" (Istoria fiorentina, trad. D. Acciaiuoli, Firenze 1861, p. 170).
Il D. si pose alla testa, o meglio fu l'animatore, di uno schieramento politico formato da varie componenti; di diversa estrazione sociale, i cui obiettivi di fondo non coincidevano in toto, ma che erano unite in questa fase della lotta politica dalla comune ostilità nei confronti del ceto magnatizio.
Se le arti medie e minori e, in posizione subordinata, il popolo minuto, rappresentavano indubbiamente la base larga - ma non sempre affidabile - su cui poggiava il movimento guidato dal D., i sostenitori più fedeli provenivano dalle fila della borghesia (il cosiddetto popolo grasso), da quei "buoni mercatanti e artefici" (G. Villani e Stefani) che rappresentavano l'elemento di maggior dinamismo, economico e sociale, nella Firenze della seconda metà del Duecento. La severa politica antimagnatizia degli anni 1293-95 ebbe come punto di partenza, sicuramente, il crescente risentimento di larghi strati del mondo artigiano e mercantile nei confronti di un governo che, nonostante l'istituzione del priorato delle arti, era rimasto saldamente nelle mani di un gruppo ristretto di grandi famiglie, impegnate soprattutto nella mercatura e nella banca; famiglie che, a prescindere dalle origini, si erano assimilate quasi del tutto all'antica aristocrazia magnatizia. La mancanza di spazi politici, le conseguenze negative delle lunghe e costose guerre contro Pisa ed Arezzo, lo strapotere dei magnati, quasi per nulla limitato dai provvedimenti adottati dopo il 1282, avevano contribuito a far crescere il malcontento popolare e a irrobustire la rivendicazione di un allargamento e di un rinnovamento del ceto dirigente, che proprio negli ultimi anni (dopo il 1290) appariva sempre più espressione di una ristretta oligarchia.
Queste istanze di ricambio politico e di allargamento della base sociale del potere trovarono ascolto e sostenitori in un gruppo non esiguo di esponenti della ricca borghesia mercantile, rimasti fedeli alla loro origine "popolana" e preoccupati più della potenza dei magnati che della crescita politica degli strati medi e inferiori della società cittadina. Tra i maggiori sostenitori del D., almeno all'inizio, troviamo membri di famiglie mercantili quali Altoviti, Becchenugi, Falconieri, Girolami, Giugni, Magalotti, Peruzzi, Ruffoli, ecc. Caruccio del Verre, certo il più energico dei collaboratori del D., definito dal Villani (VIII, 2) "valente e leale popolano d'Oltrarno", era imparentato con le famiglie magnatizie dei Cavalcanti e dei Frescobaldi, per conto dei quali aveva svolto attività mercantili Oltralpe.
L'analisi sociologica della classe dirigente fiorentina del biennio 1293-94 sembra contraddire, almeno in parte, la tesi dell'Ottokar che, in polemica con Salvemini e Davidsohn, ha sostenuto la sostanziale stabilità della "base sociale del potere" nella Firenze di fine Duecento. L'individuazione politico-sociale dei componenti i dodici priorati che gestirono la cosa pubblica nel periodo del dominio di fatto del D. (dal 15 febbr. 1293 al 15 febbr. 1295) rivela un ricambio tutt'altro che trascurabile. Oltre il 40% dei priori è costituito da "gente nuova", ossia da membri di famiglie che mai prima di allora erano state investite di tale carica. E non si tratta sempre di esponenti, più o meno, dello stesso ceto che aveva espresso i precedenti governi: accanto ai grandi mercanti popolani compaiono infatti artigiani, membri delle arti medie e minori, e soprattutto rappresentanti dei ceti medi mercantili. Occorre sottolineare inoltre come il rinnovamento, anche se parziale, avvenne in modo progressivo. Il priorato che dette avvio al biennio riformatore (15 dic. 1292-15 febbr. 1293) e che promulgò gli ordinamenti di giustizia, per quanto formato da esponenti di sei arti diverse, evidenziava apparentemente più la continuità che la rottura con le élites dei precedenti governi. Ma nulla impedisce di credere, concordando col Salvemini, che l'elezione di quegli esponenti fosse avvenuta sulla base di un accordo tra le arti medie e minori e quei gruppi di grandi mercanti popolani che erano più sensibili alle richieste della cittadinanza; mentre appare meno convincente quanto sostiene l'Ottokar, che essi abbiano varato gli ordinamenti di giustizia soltanto sotto la pressione dei tumulti di piazza. La composizione dei priorati successivi mostra segni di crescente rinnovamento: i nomi nuovi risultano essere in maggioranza o addirittura coprire la totalità dei posti, come in quello del 15 ottobre-15 dic. 1293.
Allo stesso modo, interpretare - come fa Ottokar - la storia fiorentina del biennio dominato dalla figura del D. come storia di oligarchie in lotta per il potere, sottoposte in questo particolare frangente alla pressione del popolo minuto, appare quanto mai riduttivo. Il movimento guidato dal D. era sorretto o meglio era espressione di un vasto consenso popolare, portava avanti disegni innovatori, mirava a colpire interessi ben precisi. La reazione dei "grandi" - come appare, tra l'altro, dalle pagine del Compagni - è la risposta di un ceto - tale, forse, non per censo né per componenti della ricchezza, quanto per tradizioni politiche e militari, per stile di vita e atteggiamenti mentali - che vede ora minacciati diritti e privilegi di cui aveva lungamente goduto. Esemplare il discorso con cui Berto Frescobaldi esorta i compagni a liberarsi del D. ricordando "come i cani del popolo aveano tolti loro gli onori e gli uffici; e non osavano entrare in palagio: i loro piati non possono sollecitare: se battiamo uno nostro fante, siamo disfatti" (Compagni, I, 15). Infine, se è vero che il predominio popolare non determinò - ma forse sarebbe meglio dire, non ebbe il tempo di determinare - mutamenti significativi nell'assetto costituzionale, è altrettanto vero che quasi tutta la legislazione del biennio sembra corrispondere agli interessi generali del Comune e più in particolare degli strati più numerosi della cittadinanza.I provvedimenti adottati nel periodo del dominio di fatto del D. riguardarono soprattutto l'inasprimento della legislazione antimagnatizia e poi una serie di problemi interni ed esterni alla città. Il punto di partenza fu rappresentato dalla seduta consiliare del 24 nov. 1292 nella quale - pur respingendosi soluzioni più avanzate - si stabilì per la prima volta che nessuna arte potesse avere in uno stesso priorato più di un rappresentante, aprendo così la strada a un allargamento del maggior organo della Repubblica a quelle arti medie e minori che proprio negli anni e nei mesi precedenti erano riuscite a darsi un'organizzazione politica e militare. Toccò ai priori entrati in carica il 15 dic. 1292 varare, alla metà di gennaio, gli ordinamenti di giustizia, su cui poi si tornò a legiferare, in senso ancor più restrittivo, nell'aprile dello stesso anno durante il priorato di cui anche il D. fece parte. Si trattò di una serie di provvedimenti che sottoponevano i magnati a particolari limitazioni sia in materia di diritto penale e civile, sia nel campo dei diritti politici, tanto da configurare una condizione di forte minorità a livello pubblico per individui e famiglie indicati come tali.
Una delle maggiori novità consistette nell'allargamento del numero dei magnati. Si decise allora innanzitutto di considerare "grandi" effettivamente tutti i membri delle famiglie già incluse nella precedente lista del 1286: infatti, fino a quel momento molti, pur facendo parte delle famiglie comprese in quella lista, si erano sottratti all'obbligo del "sodamento" e, iscrivendosi a una delle arti maggiori, avevano potuto svolgere attività politica. In secondo luogo, è anche probabile che si verificasse allora un allargamento del numero delle famiglie incluse nelle liste. L'elenco delle settantadue casate, redatto durante il priorato del D., comprende, accanto alle antiche e tradizionali schiatte aristocratiche, anche un gruppo di famiglie d'indubbia matrice popolana (Frescobaldi, Bardi, Mozzi, Pulci, Franzesi, Scali, Spini, ecc.) che nel corso di una o due generazioni erano riuscite "ad acquistare tanta dovizia di mezzi e, di conseguenza, tanta influenza pubblica da identificarsi o da sovrapporsi all'antica classe aristocratica, anzi, da apparire politicamente più pericolose per i governi popolari di qualche antica schiatta ormai decaduta" (Parenti, p. 265).
Gli altri provvedimenti, che qualificarono il periodo popolare, furono rivolti a recuperare i diritti del Comune, che erano stati lesi da usurpazioni e da abusi tollerati o favoriti dai precedenti governi. Fu soprattutto durante i priorati dell'ultimo bimestre del 1293 e gli ultimi due prima della caduta del D. (ottobre-dicembre 1294 e dicembre 1294-febbraio 1295), formati quasi del tutto da uomini nuovi, che si legiferò con estrema decisione. Si rimise ordine nell'esazione fiscale tanto in città che nel contado, colpendo chi negli ultimi tempi era riuscito a sottrarsi all'alliramento e alla relativa tassazione. Si allargò la giurisdizione del Comune sulle Comunità e sulle famiglie aristocratiche insediate alla periferia dello Stato. All'interno della città si rivendicarono i diritti pubblici su terreni, piazze, edifici usurpati da privati cittadini. Importante fu anche la conclusione dell'impopolare guerra con Pisa, ratificata nel luglio del 1293 al termine di trattative di pace iniziate quando il D. era priore.
La situazione interna a Firenze dovette apparire abbastanza tranquilla, e saldo il suo potere, se alla fine del 1293 il D. ottenne dal Comune di Firenze, a cui era stato riservato il diritto di nomina, la designazione a podestà di Pistoia per il primo semestre del 1294. L'esperienza pistoiese deve aver ricalcato in una certa misura le vicende fiorentine di quegli anni. In una situazione confusa, caratterizzata dalla lotta tra bianchi e neri, che apriva buone prospettive a un definitivo assoggettamento di quella città a Firenze, il D. si mosse con estrema decisione e talvolta con durezza, condannando all'esilio i capi delle fazioni e perseguitando chi cercava di proteggerli, e - su un piano più generale - appoggiando la parte popolare e allargando la partecipazione alle cariche pubbliche. In particolare non esitò a colpire quegli esponenti del clero che si erano compromessi nelle agitazioni politiche di parte, attirandosi in tale modo la scomunica del vescovo: reazione del resto prevista, se è vero che prima di assumere la carica di podestà egli aveva chiesto e ottenuto dal Consiglio di Pistoia l'impegno che il Comune lo avrebbe indennizzato per i danni subiti in seguito ad un'eventuale scomunica. Comunque, al termine del mandato, i risultati non furono confortanti. Se la città era stata momentaneamente pacificata, la corrente antifiorentina restava ancora molto forte. Inoltre il Consiglio si rifiutò di riconoscergli un qualsiasi indennizzo materiale per la scomunica, costringendo il D. a chiedere e a ottenere dal governo fiorentino il diritto di rappresaglia sui Pistoiesi e sulle loro merci.
L'esito, tutto sommato negativo, del podestariato pistoiese non dovette giovare all'immagine e al prestigio del maggior cittadino di Firenze. I suoi nemici, qualche mese dopo, gli rinfacciarono di aver "messo scandalo in Pistoia, e arse ville e condannati molti" (Compagni, I, 18). Inoltre i sei mesi di assenza da Firenze avevano contribuito di certo a rafforzare le resistenze al nuovo corso politico. Non è un caso, forse, che gli ultimi mesi del 1294 avessero visto una forte ripresa dell'attività riformatrice, indirizzata ora anche verso profondi mutamenti istituzionali. Con una provvisione del 9 dicembre i Priori stabilirono una riforma generale di tutta la legislazione esistente, affidandone l'incarico a una commissione di quattordici "arbitri", di cui il D. fece parte.
La commissione, provvista di pieni poteri, doveva riunire in un unico testo, a carattere sistematico, tutti gli statuti e gli ordinamenti esistenti. operando tagli e integrazioni: i risultati sarebbero stati ratificati saltando l'approvazione dei Consigli. Era un progetto ambizioso, tale da suscitare inquietudini e timori tra chi si sentiva direttamente minacciato da una simile riforma e da chi, più semplicemente, era timoroso della novità.
Negli stessi mesi, accanto all'emanazione - sotto la pressione del popolo minuto - di provvedimenti sempre più duri nei confronti dei "grandi", il D. cercò pure di colpire quella che era la tradizionale roccaforte dell'aristocrazia, la parte guelfa, minacciando di togliere ad essa la personalità giuridica e di requisirne, a vantaggio delle casse pubbliche, gli immensi capitali accumulati con la confisca dei beni dei ghibellini sconfitti e con una serie di riuscite operazioni finanziarie.
L'audacia di queste iniziative - ma anche un certo malessere provocato dai precedenti interventi in materia fiscale e dall'eccessivo zelo degli ufficiali incaricati di rivendicare i diritti e i beni del Comune - segnò l'inizio della fine del governo del D., troppo "acceso alla giustizia", per dirla con il Compagni, e poco consapevole dei rischi a cui andava incontro. Del resto la prudenza non pare sia stata una delle virtù di quest'uomo "tanto ardito che lui difendea quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altrui tacea" (Compagni, I, 22). All'opposizione dei "grandi" si unì quella di influenti popolani, che non condividevano le ultime iniziative promosse dal D., e di gruppi professionali e di mestiere - i giudici, i beccai - sobillati ad arte contro il suo governo. Per screditarlo si ricorse alla calunnia, diffondendo la voce di un prossimo ritorno dei ghibellini in città.
L'episodio che provocò la caduta del D., è significativo del clima di sospetto e di diffidenza che andava prevalendo. Il 23 genn. 1294 il processo intentato contro Corso Donati per due fatti di sangue avvenuti nelle settimane precedenti, si concluse, grazie ad un giudice corrotto, con una condanna semplicemente pecuniaria. Il popolo minuto, che si aspettava la pena capitale, incitato soprattutto da Taldo Della Bella, insorse contro il podestà accusandolo a torto di corruzione, e ne saccheggiò il palazzo. Il D. generosamente ne prese le difese, attirandosi così l'ira della folla. Da parte loro i "grandi" e i loro alleati lo accusarono di essere il responsabile del tumulto. L'elezione dei nuovi priori vide prevalere alcuni dei suoi più fieri nemici, Lippo Velluti in primo luogo. Entrati in carica il 15 febbraio, costoro immediatamente citarono il D. in tribunale con l'accusa di aver provocato la sommossa del 23 gennaio. La situazione precipitò. Il D. non se la sentì di accettare la sfida e di mettersi alla testa del popolo minuto in armi. Dietro consiglio dei Magalotti, che forse miravano anche loro a liberarsi dello scomodo tribuno, decise di abbandonare Firenze (18 febbr. 1295) con la speranza di farvi al più presto ritorno. Lo seguirono nell'esilio il figlio Cione e i fratelli Taldo e Comparino, tutti coinvolti nell'accusa e nella condanna, sebbene il solo Taldo avesse avuto un ruolo di rilievo negli avvenimenti.
Con la caduta del D. ebbe termine il periodo del governo popolare e del predominio di fatto del popolo minuto; il potere si consolidò nelle mani "de' popolani grassi e possenti" (G. Villani, VIII, 8), anche se molti dei provvedimenti precedentemente adottati restarono in vigore, seppure attenuati in alcuni punti; la parte guelfa ridiventò il perno della vita politica fiorentina.
La speranza di poter rientrare presto in Firenze dovette avere breve durata. I nemici del D. riuscirono a isolarlo del tutto, facendo seguire alla condanna a morte la scomunica (27 ott. 1295), e ottenendo - grazie alla mediazione di alcune potenti compagnie bancarie fiorentine - l'intervento di Bonifacio VIII che in una bolla solenne del 23 genn. 1296 minacciò di interdetto Firenze qualora avesse accolto entro le mura Giano, Taldo o il loro nipote Ranieri di Comparino. Al D. non restò altro che prendere la via della Francia, là dove era vissuto in gioventù e dove fu accolto con rispetto e con stima. Le sue tracce si perdono rapidamente. Sappiamo che consumò a Parigi una piccola vendetta nei confronti degli odiati Velluti, contribuendo alla severa punizione di Donato, reo di aver ucciso uno stalliere dei Franzesi. Lo ritroviamo con il nome di Jehan de Florence tra i "lombardi" allirati negli anni 1298-1300 a Parigi, nella parrocchia di St.-Germain l'Auxerrois. Poi nient'altro. È probabile che la morte lo abbia colto, ultrasessantenne, nei primissimi anni del nuovo secolo.
La collocazione della morte del D. dopo il 1311 (Davidsohn, Manselli ed altri), che si basa sulla sentenza fiorentina del 2 sett. 1311 che escludeva i Della Bella dall'amnistia concessa ai fuorusciti, non è più sostenibile dopo la scoperta da parte di E. Cristiani di un documento pisano del 19 apr. 1306, in cui Taldo Della Bella costituisce come proprio procuratore il nipote Cione del fu Giano. E la presenza di Cione alla redazione dell'atto esclude un possibile errore del notaio. Del resto, l'assenza di notizie sul D. dopo il 1300 aveva fatto dubitare che la sua morte potesse essere avvenuta così tardi.Mentre il figlio Cione lo seguì nell'esilio, gli altri membri della famiglia, la moglie del D., Saracina, e la figlia Caterina poterono restare a Firenze, in una parte della torre di famiglia salvatasi dalla distruzione. A Caterina - andata poi sposa a Guido di Baldo Castellani, podestà di Pisa - furono restituiti, nel settembre 1317, i beni confiscati al padre più di vent'anni prima.
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