GIACHETTI, Gianfranco
Nacque a Firenze il 27 sett. 1888. Si trasferì quindi a Venezia con la famiglia e si laureò in giurisprudenza all'Università di Padova.
Diplomatosi anche in pianoforte, come molti attori della sua generazione si avvicinò al teatro attraverso la frequentazione di una filodrammatica, nel suo caso una filodrammatica parrocchiale. Qui fu notato da alcuni critici e in particolare dal capocomico A. De Sanctis che gli offrì una scrittura, ma il questore di Venezia, F. Gervasi, in gioventù a sua volta attore, gli consigliò di tentare il palcoscenico dialettale - sembra che il G. parlasse un "veneziano" particolarmente elegante e pulito proprio in grazia della sua origine toscana - e lo presentò al celebre Ferruccio Benini che, nel 1914, lo accolse in compagnia.
Il teatro dialettale, assurto a nuovi fasti negli anni Ottanta del XIX secolo, godeva all'epoca di un suo pubblico affezionato, e il repertorio in veneto, in lombardo, in napoletano e in siciliano era ricco e interessante, andando dalla farsa al dramma. Il repertorio veneto presentava, poi, caratteristiche particolari - riscontrabili nei contributi di commediografi del livello di G. Gallina e R. Selvatico - che lo assimilavano al teatro borghese più di altre consimili produzioni, per il tramite del patetismo di ascendenza goldoniana e, per sottrazione, data l'assenza nella città lagunare di una consistente tradizione di teatro di varietà e di café chantant; era, dunque, un teatro che tendeva alla verisimiglianza naturalistica e alla sottolineatura della cronaca. Tutto ciò si rispecchiava nella recitazione dei principali interpreti e soprattutto in quella del Benini, attore misuratissimo, nemico degli eccessi da mattatore, dotato di una dizione semplice e intima, spesso attraversata da una vena di segreta malinconia.
Dal grande capocomico, con cui si era subito creato un clima di intesa, il giovane G. apprese velocemente questa lezione tanto che, nello stesso 1914, il Benini lo prese come suo sostituto per la stagione estiva, permettendogli di misurarsi con i suoi ruoli più noti e celebrati, tra cui quello, famosissimo, del decaduto Nobilomo Vidal in Serenissima del Gallina. Nel 1916, il G. passò nella compagnia Micheluzzi-Borisi e, nel 1919, nella compagnia Serenissima di A. Mezzetti, con cui si affermò definitivamente, tanto da essere chiamato, nel 1921, a dirigere l'Ars veneta, composta da giovani promesse, fra cui figuravano i nomi di Cesco Baseggio, Gino Cavalieri, Elvira Pasquali e la moglie del G., Blanda Fontana (sposatisi nel 1920, si separarono nel 1928).
La nuova compagnia, benché animata dalle migliori intenzioni nella scelta di un repertorio che comprendesse sia commedie dei più noti autori veneti (quali Goldoni e Gallina), sia lavori moderni (per esempio la Brentana di A. Rossato, innovativa per l'epoca), non riuscì a venir fuori dal ristretto "giro" di provincia, finendo con lo sciogliersi dopo breve volgere di tempo.
Nel 1922 il G. si fece infine capocomico, esordendo, in marzo, a Verona, nel ruolo di un cieco, reduce della prima guerra mondiale, in Quei che torna di A. Frescura e W. Cesarini Sforza.
È questa una di quelle figure chiuse nella propria tristezza, in un'angoscia rassegnata e silenziosa - sentimenti accennati e suggeriti dall'atteggiamento, dalla voce, spesso velata, quasi mai sottolineati apertamente né tanto meno gridati - che il G. replicò in seguito in altri drammi e per cui doveva diventare famoso, che rappresentano il versante "serio", quasi tragico, della sua recitazione.
Tuttavia sul momento il successo e la fama sul piano nazionale gli vennero dal più leggero Nina non far la stupida (Salsomaggiore, 29 ag. 1922), vaudeville di ambientazione risorgimentale di A. Rossato, scritto con la collaborazione di Gian Capo e le musiche del fratello del G., Enrico; fu uno degli spettacoli del G. più rappresentati, tanto che nel 1926, a Milano, raggiunse le 1200 rappresentazioni.
In questo lavoro il G. interpreta, questa volta sul versante del comico, un altro ruolo che gli fu proprio, quello del fallito, del velleitario illuso (in questo caso il misconosciuto compositore Buganza, il quale continua ad aspettare caparbiamente un riconoscimento che non arriverà mai), in cui, al fondo del lato ridicolo, e risibile, del carattere si nasconde l'identica vena di sommessa malinconia dei personaggi più drammatici. A ragione, quindi, la critica poté parlare del G. come di un attore crepuscolare il quale, anche nella dimensione più allegra e sorridente del suo repertorio, rimane comunque in sintonia con quel teatro intimista che all'epoca costituiva uno degli aspetti più moderni della produzione drammatica italiana.
La carriera del G. proseguì, quindi, felicemente su ambedue i versanti della scena teatrale, il comico e il drammatico, sempre fedele tuttavia, salvo la breve eccezione relativa all'anno 1934, quando si scritturò con la compagnia Palmer, al teatro dialettale, e quasi sempre con il G. come capocomico.
Fu, dunque interprete ideale dei generi più diversi: da lavori storici quali I omeni del Quarantoto, di V. Soldani (1923), Santità di P. Piovesan (1923), Carlo Gozzi di R. Simoni e il El pare di Venezia di A. Rossato (Milano, settembre 1923, ripreso nel 1934, dove interpretava il ruolo di Daniele Manin); al versante comico, dove rese quasi proverbiali l'Ampelio Briseghel, avvocato senza cause, della trasposizione in veneto di La sagra dei fringuelli di A. Colantuoni (La sagra dei osei, 1923) e lo sfiatato baritono Piero Basotto di Ostrega, che sbrego! di A. Fraccaroli (1925), uno dei suoi maggiori successi. Tenne a battesimo quasi tutti i lavori in dialetto di un autore interessante come Gino Rocca, da Un baso (Milano, 7 genn. 1925), a L'imbriago di Sesto (ibid., 12 luglio 1927); La scorzeta de limon (ibid., 12 apr. 1928); Sior Tita paron (Brescia, compagnia Giachetti-Cavalieri-Micheluzzi, 29 dic. 1928); Su da noi (Milano, 24 febbr. 1931): del Rocca, tuttavia, immortalò soprattutto il Momi Tamberlan di Se no i xe mati no li volemo (ibid., 27 nov. 1926), satira grottesca, incerta tra commedia e dramma, sulle vicende di tre vecchi che, per poter godere di una ricca eredità, sono costretti a riproporre gli scherzi della gioventù e a fingerne l'allegria.
Il G. fu anche acclamato protagonista del repertorio classico veneziano, dal Goldoni di Sior Todero brontolon, delle Baruffe chiozzotte, dei Rusteghi, suo ultimo ruolo prima della morte (28 ott. 1936, all'Argentina di Roma con la compagnia del teatro di Venezia diretta da G. Zorzi); alla Famegia del santolo (oltre alla già ricordata Serenissima) del Gallina; a trasposizioni dalle commedie milanesi di C. Bertolazzi tradotte in veneziano dal Benini (L'amigo de tuti, L'egoista ecc.).
Non trascurabile fu anche l'attività cinematografica del G., che lavorò, in ruoli di carattere, sotto la direzione dei migliori registi dell'epoca, fra cui A. Blasetti (1860, Vecchia guardia, Aldebaran) e soprattutto M. Camerini, che ottenne uno dei suoi primi successi proprio con l'interpretazione del G. di Figaro e la sua gran giornata (1931), trasposizione cinematografica di Ostrega, che sbrego!.
Il G. morì a Roma il 29 nov. 1936.
Fonti e Bibl.: Necr., in Corriere della sera, 1° dic. 1936; E.F. Palmieri, Bene gli altri, Bologna 1933, pp. 117-122; R. Simoni, Trent'anni di cronaca drammatica, I-V, Torino 1951-60, ad ind.; A. Musco e il teatro del suo tempo, a cura di E. Zappulla, Catania 1991, ad indicem; Enc. dello spettacolo, V, coll. 1200 s.