CONTINI, Gianfranco
Nacque a Domodossola il 4 gennaio 1912 da Riccardo (nato a Chiari, provincia di Brescia), impiegato ferroviario, e da Maria Cernuscoli (nata a Rivolta d’Adda, in provincia di Cremona), maestra.
La nascita a Domodossola – ‘Domo’ per una non strettissima cerchia di amici – segnò un legame profondo con una geografia letteraria e affettiva che, nonostante i viaggi e gli spostamenti, rimase stabile negli anni, a partire dai ricordi degli studi classici presso il Collegio Mellerio Rosmini (dove, a salvamento da una sicura distruzione, l’amico Sandro Sinigaglia avrebbe portato i libri di una giovane eppure già ricca biblioteca).
Si laureò in lettere all’Università di Pavia, dove era a convitto presso il Collegio Ghislieri, con tesi – discussa nel 1933 – sulla vita e le opere di Bonvesin de la Riva. Dietro il relatore ufficiale, Pietro Ciapessoni, si muovevano la regia e il rigore di Santorre Debenedetti, che fino al 1928 aveva tenuto a Pavia la cattedra di filologia romanza e che seguì Contini anche nel perfezionamento a Torino (1934). Qui entrò in contatto con la cerchia degli allievi di Augusto Monti, dalla cui fucina culturale sarebbero scaturiti alcuni fra i più brillanti ingegni del tempo e consulenti della casa editrice Einaudi, da Massimo Mila a Leone Ginzburg e Cesare Pavese. Con lo stesso Giulio Einaudi instaurò un rapporto non meramente editoriale, come testimoniano le lettere pubblicate (Lettere all’editore, 1990).
Dopo una breve parentesi di insegnamento nelle scuole secondarie di Perugia, si trasferì a Parigi, dove trascorse un biennio di perfezionamento (1934-36) con Joseph Bédier, Alfred Jeanroy, Clovis Brunel e Georges Millardet. A un incarico presso l’Accademia della Crusca a Firenze seguì, senza soluzione di continuità, l’insegnamento di letteratura francese a Pisa per il 1937-38. L’Università di Friburgo lo chiamò nel 1938 sulla cattedra di filologia romanza, appena lasciata da Bruno Migliorini. Memorabili nei ricordi degli allievi diretti e indiretti – da Dante Isella a D’Arco Silvio Avalle, da Romano Broggini a Giorgio Orelli e Giovanni Pozzi (per alcuni anni l’Ateneo vide la compresenza di Giuseppe Billanovich) – i corsi tenuti fino al 1952 (in aula le lezioni del filologo romanzo, fuori aula le non meno frequentate conversazioni del contemporaneista). In quell'anno tornò in Italia, chiamato a insegnare filologia romanza presso la facoltà di magistero di Firenze, dove tenne brevemente anche corsi di letteratura spagnola, fino al passaggio definitivo – nel 1956 – alla medesima cattedra di filologia romanza, ma nella facoltà di lettere.
L’anno precedente aveva sposato un’allieva dei corsi estivi di letteratura comparata ad Alpbach, Margaret Piller, da cui ebbe i figli Riccardo e Roberto.
Dal 1952 fino al marzo 1971 ebbe la direzione del Centro di studi di filologia dell’Accademia della Crusca, dal 1957 al 1967 fu presidente della Società dantesca. Nel 1962 divenne socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Il 2 giugno 1969 fu insignito della medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte.
La sua ultima esperienza didattica fu alla Scuola normale superiore di Pisa, dove venne trasferito nel 1975 e dove restò fino alla pensione, proseguendo, attorniato da una scuola di forte identità metodologica, nell'insegnamento e negli studi anche se già fortemente provato nella salute dalle conseguenze di un ictus che lo aveva colpito nel 1970.
Gli ultimi anni – trascorsi dal 1987 a Domodossola, nella villa di San Quirico, meta di frequenti visite di amici e allievi – furono segnati dalla malattia, che tuttavia non interruppe un’attività scientifica operosa e tenace, culminata nel Breviario di ecdotica (Milano-Napoli 1986), cui fa da pendant l’intervista-confessione con Ludovica Ripa di Meana Diligenza e voluttà (Milano 1989), ossimorico binomio in cui risolse i poli solo apparentemente opposti di una tensione morale (e religiosa) – messa in evidenza soprattutto da Giovanni Pozzi (G. C. italiano svizzero, in Broggini, 1986, pp. 261-269) – educata alla scuola dei rosminiani, e la passionalità carnale della sua sublimazione nella ricerca e nello scambio intellettuale.
Morì a Domodossola il 2 febbraio 1990.
Tra l’una e l’altra tensione si distesero i conforti dell’amicizia, che cementò negli anni una serie di rapporti personali profondi e duraturi, più rivolti ai poeti e agli scrittori – incrociati per mestiere o intercettati con proverbiale intuito letterario (basterebbero i nomi di Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Emilio Cecchi, Antonio Pizzuto, Pier Paolo Pasolini) – che ai colleghi della sua pure ricchissima attività professionale, in Italia e all’estero. Il Fondo Contini conservato presso la Fondazione Ezio Franceschini a Firenze raccoglie le testimonianze di un’impressionante serie di contatti culturali e permette di ricostruire una rete di rapporti internazionali tra le più ricche mai intrecciate, in ambito letterario, da un intellettuale del XX secolo. Tali amicizie (sotto il cui emblema sono raccolti anche i profili biografici – da Contini significativamente chiamati «epicedi» – scritti per la scomparsa di amici e colleghi) lo legarono a personalità come Aldo Capitini (un passaggio cruciale della sua formazione civile, religiosa e politica), père Jean de Menasce e padre Giuseppe Bozzetti, della cerchia dei padri rosminiani di Domodossola, che svilupparono i valori fondanti l’equilibrio di uno studioso di ineguagliata statura europea, di pari erudizione e innovazione metodologica, tensione morale e rigore monastico, attirato e respinto anche dalle forme letterarie oggetto dei suoi studi, dalla poesia (una sua breve silloge fu pubblicata da Silvio Ramat in L’ermetismo, Firenze 1969) alla sfida linguistica della traduzione più ardita, come quella delle liriche di Friedrich Hölderlin (Firenze 1941).
Una parentesi di non effimero impegno politico si aprì nel 1944, quando partecipò ai pochi gloriosi giorni della Repubblica partigiana dell’Ossola (9 settembre - 22 ottobre 1944) come ministro della Cultura nelle file del Partito d’Azione, che rappresentò alle sedute del Comitato di liberazione nazionale. Reca la sua firma, insieme a quella di Carlo Calcaterra, una riforma scolastica non strettamente d’emergenza, in cui esercitò quell’azione politica che in molti contributi ticinesi di quei mesi dichiarava indifferibile (Cultura e azione si intitolava il supplemento da lui diretto entro le pagine del Dovere di Bellinzona, foglio radicale della Svizzera italiana, cui collaborò contemporaneamente al socialista Libera stampa di Lugano e all’ossolano Liberazione). Condivideva la passione politica con l’amico Sinigaglia (poi raffinato poeta per Parenti ed Einaudi), in una comunione di intenti e ricerca spirituale che si cementarono con la tensione religiosa di Capitini («Aldo ci abita. La sua compagnia è divinatrice: è compagnia delle ore basse», gli scriveva Sinigaglia nel febbraio 1945), nella considerazione della politica come 'atto d’amore'. Militanza che ben riflette il versante civile della passione letteraria, dove sin dagli esordi, su sconosciute riviste locali, si dedicò a un’attività di critica contemporanea con recensioni e articoli, da Niccolò Tommaseo a Marino Moretti, da Antonio Baldini ad Alessandro Bonsanti, poi raccolti in Esercizî di lettura ... (1939).
Del suo esordio come critico militante (nell’attitudine che sarebbe divenuta proverbiale, di provvedere a una «auscultazione molto attenta della superficie del testo» (dall'intervista del 1968 a Renzo Federici, poi in Appendice a D'A.S. Avalle, 1970, p. 221) fino a segnarne le «curve di livello» (Diligenza e voluttà, cit., p. 48), preludio agli interessi contemporaneistici, sempre vivi e produttivi, fanno fede i primi lemmi di un’amplissima bibliografia, ricostruita grazie al lavoro documentario di Giancarlo Breschi (2000), allievo e amico degli anni fiorentini. In essa si stagliano, tra la fine degli anni Trenta e il secondo dopoguerra, contributi capitali sulla poesia contemporanea, da Montale a Giuseppe Ungaretti, da Umberto Saba a Vincenzo Cardarelli, intesi anche e soprattutto come un intervento culturale sul presente, una necessità di giudizio che non imponga tuttavia «di ricostruire preliminarmente una cultura dall’a alla zeta», ma che consideri la filologia «inconcepibile [...] senza un senso vivo dei valori», come come dichiarò nel 1941 su Primato in Risposta a un'inchiesta sull'università (Un anno di letteratura, 1942, p. 152): «nessuna ricerca critica e, in genere, linguistica è didatticamente concepibile, ai suoi inizi, se non come esercizio sui contemporanei» (e rintracciando alla radice del sovvertimento della tradizione, tuttavia, prima che l’attraversamento degli stili dannunziano, le eccezionali doti di innovatore pregrammaticale e postgrammaticale della solo apparentemente ingenua poesia pascoliana).
In questo panorama – affrontato con un taglio non ancora specialistico, ma con modelli di tutta eccellenza come Cecchi e Alfredo Gargiulo – si stagliano alcune ‘ lunghe fedeltà’ che segnano interpretazioni ineludibili lungo tutto il Novecento di poeti e scrittori puntualmente divenuti anche interlocutori epistolari, a partire da Montale (chiamato col soprannome Eusebio), recensito, appena ventenne (Introduzione agli «Ossi di seppia», in Rivista Rosminiana, XXVII [1933], 1 , pp. 55-59), con un entusiasmo che metteva in ombra il già molto amato Ungaretti, fissando una lettura ‘oggettuale’ forse meglio attagliata alle Occasioni che agli Ossi (L. Blasucci, Di Contini su Montale, in G. C. Vent'anni dopo, 2011, p. 129), che avrebbe trovato compiuta realizzazione in quella, di adesione personale anche esistenziale, della Bufera, con cui Montale avanzò nella capacità di lettura della crisi novecentesca, entrando a pieno titolo in un Parnaso che gli meritò, con l’edizione critica condotta con Rosanna Bettarini (1980), un monumento che mai si era tributato a un autore vivente.
Ancora più simpatetica fu l’adesione a Gadda, conosciuto a partire dalla recensione al Castello di Udine (in Solaria, IX [1934], 1, pp. 88-93), ma riconosciuto – in una prosa tutta ‘provocata’ dalla polemica, ma scaturita da un fondo lirico in cui il già non più giovane ingegnere si sarebbe sempre riconosciuto – a capofila di una tradizione espressionistica (dal macaronico Teofilo Folengo allo scapigliato Giovanni Faldella), che avrebbe finito per riverberarsi su tutta la letteratura italiana, «prova in re della sua visione della letteratura» (R. Antonelli, Contini e la poesia italiana, in G. C. Vent'anni dopo, 2011, p. 92), mettendola al centro di tutto quel Novecento da cui era partito. Con la lettura della Cognizione del dolore – introduzione alla princeps einaudiana del 1963 – Contini mise a fuoco una linea espressionista che, nel frattempo, si era polarizzata nella dicotomia Dante-Petrarca/plurilinguismo-monolinguismo, ma anche un’interpretazione aggiornata a strumenti squisitamente novecenteschi: psicanalisi (in chiave proustiana) e relativismo, a partire proprio dall’analisi formale e linguistica, che proiettavano Gadda nel cuore dell’Europa moderna, accomunato nella cifra d’un 'manierismo espressionistico' al Joyce di Finnegan’s wake, così come Montale era stato l’Eliot del nostro Novecento. Le lettere all’ingegnere milanese dicono anche che nell’idea di una ‘funzione Gadda’ che avrebbe attraversato tutta la letteratura vi era anche il riconoscimento di un’attrattiva linguistica e stilistica a cui non era indifferente lo stesso critico se, come Adriano Seroni aveva ipotizzato già nel 1943 (in Letteratura, n. 23, p. 88, poi in Id., Ragioni critiche, Firenze 1944, p. 315), la prosa critica di Contini – poi proverbialmente aggettivata, fino a non lievi accuse di obscurisme – si sarebbe costruita una fisionomia in singolar tenzone con quella gaddiana, ma di sicura consapevolezza.
Un'analoga forma di corrispondenza di amorosi stili fu nell’amicizia con Pizzuto, colpo di fulmine non effimero, che si tradusse nella seconda metà degli anni Sessanta – fino ai pieni Settanta culminati nella voce Espressionismo per l’Enciclopedia del Novecento (II, Roma 1977, pp. 780-801) – in una forma di simbiosi critico-letteraria. Che la partita doppia, critica militante-filologia, non fosse un’opposizione ma un’integrazione, lo mostrano le «trivellazioni nella grammatica degli autori (impensabili, si badi, senza il concorso di tutte le possibili attrezzature filologiche e linguistiche, in un rapporto non di 'polarità', ma di assoluta identità)» (Alvino, 2011, p. 10). Vero è, tuttavia, che la laurea in filologia romanza, nel 1933, aveva inaugurato una splendida carriera a cui fu in certo modo ‘sacrificata’ l’attività di critico militante, ma non senza rivendicare, nello sperimentalismo del metodo, «una qualche originalità» in grado di compensare le risorse di una materia «non altrettanto sontuosa»: «lavoro molto. Ma “per la scienza”. Un equivalente dell'ammoniaca sintetica» (altro parallelismo simpatetico con l’odiosamata materia ingegneresca di Gadda: cfr. Lettere a G. Contini..., 1988, p. 33).
Contraddistinta da un metodo rigoroso, la filologia romanza di Contini fu sempre dipinta come un 'secondo mestiere', 'obbligativo' e appena screziato di attrattive tecnologiche, fino al gusto provocatorio di trasformare «l’Aula Magna in laboratorio», anche in funzione difensiva, come se l’unica sopravvivenza dell’umanesimo di fronte alla sfida delle scienze esatte fosse «in direzione razionale e tecnica» (C. Segre, Contini uno, due e tre, in C.G. Vent'anni dopo, 2011, p. 16).
Pubblicata la tesi su Le opere in volgare di Bonvesin de la Riva (Roma 1941), Contini applicò le competenze linguistiche e dialettologiche (milanese medievale e lombardo moderno) apprese in funzione filologica (ma il secondo volume contenente lo studio linguistico e il glossario è inedito) anche a problemi rigorosamente linguistici come il consonantismo spagnolo (Sobre la desaparición de la correlación de sonoridad en castellano, Mexico-Cambridge, Mass.,1951) e la ‘gorgia’ toscana (Per un’interpretazione strutturale della cosiddetta «gorgia» toscana, in Boletim de Filología, XIX [1960], pp. 263-281), fino all’impostazione strutturalistica dell’etimologia del termine «razza» (I più antichi esempî di “razza”, in Studi di filologia italiana, XVII [1959], pp. 319-327) contrapponendo alla teoria di Leo Spitzer (dal latino ratio) una meno nobile origine dall’antico francese utilizzato per indicare l’allevamento dei cavalli (haraz). Due i filoni di specializzazione intrapresi, base degli studi filologici successivi: la poesia provenzale e francese (da Per la conoscenza di un serventese di Arnaut Daniel, in Studi medievali, n. s., IX [1936], pp. 223-231, a Quelques sirventés de Peire Cardinal, Paris 1955) con il teatro religioso medievale, culminato nell’omonimo volume da Contini prefato e annotato, uscito nel 1949 presso Bompiani, e lo studio ecdotico del Saint Alexis (Scavi alessiani, in Linguistica e filologia. Omaggio a Benvenuto Terracini, Milano 1968, pp. 57-95, e La “Vita” francese di “Sant'Alessio”, e l'arte di pubblicare i testi antichi, in Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze 1970, pp. 343-374 [prolusione tenuta alla facoltà di magistero di Firenze nel 1953], entrambi poi in Breviario di ecdotica, cit.), in cui consolidò l’anteriore (almeno dal 1939) posizione dialettica con Bédier.
Gli impegni istituzionali assunti, legati alla cattedra fiorentina, dalla direzione degli Studi di filologia italiana (dal 1958 al 1963) con il Centro studi di filologia italiana (dal 1956 al 1970), alla presidenza della Società dantesca, nonché la condirezione della «Nuova raccolta di classici italiani annotati» per Einaudi e, anche se per breve periodo, del Giornale storico della letteratura italiana, corrispondono istituzionalmente alla tendenza della sua filologia verso applicazioni prevalentemente su testi italiani piuttosto che romanzi.
Un medesimo legame linguistica-filologia, stringe – anche nell’ambito degli studi sulla letteratura italiana – in un rapporto diretto causa-effetto, gli studi di stilistica (con la scoperta di Spitzer, avvenuta in un momento in cui la sua conoscenza era «edonistico monopolio di alcuni iniziati»:“Tombeau” de Leo Spitzer, in Paragone, XII, 1961, poi in Varianti e altra linguistica …, 1970, p. 654) alle ricadute ecdotiche (con la fondazione della critica delle varianti e le sue conseguenze culturali). La scoperta partì dagli studi di Karl Vossler, con la differenza che Contini scartò sia il preponderante interesse, di derivazione crociana, per l’estetica astratta, sia l’indagine psicologistica spitzeriana, riportando invece la ricostruzione dello scarto dalla norma linguistica, del 'clic' dello stile, al puro dato linguistico, considerato come primum ineludibile (e ancora più ineludibile per un dialettologo) dall’interpretazione, da verificare non solo alla luce radente dell’esito finale (il testo stabilito e pubblicato – ovvero reso 'pubblico' – secondo l’ultima volontà dell’autore), ma ai chiaroscuri della sua genesi: era una operazione svolta pionieristicamente, ma sulla scia, ben differenziata, degli studi nostrani di Giacomo Devoto (uno dei pochi critici a valere un’appassionata difesa nel 1943 con L'analisi linguistica di Giacomo Devoto [in Lettere d'oggi, V, 1943, pp. 77-91, poi in Varianti e altra linguistica..., 1970] e nel 1950 con La stilistica di Giacomo Devoto [in Lingua Nostra, XI, 1950, 2-3, pp. 51-57) che tuttavia innestò sulla sua stilistica una nuova disciplina, provocata dal cortocircuito con gli studi di Charles de Saussure, da cui la medesima stilistica fu portata su un piano inevitabilmente europeo.
Pubblicato a ruota e come recensione all’edizione di Santorre Debenedetti dei Frammenti autografi dell’Orlando Furioso, il saggio Come lavorava l’Ariosto (in Meridiano di Roma, 18 luglio 1937; poi in Esercizî di lettura, 1939), atto di fondazione della critica delle varianti, data 1937, dieci anni dopo quell’edizione critica dei Canti di Leopardi che, grazie alla pazienza e acribia di Francesco Moroncini, aveva dotato la letteratura italiana, e su uno dei suoi testi capitali, di uno strumento scientifico per lo studio delle correzioni d’autore. In radicale contrapposizione con la necessità crociana di un giudizio sull’opera definitiva (ma in apparente non belligeranza con le risultanze critiche di quella posizione), la valutazione critica delle linee correttorie di Ariosto fondò un nuovo metodo di analisi dei testi, intesi dinamicamente e non staticamente, diacronicamente e non sincronicamente; metodo particolarmente adatto a una tradizione letteraria come quella italiana, ricca oltremodo di testimonianze di varianti d’autore, da quelle ipotizzate (sin dalla Vita nuova) a quelle doviziosamente documentate, prima che per Ariosto e Leopardi, per il testo fondativo della lirica italiana, sul cosiddetto 'codice degli abbozzi '(ovvero brutta copia) del Canzoniere di Petrarca (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. Lat. 3196). Fu infatti su Petrarca che il metodo venne sperimentato da Contini nel giustamente celebre Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare (Firenze 1943), poi raccolto – con altri esperimenti del nuovo metodo di critica delle varianti, applicati a Proust non meno che a Mallarmé – in Varianti e altra linguistica (1970), il più continiano tra i volumi di Contini. Ma è sui Canti di Leopardi che il metodo affinò i suoi strumenti scientifici, innestando, su una tradizione di studi già fiorente proprio grazie all’edizione Moroncini, con le fini letture variantistiche di Giuseppe De Robertis, il fondamentale apporto dello strutturalismo di de Saussure, che impose un’analisi sistemica e strutturale, piuttosto che locale e quindi estetica, della variante e il suo indispensabile collegamento con il sistema delle varianti. Da qui la necessità di considerare le singole correzioni come momenti sincronici in una complessiva diacronia, da ricostruire rilevandone spinte e controspinte, movimenti di stabilizzazione del testo, con altri di innovazione e scarto (spitzeriano) rispetto alla tradizione e alla poetica stessa dell’autore, che si definisce così in rapporto alla sua storia interna e al suo attraversamento dinamico della tradizione.
Ne discende una visione radicalmente diversa del testo stesso, non estranea alle poetiche della modernità da Mallarmé a Valéry che intendevano la poesia «come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema storico rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima» (Saggio d'un commento alle correzioni del Petrarca volgare, in Varianti e altra linguistica, 1970, p. 5), dove il prodotto finale è soltanto il risultato di acquisizioni progressive non assolute ma relative, cioè dipendenti dal rapporto con i testi precedenti. La poesia è intesa quindi in «modo dinamico, che la vede quale opera umana o lavoro in fieri, e tende a rappresentarne drammaticamente la vita dialettica. Il primo [modo statico] stima l’opera poetica un ‘valore’; il secondo, una perenne approssimazione al ‘valore’; e potrebbe definirsi, rispetto a quel primo e assoluto, un modo, in senso altissimo, ‘pedagogico’. È a questa considerazione pedagogica dell’arte che spetta l’interesse delle redazioni successive e delle varianti d’autore (come, certo, dei pentimenti e dei rifacimenti d’un pittore), in quanto esse sostituiscono ai miti della rappresentazione dialettica degli elementi storici più letterali, documentariamente accertati» (Come lavorava l'Ariosto, in Meridiano di Roma, cit., poi in Esercizî di lettura, ed. 1974, pp. 233 s.). Dove si misura, nel parallelismo con la critica d’arte – per cui, a proposito delle correzioni dei Promessi sposi (in una lezione tenuta a Locarno il 7 dicembre 1974), parlò di «due Manzoni», il «Maestro del cocuzzolo calvo» e quello della «zucca pelata» (O. Besomi, Il Manzoni di Contini, in G. C. Vent'anni dopo, 2011, p. 184) – anche la forza ispiratrice del modello longhiano (fino a considerare suo 'testamento' l’articolo del 1989 I grandi anonimi dell’arte, ristampato lo stesso anno presso Tallone come I nomi degli anonimi), modello a cui tendeva con una passione e una competenza artistica da professionista, condivisa del resto con gli allievi e amici Isella e Franco Gavazzeni.
Ne discendono, ma inverate dalla tradizione e verificate dalla natura stessa dei testi di essa tradizione, una ipervalutazione delle poetiche dello scarto rispetto alla norma (l’espressionismo della 'funzione Gadda', messa in luce solo tre anni prima del saggio su Ariosto: L’espressionismo gaddiano: l’“eterna funzione Gadda” [1934], poi in Quarant’anni d’amicizia..., 1989) e una progressiva interpretazione stilistica della partita doppia Dante-Petrarca, giocata tutta sulla dicotomia pluristilismo-monostilismo, che trova compiuta realizzazione nel saggio del 1951 sui Preliminari sulla lingua del Petrarca (in Paragone, 2, pp. 3-26), dove la nuova visione storiografica intende non solo dare una descrizione caratterizzante all’oggetto, ma fondare una nuova tradizione letteraria, non più in chiave storica (sulla linea De Sanctis-Croce), ma metastorica, alla luce di quella categoria espressionistica (torsione linguistica e stilistica come atto necessario di conoscenza-deformazione di una realtà non pacifica e non pacificata) di derivazione (militante) novecentesca: il «prolungarsi dell’io in un suo corpo linguistico» (voce Espressionismo, cit., pp. 89 s.) e accogliere le mescidazioni di lingua e stile, storicamente attestate, come momenti di inveramento storico di questa metastorica ricostruzione.
Conseguentemente a una forte attitudine didattica (e pedagogica), anche questa nuova acquisizione critica si declina schematicamente: da un lato il monolinguismo petrarchesco e la grammaticalizzazione poetica del Canzoniere, posto a norma linguistica dal Bembo (nelle Prose della volgar lingua, 1525) e stilistica dal petrarchismo e dai suoi derivati (fino dentro l’Arcadia), dall’altro il plurilinguismo dantesco, identificato all’origine di un’altra tradizione di cui recuperare il valore, dopo l’oblio bembesco e cruscante, anche in relazione alla tradizione dialettale, così consustanziale alla letteratura italiana.
La terza data di questo gradus ad Parnassum, che si concluse con la voce Espressionismo del 1977, è il 1939, con la pubblicazione delle Rime di Dante, con cui nasce anche un nuovo modello di commento, poi alla base dell’impresa collettiva dei Poeti del Duecento (Milano-Napoli 1960): un cappello di straordinaria intensità e condensazione linguistica e semantica, che scava le dinamiche del testo in relazione alla sua storia interna e a vertiginosi legami con la tradizione e la sua storia contemporanea, in un intreccio di indagine storico-linguistico-metrica e con l’apporto nuovo e strutturale della stilistica. La concomitanza con la pubblicazione de Le occasioni di Montale e la scoperta di una corrente dantista anglosassone novecentesca (con Thomas S. Eliot a capofila) portarono il commento nel pieno del dibattito culturale contemporaneo. Ma di Dante le Rime non forniscono solo uno strepitoso documento letterario di plurilinguismo, ma anche l’inveramento di un’idea critica che Contini, in vent’anni di riflessione e 'auscultazione' del testo, mise a fuoco nel 1958 in saggio dal taglio si direbbe narratologico: Dante come personaggio-poeta della “Commedia” (in L'Approdo letterario, IV, pp. 19-46), poi raccolto con altri contributi in Un’idea di Dante (1976), un altro dei volumi einaudiani con cui ogni studioso, anche non dantista, è inevitabile si debba confrontare, a partire dal saggio eponimo che mette al centro memoria e memorabilità nella persistenza della tradizione, non solo classica.
È proprio a partire da un esercizio di memoria e da una dimostrazione per assurdo – se non ne fosse stato l’autore, non gli sarebbe stato possibile averne echi così capillari e diffusi – che si fonda la ripresa, negli anni Sessanta, di un caso tra i più dibattuti dell’attribuzionismo, cioè la questione della paternità del Fiore (La questione del "Fiore", in Cultura e Scuola, 1965, n. 13-14, pp. 768-773), con cui Contini segna il punto più impegnativo dei suoi studi sulla tradizione a testimone unico in un corpo a corpo durato vent’anni: del 1984 sono l’edizione critica nell’edizione nazionale di Dante uscita da Mondadori, e quella commentata nei Classici Ricciardi «La Letteratura italiana. Storia e Testi». Tale dimostrazione tuttavia, nello scavo entro l’enorme tradizione manoscritta del Roman de la Rose alla base del testo (che ne sviluppa il rifacimento), ampiamente utilizzato in sede di commento, permette il restauro – oltre ai parallelismi con la Commedia – del manoscritto del Fiore stesso e l’applicazione, insieme all’edizione del Canzoniere, uscita presso Tallone dieci anni dopo le Rime dantesche (1949, ma ristampata per Einaudi a partire dal 1964), di una normativa sulla modernizzazione dei testi poi passata a uso corrente (di contro alla tradizione risalente a Michele Barbi, orientata a una modernizzazione anche delle grafie culte, conservate invece da Contini).
Con il cantiere dei Poeti del Duecento, Contini e i componenti, giovanissimi, di un addestrato gruppo di lavoro, furono alle prese con una complessa tradizione plurima, riesaminata integralmente – sotto la sua cura diretta furono Bonvesin de la Riva e tutti i poeti della Scuola siciliana – in una ricostruzione testuale di straordinario impegno ecdotico e linguistico che consegnò alla cultura italiana un monumento alla propria tradizione di eccezionale rappresentatività (anche per le edizioni critiche di singoli autori, scaturite dal cantiere maggiore a opera dei collaboratori). Il lavoro divenne esemplare anche come modello editoriale, nella forma-cappello del commento, che elaborava il tipo esperito dalle Rime in poi (Gadda nel 1939 lo definì uno stil novo dell’esegesi), poi utilizzata anche, con piglio più didattico, nelle antologie della letteratura italiana curate per Sansoni (a partire dalla Letteratura dell’Italia unita del 1968), in cui è possibile rintracciare, nel computo delle presenze e delle, più rimarchevoli, assenze, le linee principali di un’idea di letteratura che si dispone significativamente e coerentemente «al di qua (nel Duecento, fino a Dante) o al di là (nell’Ottocento scapigliato e nel Novecento postpetrarchesco), della fase normativa che pure ha espresso l’egemonia letteraria italiana in Europa» (R. Antonelli, Contini e la poesia italiana, in G. C. Vent'anni dopo, 2011, p. 94). Da ciò dipende l’espunzione (o la minore incisività) dal proprio canone (e dalle suddette antologie) dei testi che potevano riflettere una consentaneità con la civiltà illuministica, intesa anche in senso lato 'umanistico' (Mengaldo, 2005). L’esemplarità è evidente anche per quanto riguarda la strategia ecdotica complessiva: la soluzione di irrisolvibili questioni attributive è affidata – dopo un riesame generale e capillare della tradizione, vagliata alla luce delle grandissime competenze linguistiche, filologiche e storico-letterarie – al controllo incrociato di classificazioni dei componimenti, prodotte dal loro ordine generale, con classificazioni degli stessi prodotte invece dalla valutazione degli errori singolari. Invece dagli studi sull’Alexis degli anni Cinquanta e dalle Esperienze d’un antologista del Duecento poetico italiano (in Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, pp. 241-272; poi in Breviario di ecdotica, 1986, pp. 175-210) e dalla straordinaria varietà di soluzioni proposte, prendeva forma il fondamentale concetto di diffrazione, ovvero una molteplicità di lectiones singulares che fanno ipotizzare la presenza di una precedente lectio difficilior eventualmente da ricostruire mediante divinatio: operazione da svolgere con parsimonia, ma non sgradita a chi aveva dichiarato che la moralità di uno studioso risiedeva nel «castigare la fantasia, quando ci porterebbe a ipotesi di lavoro che reggono male […] sapersi castigare quando si corre troppo e nello stesso tempo, il non rifiutarsi all’illuminazione, e al controllo dell’illuminazione, quando essa prepotentemente si presenta». Il che valeva una imprescindibile ozpione per «correre l'avventura», senza rinunciare a essere «la Corte dei Conti di se stesso» (Diligenza e voluttà, cit., pp. 231 s.).
Dalla scuola di Bédier Contini era infatti uscito neolachmanniano, sostenitore – insieme all’ammirato Giorgio Pasquali, che applicava il metodo alla tradizione classica – di una filologia che non rinunciasse alla ricostruzione delle forme dei testi. Di fronte alla contestazione del maestro, che vedeva nella restituzione dell’originale per via stemmatica un arbitrario esercizio combinatorio e nella preponderante presenza di stemmi a due rami una involontaria (ma ascientifica) inferenza della decisionalità del filologo, obbligato in tal modo a sostituire a un metodo oggettivo la propria discrezionale libertà di scelta, Contini tornò a più riprese sul problema centrale dello stemma del Saint Alexis per ribadire la necessità di una filologia stemmatica, intesa come la migliore ipotesi di lavoro possibile: un’ipotesi che verifica la propria 'moralità' alla luce di dati ricostruiti con metodo scientifico, piuttosto che rinvenuti nel 'miglior manoscritto' propugnato da Bédier e dalla sua scuola. Si tratta di un problema centrale, che attraversa tuttora la critica del testo e che nella ricostruzione tripartita dello stemma del Saint Alexis – rispetto allo stemma bifido di Gaston Paris – trova una soluzione antipsicologica, improntata ad avallare la lezione documentata dalla maggioranza, che Contini applicò a molti altri testi minori – sottraendo alla disciplina qualsiasi discrezionalità interpretativa, così come la serrata analisi di molti falsi errori critici destituisce di valore non già il metodo generale, ma la sua applicazione non scientifica né rigorosa. Che non sia mai stata completata l'edizione critica del Saint Alexis dice della minore importanza, per Contini, del testo «nella storia della letteratura antico-francese» rispetto a quella «attribuita alla sua edizione nella storia della ecdotica romanza»: l'interesse per il pometto è piuttosto mosso dal desiderio di misurarsi con i maggiore maestri di ecdotica romanza (Paris, Bédier, Pio Rayna) «qualcosa come un solenne incontro di spiriti magni» (A. Varvaro, G. C. e l'antico francese, in Riuscire postcrociani..., 2004, pp. 313 s).
Da questi esercizi ecdotici traggono linfa i contributi raccolti nel Breviario di ecdotica, dove vanno segnalati almeno i saggi Rapporti tra la filologia (come critica testuale) e la linguistica romanza (1970) e La critica testuale come studio di strutture (1971), nonché la voce Filologia dell’Enciclopedia del Novecento (II, Roma 1977, pp. 954-972), capisaldi a tutt’oggi della critica testuale e fondamenti di quella eccellenza nell’ambito degli studi riconosciuta a Contini in ambito europeo (si ricordino le due lauree honoris causa, dell’Università di Oxford nel 1965 e di Bruxelles dieci anni dopo). Tale competenza sarebbe stata riconosciuta dallo stesso filologo nella sua centralità (al di là delle tentazioni della critica militante), come dichiarò a Ripa di Meana nell'intervista Diligenza e voluttà, eleggendo Il Breviario di ecdotica, in alternativa con l’edizione del Fiore, tra gli scritti che, tra i tanti alle spalle, gli erano più cari.
Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, Firenze 1939 (rist. ibid. 1946; Torino 1974); Un anno di letteratura, Firenze 1942; Introduzione a C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Torino 1963; Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-68), ibid. 1970; Altri esercizî (1942-1971), ibid. 1972; Un’idea di Dante. Saggi danteschi, ibid. 1976; Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino 1974; Introduzione a F. Petrarca, Canzoniere, con note di D. Ponchiroli, ibid. 1975; Breviario di ecdotica, Milano-Napoli 1986; Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), ibid. 1988; Quarant’anni d'amicizia: scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), ibid. 1989; Postremi esercizî ed elzeviri, ibid. 1998; Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a cura di G. Breschi, Firenze 2007; Poesie, a cura di P. Montorfani, Torino 2010.
Epistolari
C.E. Gadda, Lettere a G. C. a cura del destinatario: 1934-67, Milano 1988; G. Contini, Lettere all’editore. 1945-1954, a cura di P. Di Stefano, Torino 1990; G. Contini - A. Pizzuto, Coup de foudre (1963-1976), a cura di G. Alvino, Firenze 2000; G. Contini - C.E. Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di G. Contini - G. Ungarelli - D. Isella, Milano 2009; Epistolari continiani. Atti della giornata di studi "C. e la cultura contemporanea", Pavia ... 2010, a cura di M.A. Grignani, in Moderna, XIII (2011), numero monografico.
Edizioni a cura di Contini: D. Alighieri, Rime, Torino 1939; Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960; Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze 1968; F. De Sanctis, Scelta di scritti critici e ricordi, Torino 1969; R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, Milano 1973; Letteratura italiana del Quattrocento, Firenze 1976; Letteratura italiana delle origini, ibid. 1978; E. Montale, L’opera in versi, Torino 1980 (con R. Bettarini); Letteratura italiana del Risorgimento 1789-1861, Firenze 1986; Antologia leopardiana, ibid. 1988; Poeti del Dolce stil novo, Milano 1991; Racconti della Scapigliatura piemontese, Torino 1992; La letteratura italiana: Otto-Novecento, Milano 1998.
G. Da Pozzo, Appunti sul linguaggio critico di G. C., in Belfagor, XXI (1966), pp. 639-661; A. Noferi, La visione legislativa di G. C., in Paragone, n.s. XIX (1968), 224, pp. 7-61; G. Petrocchi, G. C., in Letteratura italiana. I critici, V, Milano, 1969 [1987], pp. 3801-3817; D.S. Avalle, L’analisi letteraria in Italia, Milano-Napoli 1970, pp. 191-228; E. Bonora, Breve discorso sul metodo di G. C., in Giornale storico della letteratura italiana, CXLIX (1972), 466-467, pp. 161-194 (poi in Protagonisti e problemi. Saggi e note di storia della critica letteraria, Torino 1985, pp. 176-210); A.R. Pupino, Il sistema dialettico di G. C., Milano-Napoli 1977; R. Broggini, Pagine ticinesi di G.C., II ed., Bellinzona 1986; Su/Per G. C., in Filologia e critica, XV (1990), numero monografico; R. Feitknecht - G. Pozzi, Italiano e Italiani a Friburgo. Un episodio di storia letteraria all'estero, Friburgo 1991; C. De Matteis, C. e dintorni, Pisa 1994; G. Breschi, L’opera di G. C. Bibliografia degli scritti, Tavarnuzze 2000; G. C. tra filologia ed ermeneutica, in Humanitas, LV (2001), n. 5-6; F. Mazzoni, Lettera da non spedire a G. C., in Studi Danteschi, LXVIII (2003), pp. 167-209; Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. G. C. e gli studi letterari del secondo Novecento. Atti del convegno ... Napoli 2002, a cura di A.R. Pupino, Firenze 2004; P.V. Mengaldo, Tra Contini e Croce, in Strumenti critici, 2005, n. 3, pp. 435-446; Interpretazioni di G. C., in Ermeneutica letteraria, VI (2010); ibid., VII (2011), numeri monografici; G.C. vent’anni dopo. Il romanista, il contemporaneista. Atti del convegno ... Arcavata ... 2010, a cura di N. Merola, Pisa 2011; G. Alvino, Di Segre su C., in Oblio, I (2011), 4, pp. 6-10 (www.progettoblio.com); Incontri con G. C. Atti degli incontri ... 2010, a cura di Kiwanis Club - Città di Domodossola, Domodossola 2011 (si segnala G. Breschi, G. C. filologo, pp. 38-60).
Nel 2012 per celebrare il centenario della nascita di Contini, la Fondazione Franceschini di Firenze ha promosso un triplice convegno tenuto a Pisa-Firenze dall’11 al 13 dicembre, dedicato al filologo romanzo, al didatta e al critico militante, una mostra bibliografica e documentaria allestita per la cura di G. Breschi al Gabinetto Vieusseux (Gli scartafacci di C. Catalogo della mostra, a cura di C. Borgia e F. Zabagli, Firenze 2012), un volume fotografico (G. C., una biografia per immagini, a cura di P. Montorfani, ibid. 2012) e la pubblicazione dell’inventario dell’Archivio, a cura di C. Borgia (Firenze 2012). A Milano, invece, la passione di bibliofilo e l’amicizia con il filologo, editore e stampatore bergamasco Alberto Tallone, sono state illustrate da una mostra curata nel 2012 da R. Cicala e M. Villano, Il bello e il vero, che ha ricostruito il sodalizio con la celebre casa editrice, a partire dal Canzoniere del 1939 fino ai citati Nomi degli anonimi del 1989.