DORIA, Giannettino
Nacque a Genova nel 1573 da Giovanni Andrea, principe di Melfi, e Zenobia Del Carretto. Giovanissimo, fu inviato a studiare in Spagna, dove avrebbe compiuto anche gli studi universitari di filosofia e teologia. Nel 1597 si trovava ancora nella penisola iberica, come attesta una lettera del cardinale d'Avila al principe Doria (Archivio Doria Pamphili, 93-39.9). Ben sostenuto dagli amici del padre riuscì a entrare nelle grazie di Filippo III, re di Spagna, che richiese per lui la berretta cardinalizia: nel 1604 fu così creato da Clemente VIII cardinale diacono di S. Adriano.
Nel 1605 era a Roma per il conclave di Paolo V, dove si distinse nel partito spagnolo, come ricorda una lettera a Enrico IV del cardinale J. Davy Du Perron (Les ambassades et négotiations..., p. 303). Tuttavia la sua posizione fra i cardinali non era così salda come si potrebbe credere: non godeva della fiducia assoluta del cardinale d'Avila ed uno dei suoi conclavisti, il perugino Orazio Mancini (l'altro era il genovese Giovan Battista Spinola), aveva il compito di controllarlo.
In ogni caso Paolo V, una volta papa, gli fu favorevole e i rapporti con la Spagna rimasero stretti (vedi le sue lettere al cardinale Ludovico de Torres negli anni 1605-1606, in Dragonetti, pp. 70 s.). Nell'autunno del 1607 Giovanni Canobio scriveva al cardinal Farnese della possibilità che Paolo V, con l'assenso spagnolo, concedesse al D. la coadiutoria con futura successione dell'arcidiocesi palermitana (Olarra Garmendia-Larramendi, III, p. 142), come difatti avvenne all'inizio dell'anno successivo, quando il D. fu fatto arcivescovo di Tessalonica. Nel luglio del 1608 divenne infine arcivescovo di Palermo per la morte del suo predecessore: il 7 maggio 1609 entrava in città con grandissimo sfarzo.
In Sicilia il D. non incontrò simpatie, specie da parte della vecchia nobiltà locale. Era forestiero, era troppo legato alla corte di Spagna, e infine troppo poco incline ad accettare rivendicazioni di autonomia siciliana. Si legò ben presto al blocco di potere palermitano composto dalla nuova nobiltà filospagnola e dai mercanti appaltatori di imposte: blocco ben consono agli interessi commerciali di casa Doria e della colonia genovese a Palermo.
Sin dall'inizio il D. volle affermare la sua preminenza fra i vescovi siciliani e anche fra i funzionari spagnoli. Lo scontro con gli altri vescovi iniziò già nel giugno del 1609, quando chiese la revoca della moratoria per gli abusi commessi, concessa dal tribunale del Viceregno al vescovo di Lipari e ai suoi familiari (Olarra Garmendia-Larramendi, IV, p. 189). Nel frattempo entrava in conflitto anche con il viceré, il marchese di Villena, "en materia de cortesias": la disputa si protrasse dal maggio al novembre del 1609 (Archivo general de Simancas, Papeles de Estado - Sicilia, leg. 1163, nn. 222-223, e leg. 1168, nn. 276-277). Ciò nonostante il D. non mancò di aiutare il Villena in occasione della rimonetazione, resasi necessaria per la mancanza di numerario. Il D. ordinò che tutti, nella sua diocesi, consegnassero l'argento posseduto e proibì alle monache, sotto pena di scomunica, di nascondere l'argento proprio o altrui nei loro chiostri. Questa proibizione si proponeva anche come un tentativo di riforma dei monasteri femminili, ribadito da un editto contro gli abusi che vi avevano luogo.
L'8 febbr. 1610 il D. fu nominato da Filippo III presidente del Viceregno in assenza dei duca di Ossuna Pedro Girón, successore del marchese di Villena. Dopo un fitta corrispondenza con il marchese e con il duca (Ibid., leg. 1164, nn. 19, 32, 72, 116) il D. iniziò effettivamente la sua luogotenenza il 13 settembre.
Poco tempo dopo giungeva un dispaccio del re che proibiva l'acquisto, la vendita e la detenzione del tomo XI degli Annali di C. Baronio. In esso infatti si rivendicava l'indipendenza della Chiesa in Sicilia, dimostrando l'inconsistenza storica e giuridica delle pretese spagnole di poter intervenire anche nella giurisdizione ecclesiastica in base a una bolla di Urbano II del 1098. Contro il parere di Roma il 17dic. 1610 il D. emanò un editto che palesava il divieto regio.
Nel 1611 il D. resse il Viceregno ancora per tre mesi, durante i quali promulgò alcuni bandi sull'ordine pubblico ed ebbe un violento conflitto con le magistrature messinesi. In quegli anni Messina cercava di contrastare la preponderanza insulare lentamente acquistata da Palermo e tentava di porsi quasi come viceregno separato retto dallo strategoto, capitano d'armi e amministratore della città di diretta nomina regia. In seguito alla morte del marchese di Montemayor, che grazie alla sua carica di strategoto aveva attivamente difeso i privilegi di Messina, il D. aveva nominato nel 1610 strategoto adinterim il marchese di Sortino, Cesare Gaetani. Il Senato messinese si oppose fermamente a questa usurpazione del diritto di nomina regio e incorse nelle ire del D., che fece arrestare tre dei suoi più acerrimi oppositori. Questo provvedimento fu dichiarato illegale dal giudice straticoziale di Messina, che fu a sua volta fatto arrestare.
Lo scontro ebbe una risonanza enorme e le proteste messinesi furono portate davanti al re, che riaffermò il principio della nomina regia dello strategoto e sconfessò l'operato dei Doria. Il duca di Ossuna, appena giunto in Sicilia, concesse la libertà a tutti i prigionieri, ma vi furono ancora degli strascichi, complicati da una certa rivalità fra il nuovo viceré e il D. (ibid., leg. 1165, n. 31). Nel frattempo il D. era anche investito dalle proteste di Roma per l'editto contro lo scritto del Baronio (ibid., leg. 1164, n. 125). Nel giugno del 1611 il D. decise di conseguenza di allontanarsi dall'isola per alcuni mesi e si recò prima a Genova e poi a Roma. A Genova si incontrò con il fratello Andrea [II], principe di Melfi, con il quale aveva mantenuto una regolare corrispondenza negli anni precedenti (Archivio Doria Pamphili, 79.55.7b).
Al suo ritorno a Palermo le polemiche erano ormai sopite, eccezion fatta per una ripresa della contesa "en materia de cortesia" con il viceré (Archivo general de Simancas, Papeles de Estado - Sicilia, leg. 1165, n-31) e per un riaccendersi della vicenda che lo aveva visto opposto al vescovo di Lipari (Olarra Garmendia-Larramendi, IV, p. 230). Al centro dell'attenzione era ora la guerra contro i pirati provenienti dalla costa africana. Nel 1613 una vittoria di Ottavio d'Aragona Tagliavia fu celebrata da questo con l'entrata trionfale a Palermo insieme al D. e al duca di Ossuna. L'anno successivo il D. fece proporre al re, tramite costui, di armare tutti i preti della diocesi palermitana (Archivo general de Simancas, Papeles de Estado - Sicilia, leg. 1167, nn. 41 s.). Nel frattempo riprendevano i conflitti con esponenti della vecchia nobiltà: un esposto della baronessa di Partanna lamenta l'arresto del marito per volontà del D. (ibid., leg. 1167, n. 164). Il caso ebbe un certo scalpore: fu portato davanti al Consiglio di Stato (ibid., leg. 1169, nn. 163 s.) e si trascinò per tutto il 1615 (ibid., leg. 1169, nn. 105-108).
Nel 1615 il D. celebrò il primo sinodo della Chiesa palermitana. Nel 1616 fu di nuovo presidente del Viceregno nei mesi di luglio ed agosto per la partenza dei duca di Ossuna. Seguirono alcuni anni particolarmente tranquilli, durante i quali fu spesso a Genova e a Roma. Nel 1620 fu invitato a recarsi urgentemente a Roma "por la falta de cardenales españoles que agora ay en aquella corte" (ibid., leg. 3478, n. 9): si trovò così sul posto per l'elezione di Gregorio XV. Nel 1622 era di nuovo a Palermo, dove celebrò il secondo sinodo della sua diocesi, ma l'anno successivo dovette ritornare a Roma per la morte del papa. Sbarcato a Ostia da una nave militare spagnola, fu uno dei grandi elettori di Urbano VIII, dal quale fu in seguito elevato al titolo di S. Pietro in Montorio.
Rientrato a Palermo, dovette affrontare circostanze particolarmente difficili. Il 3 ag. 1624 moriva di peste il viceré Emanuele Filiberto di Savoia. Venne chiesto al D. di assumere la presidenza del Viceregno in virtù di un dispaccio di Filippo III del 3 giugno 1613, che lo indicava quale naturale supplente in caso di necessità (ibid., leg. 1893, n. 218). In un primo tempo il D. rifiutò, ma dovette ben presto accettare per il peggioramento della situazione, che richiedeva ormai un ferreo controllo centrale per porre freno ai disordini provocati dal timore del morbo incalzante. Per circa un anno il D. cercò con ogni mezzo di circoscrivere l'epidemia e contemporaneamente dovette preoccuparsi di rifornire la Curia romana di partite di grano per prevenire la carestia, come richiestogli da un breve di Urbano VIII del 9 nov. 1624.
Quando infine l'epidemia scemò per poi scomparire, il D. chiese ed ottenne che il re di Spagna nominasse un viceré, sollevandolo dagli obblighi della presidenza del Viceregno. Fu così designato Antonio Pimentel, marchese di Tavora, che però morì ben presto e fu sostituito dal figlio primogenito Enrico. È interessante notare come in questa occasione fosse stata richiesta dai Siciliani una nuova presidenza del D., ormai ben accetto, specie per il suo comportamento durante l'epidemia. Enrico Pimentel non seppe o non volle rendersi amico il D. e non gli furono quindi aperte le porte del duomo per prestare giuramento. Nel 1627 fu infine nominato viceré Francisco Fernández de la Cueva, duca di Albuquerque, ambasciatore di Spagna presso Urbano VIII e in buoni rapporti con il D., che lo ospitò nei primi tempi della sua permanenza a Palermo.
Gli ultimi quindici anni di vita del D. sarebbero trascorsi tranquillamente, se non vi fosse stata un'improvvisa ripresa della questione della Monarchia sicula, ossia di quei privilegi ecclesiastici, rivendicati in Sicilia dalla Corona spagnola, che erano stati oggetto della critica del Baronio nel tomo XI degli Annali.
A partire dal 1629 vari prelati siciliani rimostrarono contro le ingerenze del tribunale del Viceregno e chiesero l'osservanza dei decreti tridentini sulla giurisdizione ecclesiastica. Per limitare l'autorità vescovile furono create da parte spagnola le cosiddette lettere di salvaguardia, rilasciate a coloro che accusavano il proprio vescovo di essere loro acerrimo nemico: il possessore di una di queste lettere non poteva essere sottoposto alla giurisdizione del suo ordinario. Urbano VIII istituì una congregazione apposita per vagliare questo artificio, ma i lavori furono rallentati dall'intervento dell'ambasciatore di Spagna, il conte di Monterey, e dei cardinali del partito spagnolo.
Tra questi non prese posizione il D., che anzi, quando nel 1639 divenne presidente del Viceregno per la quarta volta, tentò di contrastare l'estensione delle competenze del tribunale del Viceregno. Il 12 luglio 1639 il D. chiese che non fossero ammessi dal tribunale casi contrastanti le norme tridentine. I giudici protestarono violentemente ed intervenne lo stesso Filippo IV con una lettera personale al D., nella quale gli ordinava di revocare le sue richieste (Caruso, Discorso istorico-apologetico..., pp. 125 s.).
Il D. proseguì la sua presidenza sino al giugno 1641, ma ormai senza autorità effettiva. Si preoccupò, di concerto con il conte di Tursi, della penetrazione francese nel Tirreno. Aiutò e consigliò il nipote Giovanni Andrea, principe di Melfi e viceré di Sardegna dal 1638 al 1640.
Morì a Palermo il 18 nov. 1642.
La sua memoria restò legata soprattutto alla lotta contro la peste nel biennio 1624-1625 ed in particolare al ritrovamento delle reliquie di S. Rosalia. La tradizione storiografica imperniata su quella vicenda e basata sull'elogio del cardinale scritto dal Chacón è particolarmente imprecisa nei dettagli biografici precedenti e successivi la pestilenza e ha fatto a lungo schermo a ogni possibile studio non apologetico del D. e della sua opera.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio Doria Pamphili, 93.89-5: Lettere del cardinale Doria arcivescovo di Palermo al fratello principe Andrea II con minute di risposta; Ibid., 93.40-10: Principe Giovanni Andrea I Doria. Lettera al medesimo da Genova del figliolo Giannettino; Ibid., 93.39.9: Principe Giovanni Andrea I Doria. Lettere in lingua spagnola a lui dirette dal card. d'Avila; Ibid., 79-55-76: Cardinale G. Doria. Lettere al fratello Andrea I principe di Meffi (1606-1611); Ibid., 79.79.6: Cardinale G. Doria. Lettere al St. Principe (1623-1629) e Lettere al nipote Giovanni Andrea II; Arch. segr. Vaticano, Lettere di cardinali, 5, ff. 52, 171; 8, ff.202, 345 s.; 119, f-115; Archivio di Stato di Genova, Lettere di cardinali, Arch. Segr. 7-2805, Lettere del card. Doria alla Ser.ma Repubblica di Genova (1622-1628); Ibid., Litterarum, reg. 101-1877, pp. 21-32; reg. 102-1878, p. 29; Archivo general de Simancas, Papeles de Estado - Sicilia, legg. 746 s., 1163-1171, 1300, 1302, 1611, 1886 s.; Synodus diocesana celebrata ab ill.mo et rev.mo Domino D. Joannettino D.... anno Domini MDCXV, Panormi 1615; Appendyx ad precedentem synodum diocesanam constitutionum editarum in secunda synodo celebrata Panormi ab ill.mo et rev. D. Joannettino D., Panormi 1622; Synodus diocesana tertia celebrata ab em.mo et rev.mo D. Joannettino D. ... anno Domini M.DC.XXXIII, Panormi 1634; Les ambassades et négotiations de l'ill.me... cardinal Du Perron, Paris 1623, p. 303; A. Dragonetti de Torres, Lettere inedite dei cardinali de Richelieu, de Joyeuse, Bentivoglio, Baronio, Bellarmino, Maurizio di Savoia ed altri, L'Aquila 1929, pp. 70 s.; Istruz. e relaz. degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, II, Spagna (1619-1635), Roma 1955, p. 7; J. de Olarra Garmendia-M. L. de Larramendi, Correspondencia entre la nunciatura en España y la Santa Sede. Reinado de Felipe III (1598-1621), III, Roma 1963, p. 142; IV, ibid. 1964, ad Indicem; A. Chacón, Vitae et res gestae pontificum Romanorum et SRE cardinalium, IV, Romae 1672, pp. 363 s.; G. Palazzi, Fasti cardinalium, III, Venetiis 1703, pp. 829 s.; G. Eggs, Supplementum novum Purpurae Doctae, Augustae Vindelicorum 1729, pp. 487 ss.; P. Caraffa, La chiave dell'Italia. Compendio stor. della nobile ed esemplare città di Messina, Messina 1738, pp. 238 s., 241 ss.; G. B. Caruso, Mem. stor. di quanto è accaduto in Sicilia, III, 2, Palermo 1745, ad Indicem.; G. E. De Blasi, Storia cronologica de' viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia, II, 2, Palermo 1791, pp. 35, 43-48, 75 s., 107-15, 120-23, 167-80; L. Cardella, Mem. stor. dei cardinali di SRE, VI, Roma 1793, pp. 113 ss.; G. Semeria, Secoli cristiani della Liguria, I, Torino 1843, pp. 301 s.; G. B. Caruso, Discorso istorico-apologetico della Monarchia di Sicilia, a cura di G. Mira, Palermo 1863, pp. 123.26; L. Boglino, La Sicilia e i suoi cardinali, Palermo 1884, pp. 53 ss.; A. Amore, Emanuele Filiberto di Savoia viceré di Sicilia, Catania 1886, pp. 18, 52 s., 58 ss.; F. Ruffini, Perché Cesare Baronio non fupapa. Contributo alla storia della Monarchia Sicula e dello ius esclusivae, Perugia 1910; L. von Pastor, Storia dei papi, XII, Roma 1930, ad Indicem; XIII, ibid. 1931, ad Indicem; C. Giardina, L'istituto del viceré di Sicilia (1415-1798), in Arch. stor. sicil., n. s., LI (1931), p. 248; G. Bellofiore, La cattedrale di Palermo, Palermo 1970, ad Indicem; G. Giarrizzo, La Siciliadal Viceregno al Regno, in Storia della Sicilia, VI, Napoli 1978, pp. 88 s., 111; G. Moroni, Diz. di erud. storico-ecclesiastica, XX, pp. 217 s.; P. Gauchat, Hierarchia catholica, IV, Monasterii 1935, pp. 272, 395.