GAMBARA, Gianfrancesco
- Nacque nel Bresciano il 17 genn. 1533 da Virginia Pallavicini (vedova di Ranuccio Farnese) e da Brunoro (Il) conte di Pralboino, nobile fedele all’imperatore Massimiliano I e poi maestro di campo nell’esercito di Carlo V. Nipote del cardinale Uberto e della poetessa Veronica, il G. assorbì tutte le tradizioni provenienti dai suoi tre illustri predecessori: i legami con la famiglia imperiale e lo spirito militare, il gusto estetico, la carriera cardinalizia. Fu soprattutto quest’ultima a occuparlo sin dall’inizio sotto l’indirizzo attento dello zio, grazie al quale divenne, all’età di quindici anni, prevosto degli umiliati di S. Maria alle Grazie di Palazzolo (2 maggio 1548) e ancora ebbe a Cremona l’abbazia benedettina di S. Lorenzo e, nel 1549, la prepositura di Verola.
Iniziò gli studi universitari a Padova, li continuò a Bologna e li concluse a Perugia, dove si laureò in utroque iure. Gli antichi rapporti della sua famiglia con l’Impero gli consentirono facile udienza presso Carlo V, alla corte del quale restò circa un anno, per giungere poi a Roma come uno deifamiliares di Giulio III dopo la morte di Uberto, avvenuta nel 1549. Iniziò con un decennio di attività nella Curia. Fu infatti chierico e presidente di Camera durante i pontificati di Giulio III e Paolo IV, prima di assumere con Pio IV un ruolo di protagonista nella Curia romana, quando fu creato cardinale diacono il 26 febbr. 1561, subito dopo cardinale presbitero col titolo dei Ss. Pietro e Marcellino e in seguito di S. Pudenziana.
La sua nomina avvenne nel delicato momento della ripresa delle trattative per la riapertura del concilio di Trento e in un frangente di grandissima turbolenza, a causa del processo in corso contro il cardo Carlo Carafa e i suoi familiari, conclusosi con la condanna a morte dei nipoti di Paolo IV davanti al governatore di Roma Girolamo Federici e al procuratore fiscale Alessandro Pallantieri. Il G. entrava in un concistoro di cui facevano parte i più importanti esponenti delle opposte fazioni interne alla Chiesa romana, come Michele Ghislieri - il futuro Pio V, anch’egli creato cardinale da Pio IV e preposto da Paolo IV alla guida del tribunale del S. Uffizio - e Giovanni Morone, che aveva aperto il concilio di Trento con Reginald Pole ed era stato poi inquisito da Paolo IV come capo degli spirituali.
Lo scontro tra «moderati» e «intransigenti » era parso attenuarsi con l’elezione di Pio IV, dopo l’assoluzione di Morone (1559), ma restava invece ben vivo e se ne trova traccia anche negli Acta concistorialia, dove non mancano gli interventi dello stesso Gambara.
Nell’aspro confronto tra le due parti la posizione del G. fu sempre aderente a quella di Ghislieri; egli non mancava di manifestare nel S. Collegio la sua avversione a Morone e il suo grande allarme per situazioni come quella francese, dove il conflitto religioso si andava facendo sempre più pericoloso e dove gli ugonotti sembravano progressivamente penetrare nelle zone dove la Chiesa romana era più salda, come ad Avignone. Si espresse infatti con decisione contro la «traslazione» di quella legazione e nella polemica con il re francese Carlo IX - e soprattutto con la regina madre Caterina de’ Medici - a proposito dell’invio in quella sede del cardo Charles Bourbon, scrisse la Lettera a Pio IV del 31 ag. 1564.
La lotta all’eresia fini per dominare la sua attività dopo il pontificato di Pio IV; nominato legato di Camerino il 22 ag. 1565, non esercitò l’incarico a causa della morte del pontefice - avvenuta in quell’anno - e dei nuovi compiti che gli furono affidati. Il conclave che seguì fu all’inizio contrassegnato dalla discussione sulla candidatura di Morone e il G. scelse in quel momento di seguire il partito dei Farnese, in opposizione al cardinale milanese; tra i 21 voti contrari a Morone vi fu così anche quello del Gambara.
Il legame con Pio V rappresenta il momento centrale della vita del G.; egli fu da subito tra i più intimi e ascoltati consiglieri del pontefice, che lo volle nel tribunale dell’Inquisizione, ove il G. restò ininterrottamente fino al pontificato di Gregorio XIII. Sin dagli anni della ricostruzione della sede del S. Uffizio, danneggiata dalla sollevazione popolare seguita alla morte di Paolo IV nel 1559 e ricostruita nel 1566-69, il G. fu tra i quattro giudici preposti alla riorganizzazione della repressione dell’ eresia. Con il motu proprio Cum felicis del 1566 il numero dei membri del S. Uffizio passò da nove a quattro, il G. e i cardinali Giovanni Bernardino Scotti, Scipione Rebiba e Francisco Pacheco. Ai designati fu confermata l’ampia facoltà di giudizio già concessa nei deliberati di Pio IV, potendo l’accordo di due soli membri avere forza giuridica. La stessa casa del G. (secondo R. Lanciani il palazzo Pallavicini in Campo Marzio) e S. Maria sopra Minerva furono le sedi del tribunale. Il ruolo più incisivo del G. come inquisitore venne svolto negli anni 1566-70, quando fu protagonista nei processi contro Pietro Carnesecchi (1566-67), Niccolò Franco (1568-70) e l’ex governatore di Roma e procuratore fiscale Pallantieri (1569-71), tutti conclusi con l’esecuzione degli inquisiti.
Nel clima di revisione del processo Carafa e di intransigenza nel dibattito sulla Riforma protestante, questi procedimenti ebbero il chiaro intento di riproporre le accuse a Morone e a tutto il circolo di prelati e intellettuali che avevano ruotato attorno al Pole e alla «Ecclesia Viterbiensis», come gli stessi Carnesecchi e Franco, Bernardino Ochino, Vittoria Colonna, Vittore Soranzo. Dopo la parentesi del pontificato di Pio IV - col quale si era chiuso il concilio di Trento, cui pure il G. partecipò - si ripropose la linea della persecuzione inquisitoria contro gli spirituali e i vecchi avversari di Paolo IV; i processi contro alcuni di loro si innestarono cosi nella revisione del processo Carafa, basata sull’inchiesta nei confronti del Pallantieri. Le due istanze vennero a convergere nei tre procedimenti; tutta l’inquisitio contro Carnesecchi era stata incentrata sui rapporti del protonotario con gli spirituali, tanto che anche il rinvio dell’esecuzione fu allora considerato un atto per nulla favorevole all’imputato «... perché questi Sig.ri dell’Inquisizione gli erano a torno, e massime il Card.le Gambara perché nominasse il Card.le Morone et l’Arcivescovo d’Otranto, de quali il med.mo Gambara é inimicissimo capitale» (Ortolani, 1963, p. 161). Le stesse frequentazioni furono poi il vero oggetto dell’inquisizione del Franco, processato per il libello da lui pubblicato contro Paolo IV e sulla illecita consegna dei verbali degli interrogatori dei Carafa da parte di Pallantieri, argomento su cui si basò una delle accuse a quest’ultimo rivolte «nel palazzo del cardo de Gambara» (Mercati, 1955, p. 23).
La stessa integrità di comportamento il G. la applicò in un altro importante processo, quello all’arcivescovo di Toledo Bartolomé Carranza, autore delle Spiegazioni del catechismo, la cui vicenda ebbe inizio nel 1559 e terminò con la sentenza del 14 apr. 1576, letta davanti a Gregorio XIII che aveva avuto un ruolo diretto nel procedimento sin dal 1565 come legato in Spagna. Dopo la morte del Carranza, avvenuta subito dopo l’abiura impostagli dal S. Uffizio, il G. si adoperò vivamente perché l’accusatore Gaspare de Quiroga ottenesse l’arcivescovado di Toledo, riuscendo sia in questo intento sia in quello di farlo entrare nel S. Collegio, cosa che avvenne il 15 dic. 1578.
Il ruolo del G. è dunque inscindibile dal tribunale del S. Uffizio e dalla funzione di potente strumento di governo a questo organo attribuita per l’affermazione del primato della Chiesa romana; egli rappresentò inoltre in termini conservatori anche la linea di continuità - pure raccomandata dai deliberati tridentini - tra la repressione dell’eresia e il recupero dell’autorità ecclesiastica nei territori delle diocesi. Da sempre ostile alle aperture riformatrici delle visite pastorali, aveva osteggiato anche il vescovo della sua città Domenico Bollani, nonché lo spirito della visita a Brescia del cardo Carlo Borromeo, avvenuta nel marzo-dicembre 1580. Con Bollani il conflitto si manifestò in particolare quando, nel 1576, il vescovo decise di chiedere contributi economici per la diocesi ai titolari di benefici ecclesiastici. Il G. tentò di ostacolare le iniziative del Bollani, come la costruzione di una nuova cattedrale, ma non poté evitare un compromesso, ratificato da Gregorio XIII, col quale furono diminuite le pensioni dei beneficiari bresciani.
L’attività del G. nelle diocesi di cui si occupò fu caratterizzata da beneficenza e magnificenza. Ancora nel 1566 fu nominato tra i dodici primari vires per l’assistenza ai malati durante l’epidemia romana e il 7 ottobre successe a Sebastiano Gualterio nell’episcopato di Viterbo, dove lavorò, fino al marzo del 1576, per ricostituire l’autorità della Chiesa romana. La scelta di Viterbo manifestò la chiara intenzione di Pio V di ristabilire l’ordine in una diocesi che aveva visto l’incisiva presenza delle forze dissenzienti. Non diversamente il G. si preoccupò di intervenire direttamente anche altrove, laddove Morone aveva lasciato tracce profonde della sua attività, come nella diocesi di Modena; scriveva infatti il 5 dic. 1571 al nuovo vescovo di quella città Sisto Visdomini della necessità di «... mescolare la destrezza con la severità, et usare l’una et l’altra quando bisogna, tanto più perché la bona memoria di monsignor di Modena già suo predecessore per haver voluto usar sempre la mansuetudine et la piacevolezza si giudica che non habbia fatto tutto quello che harebbe potuto per servitio della sua Chiesa» (Brescia, Arch. Gambara, Copialettere, c. 23v).
In seguito il G. andrà ancora percorrendo gli itinerari diocesani degli spirituali, nel 1580 ad Albano, dove il Morone era stato dal 13 marzo 1560 al IO marzo 1561 e poi ancora nel 1583 a Palestrina.
Della sua attività pastorale a Viterbo è da segnalare il sinodo del 25 nov. 1573, e la fondazione del seminario diocesano. Di grande rilievo fu il completamento della villa Lante a Bagnaia e la costruzione dello splendido giardino italiano. Il G. volle quella realizzazione nella zona dei possedimenti dei Farnese, con i quali era imparentato, e nei pressi di Caprarola, sede del loro palazzo in quel momento in costruzione. Appena giunto a Viterbo il G. si mosse per unire Bagnaia alla mensa vescovile, facendo annullare l’alienazione precedentemente fatta a favore dei conti Del Monte. Con quell’opera e con quella città la villa Lante (che secondo A. Carones è da attribuire all’architetto Tommaso Chinucci) sembra avere in comune l’autore, lacopo Barozzi, detto il Vignola, che il G. conobbe quando era segretario di Giulio III. La villa, iniziata da Ottaviano Riario, assunse l’aspetto odierno solo con il progetto del G., ovvero con l’aggiunta della palazzina Gambara, del grande giardino con i giochi d’acqua e con le opere degli Zuccari e di Raffaellino da Reggio. I lavori durarono dal 1566 al 1578, anno in cui la villa fu visitata da Gregorio XIII (14 e 27 settembre).
Con la città di Bagnaia il G. ebbe un rapporto stretto e ne difese i privilegi da Viterbo, con interventi presso i Priori e i Conservatori di quella città, dove pure si occupò della cura della cattedrale e della creazione degli ospedali riuniti, che egli propose doversi collocare nella prioria di S. Matteo e
S. Pietro al Castagno e che invece saranno sistemati nel castello di S. Lorenzo nel 1575. Il Comune, i Farnese e il G. elargirono 500 scudi per quell’opera.
Anche a Roma il G. lasciò traccia di attività assistenziali. Negli anni della sua grande fortuna in Curia fondò la Compagnia dei bresciani (6 nov. 1569) - oggi Opera pia dei Bresciani - insieme a un folto gruppo di concittadini tra cui il tipografo e libraio Marco Amadori. L’Arciconfraternita fu confermata e riconosciuta il 3 giugno 1576 da Gregorio XIII - che istituiva i due organismi maschile e femminile, dedicati rispettivamente ai Ss. Faustino e Giovita e a S. Anna -, e costruì la sua chiesa nel 1576-78 in gran parte grazie all’esborso di danaro da parte del Gambara. La Compagnia assolse compiti religiosi e di assistenza in favore della «nazione» bresciana a Roma, ovvero dei nativi di Brescia e delle loro due generazioni successive.
Protagonista anche del conclave che elesse Sisto V nel 1585, il G. mori a Roma due anni dopo, il 5 maggio 1587. Composto il suo corpo nella chiesa di S. Maria del Popolo fu poi, secondo i suoi desideri, tumulato nella chiesa della Madonna della Quercia di Viterbo. Erede dei beni nel Parmigiano - descritti nel testamento di Veronica Gambara - fu Alessandro da Correggio. Le proprietà di Mederano, Miano, Correggio e il castello di Rossena furono lasciati all’abbazia cremonese di S. Lorenzo; quelle bresciane andarono invece al nipote Maffeo Gambara. La prepositura di Verola fu consegnata - con breve di Sisto V - al cardo Girolamo Della Rovere.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. Corsiniana, cod. 40. G.13: Ragionamenti intorno alla creazione di Pio V; Acta concistorialia ab anno 1561 usque ad anno 1565; Lettera al cardo Carretto; Lettera a Pio IV; Ibid., Acta concistorialia cardo Gambarae, cc. 459v-463r; Arch. segr. Vaticano, Arm. XLII, voI. 26, f. 334; Vescovadi, Viterbo e Toscanella, voI. 2, f. 234; ibid., Albano, voI. 106, f. 201; Brescia, Bibl. civ. Queriniana, Arch. Gambara, Copialettere; Ibid., B.V.31: Carteggio Bollani-Roveglio; F. Scotti, Orario habita in iurbi infimere il!. cardo G. Gambara, Viterbo 1587; Roma, Arch. dell’Opera pia dei Bresciani, Costitutioni della venerabile compagnia dei Ss. Faustino et Iovita di Roma. Della natione bresciana, s.l. 1595; Bullarum privilegiorum ac diplomatum Romanorum amplissima collectione, Romae 1745, IV, pt. II, pp. 327 s.; Estratto del processo di Pietro Carnesecchi, a cura di G. Manzoni, in Miscellanea di storia italiana, X (1870): la sentenza alle pp. 551-573; M. de Montaigne, Journal de voyage en Italie, in Oeuvres complètes, Paris 1962, pp. 1322-1324; F. Bussi, Istoria della città di Viterbo, Roma 1742, pp. 318 ss., 371 ss.; V. Peroni, Biblioteca bresciana, Brescia 181823, II, p. 97 (considera perduto il Trattato della suprema dignità del pontefice del G.); A. Bertolotti, Martiri del libero pensiero e vittime della santa Inquisizione nei secoli XVI, XVII e XVIII. Studi e ricerche negli archivi di Roma e di Mantova, Roma 1891, pp. 38, 69 s., 72-76; R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, Roma 1902, III, p. 177; IV, pp. 21-23; L. Fé d’Ostiani, La chiesa e la Confraternita dei bresciani in Roma, in Brixia Sacra, II (1911), pp. 22, 62; L. von Pastor, Storia dei papi, VII-X, Roma 1950-64, ad indices; A. Mercati, I costituti di Niccolò Franco (1568-1570) dinanzi l’Inquisizione di Roma esistenti nell’Archivio segreto Vaticano, Città del Vaticano 1955, pp. 23, 145, 146, 210, 219; A. Cantoni - F. Fariello - M.V. Brugnoli - C. Briganti, La villa Lame di Bagnaia, Milano 1961, ad ind.; Storia di Brescia, Brescia 1961, 2, pp. 461,467 s., 516, 594; O. Ortolani, Per la storia della vita religiosa italiana nel Cinquecento. Pietro Carnesecchi, Firenze 1963, pp. 133, S., 161; A. Cantoni, La villa di Bagnaia (villa Lame), Roma 1964, ad ind.; M. Signorelli, Storia breve di Viterbo, Viterbo 1964, pp. 228, 273, 300-302, 330; P. Pecchiai, I Lame, Roma 1966, p. 50; G.L. Masetti Zannini, La Compagnia dei bresciani in Roma nel IV cenunario della fondazione, Brescia 1969, pp. 1324; V. Frittelli, Bagnaia. Cronache d’una terra del Patrimonio, Roma 1977, ad ind.; A. Rotondò, Carnesecchi, Pietro, in Diz. biogr. degli Italiani, XX, Roma 1977, p. 473; G.L. Masetti Zannini, Il cardo G.F. G. e il S. Uffizio sotto Gregorio XIII, in Brixia Sacra, XIII (1978), pp. 112-119; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, IV, 2, Brescia 1981, ad ind.; A. Prosperi, G. (G.F.), in Dict. d’hist. et de géogr. ecclésiastiques, XIX, Paris 1981, coll. 964-966 (vedi le fonti ivi citate); A. Carones, Memorie historiche del palazzo e villa di Bagnaia co’ respettivi possessori, Bagnaia 1983, ad ind.; V. De Marco, Ss. Faustino e Giovita, in Ricerche per la storia religiosa di Roma, 1985, n. 6, pp. 286-288; M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, Bologna 1992, p. 375; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, p. 172; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica, IIl, Monasterii.