TIEPOLO, Giandomenico Almorò
– Nacque a Venezia il 1° agosto 1763, terzogenito di Alvise quondam Francesco Tiepolo di Sant’Aponal e di Elena quondam Giacomo Badoer.
La famiglia era tra le più autorevoli della Serenissima, alla cui storia aveva contribuito con due dogi (Giacomo e il figlio Lorenzo, v. le voci in questo Dizionario), prima della congiura di Bajamonte (1310) – che escluse di fatto dal dogado i discendenti di ogni ramo – e con molti altri autorevoli magistrati, diplomatici, cardinali. La politica matrimoniale avviata nel XVIII secolo aveva rafforzato la collocazione primaria dei Tiepolo, legandoli alle famiglie più influenti della Repubblica, dai Pisani ai Mocenigo, dai Corner ai Foscarini, dai Manin ai Loredan.
Non fu dunque un caso che Giandomenico sposasse, il 15 agosto 1787, Maria di Antonio Marin Priuli, e che il contratto di matrimonio avesse come garanti Nicolò Contarini e, per la sposa, il futuro ultimo doge, Lodovico Manin. Al di là della dote di 55 mila ducati, Maria Priuli portava con sé un rafforzamento politico, che si vide quando Giandomenico iniziò il suo cursus honorum.
Tiepolo era stato educato in famiglia, con istitutori come l’ex gesuita Cristoforo Tentori (1745-1810), che ebbe un ruolo fondamentale nella formazione del giovane, grazie ai suoi interessi di storia veneta celebrata in chiave positiva nella scia di Vettor Sandi, nel Saggio sulla storia civile, politica, ecclesiastica e sulla corografia e topografia degli Stati della Repubblica di Venezia ad uso della nobile e civile gioventù (Venezia 1785-1790) o nell’importante Raccolta cronologico-ragionata di documenti inediti che formano la storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia corredata di critiche osservazioni (Augusta, ma Venezia, 1799).
Il 21 aprile 1787 Tiepolo entrò in Maggior Consiglio: nel febbraio dell’anno dopo ricevette già il suo primo incarico – podestà a Chioggia – di poco precedente all’ingresso nei Savi agli Ordini, i regolamenti marittimi, palestra dei giovani aristocratici. Da lì un susseguirsi di mansioni rilevanti, anche se non di grande prestigio: il ruolo più importante fu quello di savio di Terraferma, che tenne più volte tra il 1793 e il 1796, oltre a quello di magistrato di Sanità (1792); ad altri incarichi minori venne destinato negli ultimi mesi della Serenissima, come deputato agli acquartieramenti, aggiunto al Provveditore alle lagune e ai lidi o quello, ormai postumo e quasi sarcastico, di deputato al recupero degli effetti derubati nella giornata del 12 maggio 1797, ovvero il giorno dei saccheggi che seguirono l’autoscioglimento del Maggior Consiglio e del dogado, nomina premonitrice del suo ruolo di conservatore della storia patria.
Sia a Chioggia sia nei giorni della caduta della Repubblica e negli anni del primo governo austriaco, Tiepolo mise in mostra abilità amministrative unite a una disponibilità umana al limite della filantropia, sia che cercasse di colmare, anche di tasca propria, la mancanza di farina per la carestia ricorrente e soccorrere i molti poveri a carico dello Stato, sia che intervenisse a limitare gli effetti degli ultimi contagi di peste, nel Lazzaretto nuovissimo di Poveglia. Arrivati gli austriaci, nel gennaio del 1798 in virtù del trattato di Campoformido, Tiepolo, divenne presidente dell’Imperial Regio Ufficio di sanità, sino al 1802. In quell’anno, avvicendato dall’amministrazione asburgica che aveva progressivamente emarginato i vecchi patrizi, decise di ritirarsi, dedicandosi alla numerosa famiglia (ebbe undici figli, quattro maschi e sette femmine), ai suoi studi e ai beni, che subirono un grave dissesto.
La vicenda economica dei Tiepolo ebbe connotati diversi dall’evoluzione delle altre famiglie veneziane, che all’indomani della scomparsa del potere dogale furono costrette a svendere il proprio patrimonio, immobili e collezioni d’arte, archivi e biblioteche. I Tiepolo invece giunsero all’inizio del XIX secolo all’apice della propria potenza: prova ne sia l’onore che Giandomenico ebbe, nel luglio del 1801, di ospitare nella propria residenza sul Canal Grande l’arciduca Giuseppe d’Austria, con feste e intrattenimenti. Un palazzo nel quale Giandomenico aveva accumulato nel tempo un museo di «cose venete», libri, quadri e medaglie, che neanche vent’anni dopo fu costretto a svendere con una lotteria. Eppure Tiepolo aveva accresciuto il patrimonio con acquisizioni ereditarie, potendo contare su più di mille ettari propri e altri mille e duecento con i fratelli, sparsi nella campagna veneta: una rendita di 70.000 ducati compromessa da investimenti frettolosi e avventati esperimenti agrari, come la risicoltura in terre non propizie, che lo indebitarono al punto che nel 1820 si dovette «ritirare in una villa sulla Piave con un figlio ventenne e quattro figlie nubili e vivere in ristrettezze economiche» (Biblioteca del Museo Correr: E.A. Cicogna, Diari, II, pp. 4631 s.), senza più servitori e in procinto di vendere anche il palazzo sul Canal Grande al banchiere Giovanni Papadopoli, che già aveva acquistato gran parte dei terreni. Fu soprattutto questa imperizia – e una certa ingenuità che lo rese vittima di truffatori che gli vendettero monete e medaglie false, spacciate per autentiche – più che la pretesa di vivere con la grandezza di un tempo, a rovinare Tiepolo. E non lo aiutò accettare grandi e piccoli incarichi, come, in età napoleonica, i ruoli di membro del dipartimento dell’Adriatico o di consigliere comunale dei paesi dove aveva le sue proprietà, come usava allora, da Dolo a Cava Zuccherina, da Loreo e Cavarzere a Portobuffolè e Fiesso, da Bottrighe a Murano; o la dispendiosa vicenda della riconferma della nobiltà (1818), elevata nei ranghi dei conti dell’Impero d’Austria (1820) e ribadita per i suoi figli (1834).
Nonostante questi rovesci, l’attenzione verso la storia patria fu crescente in Giandomenico. La riprova venne dalla sua elezione a socio onorario dell’Ateneo Veneto – nel 1812, anno della fondazione dell’istituto – che il presidente Leopoldo Cicognara motivò per la fama acclarata di studioso di storia veneta, nonostante non avesse ancora pubblicato nulla. Per questo non stupì che, all’uscita della Histoire de la République de Venise di Pierre Daru (Paris 1819), fosse proprio Tiepolo a prendere le difese della Serenissima, delle sue magistrature, della forma repubblicana e dogale.
Daru (1767-1829), ufficiale e ministro napoleonico, accademico di Francia, aveva scritto l’Histoire sulla scia della cosiddetta leggenda nera che, sin dal XVII secolo aveva accreditato una presunta diarchia tra il doge e il Maggior Consiglio da una parte, gli Inquisitori di Stato e il Consiglio dei Dieci dall’altra. Ripartendo dal Capitolare degli Inquisitori e da altri documenti che aveva visto in Francia, trafugati dagli archivi veneziani nel 1797, Daru diede nuova linfa alla storiografia dell’antimito, mettendo in luce antiche e già note contraddizioni del governo oligarchico, a fianco peraltro di considerazioni positive.
L’Histoire ebbe subito molta attenzione a Milano e, soprattutto, a Venezia, contando almeno due tentativi di traduzione, da parte di Pietro Fracasso e di Giannantonio Moschini, l’abate veneziano cultore, come Giandomenico, di memorie patrie. Moschini, che aveva iniziato a scrivere a Daru sin dal 1820, divenne tramite anche della corrispondenza e delle critiche di Tiepolo all’autore francese. Fu lo stesso Daru, nel novembre del 1822, a chiedere a Moschini di metterlo in contatto con Giandomenico, a riprova della fama di storico che egli rivestiva, inviandogli anche una copia della seconda edizione della sua discussa opera. Iniziò così un carteggio tra i due che si interruppe nel 1825, quando Daru pubblicò la terza edizione dell’Histoire e Tiepolo raccolse le sue riflessioni nei Discorsi ossia Rettificazioni di alcuni equivoci riscontrati nella Storia di Venezia del sig. Daru, editi (Udine 1828) successivamente a non poche controversie con la censura austriaca, dato che Vienna non vedeva di buon occhio celebrazioni della storia passata, lette in chiave antiasburgica. Censura nella quale ricadde anche la traduzione italiana dell’Histoire, bloccata dopo il primo volume della edizione veneziana del tipografo veneziano Andreola (1819).
Il carteggio non portò a sostanziali modifiche delle posizioni di entrambi gli studiosi. In particolare Daru continuò a ritenere Tiepolo più uno scrittore agiografico che uno storico, partigiano di un modello di governo desueto e poco incline all’autocritica. Più elegante, il conte veneziano riconobbe nell’introduzione ai Discorsi la bontà delle ricerche di Daru, contestando tuttavia l’utilizzo di fonti non originali, false o scarsamente attendibili. Per cui i Discorsi non si presentarono come una nuova storia di Venezia, ma una confutazione, in sei rettificazioni, dei principali errori del francese.
Le Rettificazioni affrontavano i temi principali del carteggio che Daru aveva tralasciato nonostante gli fossero giunti «gli schizzi delle osservazioni da noi fatte nel leggere la prima edizione [...] per puro sfogo di patrio sentimento» (Discorsi..., cit., pp. 5 s.). La prima riguardava «alcuni equivoci [...] circa l’originaria indipendenza politica di Venezia» (p. 13), il cui nucleo Tiepolo identificava nel mito dei profughi delle lagune, senza vincoli con Bisanzio; la seconda seguiva l’evoluzione del governo, contestando che la serrata del Maggior Consiglio equivalesse alla riduzione a oligarchia, sostenendo al contrario la coesione del patriziato; la terza investiva la politica estera, in particolare la discussa linea della neutralità disarmata, difesa da Tiepolo opponendo alla doppiezza del comportamento contestato da Daru verso i francesi, la bramosia di potere di Bonaparte. Ma fu la quarta rettificazione ad affrontare il tema centrale del Capitolare degli Inquisitori di Stato alla base della teoria dell’Histoire, che Giandomenico riuscì a dimostrare infondato, ricorrendo alla storiografa veneziana e ad alcune testimonianze di studiosi coevi, da Michele Battagia (Della nobiltà patrizia veneta, Venezia 1816) a Zaccaria Vallaresso (autore dei Rilievi intorno il documento sopra gli Inquisitori di Stato, conservato nel suo archivio) o alla Lettera ai NobilUomini Veneti (Milano 1820) di Pietro Dolce. E mentre la quinta rettificazione chiariva la vicenda seicentesca della congiura di Bedmar, la sesta e ultima tornava «alle costumanze de’ Veneziani ed ai sistemi del loro governo» (Discorsi..., cit., II, p. 323). Pur morendo l’anno dopo l’uscita dei Discorsi, Daru riuscì a raccogliere le sue controdeduzioni, che confluirono nelle Osservazioni sopra alcuni passi della storia di Venezia del signor Daru, riprese nella quarta edizione dell’Histoire, curata da Jean-Pons-Guillaume Viennet (Parigi 1853), in cui le «critiques et observations de M. Tiepolo» comparvero sin dal titolo.
Gli ultimi anni di Giandomenico continuarono tra studi storici e numismatici, traduzioni dall’inglese e una fitta corrispondenza con intellettuali veneziani e italiani, oltre ad alcune letture fatte all’Ateneo, che ebbero sempre come obiettivo la difesa del modello aristocratico. E se l’Histoire di Daru ebbe fortuna europea, i Discorsi rimasero contenuti in platee più ristrette: tuttavia, negli anni seguenti, le obiezioni di Tiepolo vennero fatte proprie e modificate in senso moderno e più critico da altri studiosi, pur soci dell’Ateneo Veneto, da Leonardo Manin ad Agostino Sagredo, da Daniele Manin a Samuele Romanin.
Morì a Venezia il 7 gennaio 1836.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Archivio Tiepolo, primo versamento, bb. 1-2 (sulla famiglia); secondo versamento, b. 102 (corrispondenza Daru); Venezia, Archivio dell’Ateneo Veneto, b. 3, Antiche Società e A. S. de Kiriaki, Prospetto cronologico delle letture, conferenze e memorie dal 1812, ad datam 1828, 1834 e 1835; Biblioteca del Museo Correr: E.A. Cicogna, Diari, cod. Cicogna 2845, II (anni 1819-1835).
N. N., T. (conte Gio. Domenico) in Biografia degli Italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, e de’ contemporanei..., pubblicata per cura del professor E. De Tipaldo, VI, Venezia 1838 pp. 209-211; il necrologio dell’Ateneo Veneto è in G. Bellomo, Relazione..., in Esercitazioni scientifiche e letterarie, III (1839), pp. 46-48. Inoltre: G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant’anni. Studi storici, Venezia 1855-1857, pp. 193 s.; M. Infelise, Intorno alla leggenda nera di Venezia nella prima metà dell’Ottocento, in Venezia e l’Austria, a cura di G. Benzoni - G. Cozzi, Venezia 1999, pp. 309-321; S. Bonnini, «Quel sincero affetto alla patria nostra». G. T. e l’Histoire de la République de Venise di Pierre Daru, in Archivio Veneto, s. 5, CLXXV (2010), pp. 61-122, anche per indicazioni bibliodocumentarie; M. Gottardi, L’Ateneo e la città. Intersezioni, in Ateneo veneto 1812-2012. Un’istituzione per la città, a cura di M. Gottardi - M. Niero - C. Tonini, Venezia 2012, pp. 10-12; D. Laven, Lord Byron, Count Daru, and anglophone myths of Venice in the nineteenth century, in MDCCC 1800, I (2012), pp. 5-32. Sulla situazione economica: G. Trevisan, Proprietà e impresa nella campagna padovana all’inizio dell’Ottocento, Venezia 1980, p. 86; G. Scarpa, Proprietà e impresa nella campagna trevigiana all’inizio dell’Ottocento, Venezia 1981, p. 85; R. Derosas, Aspetti economici della crisi del patriziato veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, in Cheiron, VII (1989-1990), 12-13, monografico: Venezia nell’Ottocento, a cura di M. Costantini, pp. 11-61; V. Dal Cin, Il mondo nuovo. L’élite veneta fra rivoluzione e restaurazione (1797-1815), Venezia 2019, ad indicem.