MIGLIO, Gianfranco.
– Nacque a Como l’11 genn. 1918, terzo di quattro figli, da Leonida, di professione pediatra, e da Maria Rosa Pagani.
In famiglia – di nobili origini per la parte paterna e da secoli insediata nell’Alto Lario – il M. respirò un clima intriso di positivismo e di passione per la scienza, che ne condizionò la formazione ideale e gli interessi culturali; per tutta la vita, accanto agli studi politici, egli avrebbe coltivato un forte interesse per le discipline naturalistiche (botanica, zoologia), per la geografia e, in particolare, per l’architettura.
Dopo gli studi liceali, nel 1936 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università cattolica di Milano, dove ebbe come maestri il giurista G. Balladore Pallieri (con il quale si laureò nel 1940 con un lavoro avente come tema «Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internaziona;li pubbliche nell’Età moderna») e il filosofo della politica A. Passerin d’Entrèves (che lo avviò allo studio di Th. Hobbes e gli fece conoscere l’opera di C. Schmitt). Nel periodo tra la fine del regime mussoliniano e la nascita della Repubblica frequentò gli ambienti dell’antifascismo cattolico lombardo e aderì al gruppo di federalisti che si raccoglieva intorno al periodico Il Cisalpino diretto da T. Zerbi. Nel 1943 si iscrisse alla Democrazia cristiana (DC), nelle cui file militò sino al 1959, quando se ne distaccò polemicamente non condividendone quella che giudicava una deriva clientelare e affaristica. Nel frattempo aveva iniziato una brillante carriera accademica all’interno dell’Università cattolica.
Libero docente di storia delle dottrine politiche nel 1948, divenne straordinario della stessa disciplina nel 1956, per poi assumere, a partire dal 1959, l’incarico di preside della facoltà di scienze politiche, che mantenne ininterrottamente sino al 1989.
I suoi primi lavori a stampa – il volume del 1942 dedicato a La controversia sui limiti del commercio neutrale fra G.M. Lampredi e F. Galiani (Milano), il saggio dello stesso anno su Marsilio da Padova (La crisi dell’universalismo politico medioevale e la formazione ideologica del particolarismo statuale moderno, Padova), lo scritto del 1955 su La struttura ideologica della monarchia greca arcaica ed il concetto «patrimoniale» dello Stato nell’Età antica (estratto da Ius, V [1954], 4, pp. 1-64), la prolusione del 1957 sui caratteri che rendono unitaria e peculiare la tradizione politica occidentale (L’unità fondamentale di svolgimento dell’esperienza politica occidentale, estratto da Rivista internaz. di scienze sociali, LXV [1957], 5) – già denotavano alcuni dei temi che sarebbero stati al centro delle sue successive ricerche: la relazione tra la politica e il diritto, entrambi caratterizzati da una reciproca autonomia, basati l’una sul rapporto di obbligazione e l’altro su una logica contrattuale; la dialettica tra l’ordine politico «interno» (fondato sulla concordia civile, sul principio di «esclusione» e sulla distinzione tra governanti e governati, tra comando e obbedienza) e la sfera dei rapporti «esterni» o internazionali (che restano il regno della forza, e dunque della guerra, a dispetto dei tentativi fatti per sottoporre i rapporti tra unità politiche sovrane a forme di regolamentazione giuridica); la tendenza, tipica degli ordinamenti politici, a concentrare il potere e l’autorità nelle mani di gruppi ristretti (l’oligarchia) o di un sovrano (la monocrazia). Ma mostravano al tempo stesso un approccio allo studio dei fenomeni politici che sarebbe anch’esso rimasto costante nei successivi decenni, caratterizzato – oltre che da un esplicito riduzionismo metodologico, da una visione razionale della storia e da un realismo non privo di agnosticismo – dall’attenzione per i «tempi lunghi» della storia, per le «regolarità» empiriche che scandiscono, al di là delle contingenze spazio-temporali, la vita di ogni comunità politica organizzata e più in generale i comportamenti politici, per l’intreccio tra dottrine e istituzioni politiche, per i caratteri (essenzialmente antropologici e naturalistici) che fondano il «politico» inteso come sfera autonoma e originaria dell’azione sociale.
A partire da questi assunti teorici si comprende meglio il passaggio del M., negli anni Sessanta, dagli studi in chiave storica (ancora fortemente intrisi, a suo giudizio, di elementi valoriali e prescrittivi) a una conoscenza, per quanto possibile, freddamente scientifica e oggettiva della politica, che da allora in poi divenne l’obiettivo precipuo del suo impegno intellettuale.
In questo nuovo quadro vanno inserite, per esempio, le sue ricerche sulla storia e la scienza dell’amministrazione, ispirate alla convinzione che lo sviluppo storico dello Stato moderno, dalla sua fase monarchico-assolutistica a quella costituzionale-sociale novecentesca, sia stato non solo il frutto di una complessa elaborazione «ideologica» le cui radici affondano nella teologia politica della Controriforma e nel mito, anch’esso di natura religiosa, dell’unità del potere sovrano, ma abbia anche obbedito a una intrinseca razionalità di natura tecnico-giuridica, che storicamente si è espressa nel decisivo ruolo di governo assunto, a partire dal XVII secolo, dal ceto dei burocrati di professione nei diversi rami dell’amministrazione statale.
Su queste tematiche il M. svolse anche un’intensa opera di organizzatore culturale, attraverso la costituzione, nel 1959, dell’Istituto per la scienza dell’amministrazione pubblica e, nel 1961, della Fondazione italiana per la storia amministrativa. Il suo obiettivo, attraverso queste iniziative, la seconda in particolare, fu quello di riformare l’amministrazione pubblica italiana e di creare una grande scuola di governo sul modello dell’École nationale d’administration (ENA) francese. Un tentativo frustrato dalla classe politica del periodo, che finì ben presto per lesinare finanziamenti e sostegno organizzativo a quest’ambizioso progetto. Il che spinse il M., qualche anno più tardi, a spostare la sua attività dal versante «pubblico» a quello «privato» e ad avviare una stretta collaborazione con E. Cefis, per conto del quale diresse la scuola di formazione dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI).
Il suo intendimento, anche in questo caso, fu quello di contribuire alla selezione dei gruppi dirigenti e dei quadri tecnici necessari per il buon funzionamento dell’apparato politico pubblico e, in particolare, di un sistema economico, quello capitalistico-industriale, sempre più segnato dalla presenza delle grandi aziende multinazionali.
Sempre nel contesto di una scienza della politica che il M. voleva demistificante e avalutativa, sulla scia degli insegnamenti di M. Weber e della tradizione della Staatslehre germanica, va inserita anche la prolusione accademica che tenne nel 1964 sul tema Le trasformazioni dell’attuale regime politico (estratto da Ius, XVI [1965], 1).
In essa, tra molte contestazioni, egli ipotizzò, partendo da una analisi assai critica della situazione politica italiana, la crisi dell’ordinamento repubblicano vigente (basato sullo Stato di diritto e su una forma di parlamentarismo assoluto o «integrale») e la sua evoluzione verso un modello costituzionale di stampo autoritario e plebiscitario, l’unico a suo giudizio in grado di legittimare una classe politica ideologicamente coesa e sottratta al condizionamento dei partiti e della molteplicità di interessi, spesso divergenti, da questi ultimi rappresentati.
Da questa interpretazione del «caso italiano» – considerato emblematico del declino del modello statuale classico e delle trasformazioni che stavano investendo i regimi elettivo-rappresentativi sotto la spinta di un tumultuoso progresso tecnologico – il M. sarebbe partito per le sue ricerche in materia di «ingegneria istituzionale», che lo tennero occupato per circa un decennio e che sarebbero culminate, negli anni Ottanta, in un articolato e ambizioso progetto di revisione costituzionale. Le proposte elaborate dal Gruppo di Milano, dal nome della commissione di studio da lui promossa e coordinata tra il 1980 e il 1983, puntavano a risolvere il deficit di autorità e di capacità decisionale dei governi italiani attraverso l’elezione diretta del primo ministro, il conseguente ampliamento dei poteri dell’esecutivo, il meccanismo della «sfiducia costruttiva» e il rafforzamento dei poteri di garanzia rappresentati dal capo dello Stato (eletto dal Parlamento nella veste di «custode» della Costituzione) e dalla Corte costituzionale.
Un progetto nel segno del «decisionismo», concetto che il M. aveva mutuato dal pensiero di Schmitt, che egli aveva fatto conoscere in Italia nel 1972 curandone una raccolta di saggi, Le categorie del «politico» (Bologna), che ebbe una grande influenza sul dibattito politico-giuridico di quegli anni e che segnò in modo irreversibile la fortuna del giurista tedesco nella cultura italiana. L’idea del M. era che, stante l’avversione delle forze politiche a un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale vigente, che avrebbe finito per ridurre il loro controllo sulla macchina pubblica, si sarebbe dovuto procedere forzando i meccanismi di revisione previsti dall’art. 138 della Costituzione, attuando uno «sbrego», come egli lo definiva, che sarebbe poi stato sanato attraverso lo strumento del referendum popolare.
Le proposte del Gruppo, per quanto oggetto di un ampio dibattito, non ebbero tuttavia alcun seguito politico, rafforzando così nel M. il convincimento che nell’Italia dominata dalla «partitocrazia» un cambiamento delle regole del gioco si sarebbe potuto ottenere solo dall’esterno del sistema, attraverso una crisi politica o economica di vasta portata.
Lasciato l’insegnamento universitario, nel 1988, l’ultima fase della vita del M., quella che lo portò a diventare un personaggio assai noto anche presso il largo pubblico, fu segnata dall’avvicinamento al movimento leghista, dall’impegno politico-parlamentare e da una strenua battaglia a favore del federalismo.
Nel Movimento Lega Nord, dopo le delusioni degli anni precedenti, egli vide ciò che V. Pareto aveva visto nel fascismo nascente: una forza politica nuova e radicale, popolare e ideologicamente motivata, estranea ai tradizionali giochi di potere, in grado perciò di imprimere una spallata decisiva a un regime politico che egli giudicava in crisi irreversibile e al suo inter;no profondamente corrotto.
Pur senza aderire formalmente alla Lega, il M. accettò di candidarsi al Senato come indipendente nelle sue file, dove venne eletto nelle legislature XI (aprile 1992-aprile 1994) e XII (aprile 1994-maggio 1996). Ma i contrasti insorti ben presto con il leader leghista U. Bossi, che non ne appoggiò la nomina a ministro per le Riforme istituzionali nel primo governo Berlusconi (maggio 1994), lo spinsero a una traumatica rottura, che avrebbe raccontato in un caustico libretto apparso nel settembre di quello stesso anno (Io Bossi e la Lega: diario segreto dei miei quattro anni nel Carroccio, Milano). Dopo l’allontanamento dalla Lega, nel 1995 diede vita al Partito federalista, del quale fu presidente. L’alleanza con il Polo delle libertà gli consentì di essere nuovamente eletto al Senato per la XIII legislatura (maggio 1996-maggio 2001).
In questo periodo, segnato da un non facile equilibrio tra analisi scientifica e impegno politico militante, la sua antica polemica contro lo Stato unitario e accentratore lo portò a sostenere la legittimità della rivolta fiscale e della disobbedienza civile e a farsi paladino di un modello federale di matrice contrattualistica che prevedeva, sull’esempio dei cantoni svizzeri, la divisione dell’Italia in alcune grandi aree macroregionali e la nascita di una forma di governo di stampo «direttoriale». Una prospettiva istituzionale e una battaglia politica talmente radicali da accentuare la sua antica fama di studioso eccentrico e solitario.
Il M. morì a Como il 10 ag. 2001.
La vasta produzione scientifica del M. si trova raccolta nei due volumi Le regolarità della politica, Milano 1988; quella pubblicistica si può leggere nel volume Il nerbo e le briglie del potere. Scritti brevi di critica politica (1945-1988), ibid. 1988. Per le sue proposte di riforma costituzionale si vedano Una Repubblica migliore per gli Italiani, ibid. 1983 e il libro-intervista, a cura di M. Staglieno, Una Costituzione per i prossimi trent’anni, Roma-Bari 1990.
Fonti e Bibl.: Multiformità ed unità della politica, a cura di L. Ornaghi - A. Vitale, Milano 1988; G. Ferrari, G. M. Storia di un giacobino nordista, Milano 1993; A. Campi, Schmitt, Freund, M. Figure e temi del realismo politico europeo, Firenze 1996, pp. 113-148; C. Lottieri, Indagine su G. M., in Élites, 2001, n. 2, pp. 28-35; A. Vitale, L’attualità di un gigante scomodo per la politica, ibid., n. 3, pp. 4-10; D. Palano, Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Milano 2005, pp. 289-450; G. Di Capua, G. M. scienziato impolitico, Soveria Mannelli 2006; P. Schiera, Il problema dello «Stato» e della sua modernità. G. M. dalla storia alla scienza politica, introduzione a G. Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto «Stato», Brescia 2007, pp. 5-38; L. Ornaghi, Nell’autunno del jus publicum europaeum: G. M. e la politica internazionale, introduzione a G. Miglio, La controversia sui limiti del commercio neutrale, Milano 2009, pp. V-XL.
A. Campi