PAJETTA, Giancarlo
PAJETTA, Giancarlo. – Nacque a Torino il 24 giugno 1911 da Carlo e da Elvira Berrini.
Il padre, laureato in legge, era impiegato all’Istituto San Paolo mentre la madre, che sarebbe stata conosciuta per il suo attivismo e per il suo coraggio politico come ‘mamma Pajetta’, era una maestra elementare. Si trattava di una famiglia di piccoli borghesi, idealmente socialisti prima della Grande Guerra e comunisti dopo la Rivoluzione d’ottobre. ‘Senza tessera’ ma pronti alla solidarietà e alla mobilitazione politica e, soprattutto, capaci di incoraggiare i figli (ne nacquero altri due, dopo Giancarlo: Giuliano e Gaspare) all’impegno politico antifascista negli anni dell’affermazione prima, e poi in quelli del consolidamento del regime.
Per quanto la famiglia fosse originaria di Taino, in provincia di Varese, un paese sulla sponda lombarda del lago Maggiore cui rimase sempre legata, fu Torino che ne segnò l’identità politica, e in modo speciale borgo S. Paolo, il quartiere operaio per eccellenza, dove sembravano concentrarsi tutte le tradizioni del radicalismo di classe e un po’ bigotto del socialismo torinese. Pajetta crebbe e fece le sue prime esperienze politiche in quell’ambiente, appena rischiarato, nel dopoguerra, dall’Ordine nuovo di Antonio Gramsci e da Energie nuove di Piero Gobetti e poi segnato dalla scissione comunista. Di queste vicende sentiva parlare in casa quando aveva poco più di dieci anni.
Fece appena in tempo a iniziare gli studi al liceo d’Azeglio, dopo essersi iscritto alla federazione giovanile comunista, che fu espulso da tutte le scuole del Regno per tre anni, per aver fatto propaganda comunista e aver parlato contro la religione. Si era nel febbraio 1927: nel novembre dello stesso anno fu arrestato e poi condannato a due anni di carcere per propaganda sovversiva nonostante la giovane età. Aveva distribuito volantini antifascisti agli operai delle officine tipografiche Saroglia, a Torino. Diversi suoi compagni di scuola condividevano l’atteggiamento antifascista (Vittorio Foa, Massimo Mila, fra gli altri), ma nessuno manifestò la stessa disponibilità all’impegno illegale e all’attivismo politico.
Nella sua prima esperienza carceraria egli mostrò alcuni tratti del carattere che non lo avrebbero più abbandonato: un coraggio al limite della spavalderia, un forte senso della famiglia e una visione positiva della vita. Dopo la detenzione a Torino, nel settembre 1928 venne trasferito a Roma in attesa del processo. Alla fine dell’anno passò a Forlì, da dove continuò a scrivere con sorprendente ottimismo lettere rassicuranti ai suoi familiari, in cui raccontava di non temere la solitudine e di trascorrere le giornate impegnato nel lavoro e nella lettura.
Anni dopo, promuovendo la pubblicazione dei due volumi di Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino (Roma 1962), Pajetta offrì nella prefazione una lettura della sua corrispondenza carceraria come di un linguaggio cifrato, scritto anche per il censore, un linguaggio che non doveva «spaventare nessuno a proposito di una vita che altri avrebbe dovuto avere il coraggio di affrontare» (p. XV). Tuttavia, di là dai suggerimenti filologici, rivendicava anche la volontà di allontanare da sé «lo sconforto e il dubbio» (ibid.), attraverso un percorso che lo condusse a una fede incrollabile nel comunismo.
Scarcerato alla fine del 1929, tornò all’attività nell’organizzazione giovanile comunista contribuendo alla creazione di una rete clandestina e alla pubblicazione del periodico La riscossa. Assunse lo pseudonimo di Nullo, in omaggio al coraggioso combattente garibaldino Francesco Nullo, il cui nome era allora ricordato in Italia. La sua esperienza politica, già caratterizzata da una passione intensa e da una fedeltà assoluta verso il movimento comunista, era però acerba. Essa maturò nel cuore della ‘svolta’ dell’Internazionale e della sua sezione italiana, nei poco più di due anni di libertà nei quali egli raggiunse il ‘centro’ del Partito comunista d’Italia (PCd’I) nell’emigrazione e poi assunse responsabilità direttive importanti, come segretario della federazione giovanile comunista e delegato del PCd’I al congresso di Colonia-Düsseldorf. Fu nominato rappresentante dell’organizzazione giovanile comunista italiana all’Internazionale giovanile comunista (KIM, Kommunističevskij Internacional Molodeži) e trascorse i suoi soggiorni a Mosca presso l’Hotel Lux che ospitava lo stato maggiore dell’Internazionale, ma in un’ala speciale dove «i giovani giocavano al Comintern» (Il ragazzo rosso, Milano 1983, p. 145).
I suoi viaggi in Europa (da Parigi a Berlino in 20 ore, da Berlino a Mosca in 40 ore) furono parte della sua formazione politica: alla ‘Mecca’ (così i comunisti chiamavano Mosca) visse quelle esperienze del movimento comunista internazionale che definivano identità e creavano solidarietà. Il Partito comunista d’Italia era considerato allora un piccolo partito sconfitto; il comunista tedesco Kurt Müller gli disse nell’estate del 1931 che tutta la federazione giovanile del PCd’I poteva stare sotto una campana ‘zarina’ (delle due che erano nel cortile del Cremlino). Nelle discussioni interne al Partito comunista che accompagnarono la ‘svolta’, Pajetta sostenne le posizioni di sinistra della maggioranza che si attendeva una radicalizzazione della lotta di classe in Occidente e che, dopo avere espulso Angelo Tasca, passò all’espulsione degli altri militanti comunisti considerati ‘opportunisti’ e contrari al concetto di ‘socialfascismo’. Al congresso di Colonia, intervenne nella discussione proponendo una più intensa attività di propaganda fra i giovani e anche fra i militari nelle caserme, e in diverse occasioni rientrò illegalmente in Italia per promuovere l’organizzazione giovanile. In uno di questi viaggi fu di nuovo arrestato – nel 1933 – e poi condannato a 21 anni di detenzione dal tribunale speciale. Nelle carceri fasciste, fino al luglio 1943, continuò la sua attività politica e la sua formazione culturale, specialmente come membro attivo (noto col numero 6706) della cosiddetta ‘Università del carcere’ a Civitavecchia, dove fu trasferito da Roma nel marzo 1934.
Nella seconda detenzione, più lunga e severa della prima, il tono del suo epistolario non mutò, presentando i consueti moduli rassicuranti e ottimistici.
Leggeva e studiava con i compagni: della sua attività intellettuale rimase traccia nelle sue missive, come della lettura di Dostoevskij, commentato così il 1° maggio 1934: «È un accidente di scrittore che ti butta fra i piedi tutta la vita e tutta la gente, e quel che hai fatto e quel che avresti voluto fare. Per fortuna che qui l’attività quotidiana non permette né ossessi, né ossessioni. Proprio non è questa la casa dei morti. E neanche dei malati. Io continuo a star bene. Se continuo così, fra ricostituenti e ginnastica svedese finisco per uscire un po’ meglio di quanto non sia entrato» (Roma, Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Giancarlo Pajetta, s. 1927-39, sts. 1, Corrispondenza 1904-42). Sei anni più tardi citava a memoria, per descrivere il suo stato d’animo, un famoso discorso di Stalin (rivolto al comitato centrale del Partito comunista bolscevico dell’URSS nell’aprile 1929 contro le deviazioni opportunistiche e contenente un attacco durissimo contro Nikolaj Bucharin e ‘i destri’) nel quale «i pescatori del Volga» sorpresi dalla tempesta, si dividevano fra naufraghi disperati ed eroici marinai. «Io aggiungo molto modestamente – scriveva il 2 gennaio 1940 – che non è escluso si possa andare a fondo in tutte e due le maniere ma che comunque non sarà mai la prima quella che vorrei scegliere» (ibid.). La citazione, molto vicina all’originale ma non letterale (nel discorso di Stalin, il fiume non era il Volga ma lo Jenissei), illustrava bene le forme della circolazione orale di testi marxisti-leninisti nelle scuole carcerarie dei comunisti italiani. Ma una delle questioni più interessanti è quella della sua lettura di Benedetto Croce. Pajetta scrisse alla madre un’espressione che rimase simbolica di un generale atteggiamento di rifiuto di Croce e del crocianesimo, e cioè che non sarebbe uscito dal carcere «né tisico né crociano». Per quanto il 4 maggio 1933 avesse manifestato ai familiari l’intenzione di escludere la filosofia dai suoi studi in quanto «da vero torinese» si considerava «lontanissimo da ogni scienza speculativa» (ibid.), una sua lettera alla madre del 16 dicembre 1937 mostrava, in realtà, che almeno qualche rischio era stato corso: «Io vorrei adesso leggere l’Estetica di Croce, che è un autore che mi pare si debba conoscere. Ho letto in questi giorni Teoria e storia della storiografia e il libro mi è piaciuto. Mi par di essere nello stato di grazia di poter leggere Croce senza abbagliarmi di ogni luccichìo, ma anche senza rifiutare quel tanto di oro fino che c’è senza dubbio nei suoi libri» (ibid.). Attraverso Croce, molti giovani comunisti giungevano a leggere Antonio Labriola come confermano, oltre alla testimonianza di Pajetta, anche quelle di Paolo Bufalini e Giorgio Amendola. Al centro delle loro riflessioni era il problema di «capire che cosa fosse l’Italia del De Sanctis, del Cuoco, del Colletta, l’Italia del Labriola. E anche l’Italia degli ultimi anni, di Croce e di Gentile, estranei e nemici per certi aspetti ma che noi ricercavamo come elemento della realtà» (Carceri fasciste: scuola di antifascismo, in Trent’anni di storia italiana (1915-1945), lezioni con testimonianze presentate da F. Antonicelli, Torino 1961, p. 208).
Liberato dopo la caduta di Mussolini, riprese la sua attività politica nella riorganizzazione del Partito comunista. Ispettore per la Liguria e il Piemonte, svolse un ruolo non secondario nel processo di unificazione delle forze partigiane nel Corpo volontari della libertà. Capo di stato maggiore delle brigate Garibaldi e redattore del Combattente, fu di fatto, per l’attività svolta nel periodo in cui operò al Nord, il vicecomandante generale delle brigate. Il 14 novembre 1944, con Ferruccio Parri, Alfredo Pizzoni ed Edgardo Sogno, partì attraverso la Svizzera e la Francia alla volta del Sud, in rappresentanza del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) e si impegnò in una trattativa per ottenere dalle forze alleate il riconoscimento del CLNAI come soggetto di governo nell’Italia occupata. L’obiettivo fu raggiunto solo in parte e il Partito socialista italiano rifiutò di firmare l’accordo stipulato da Pajetta con Ivanoe Bonomi, ma si trattò comunque di un risultato di notevole rilievo. Rimasto al Sud, ebbe la responsabilità del movimento giovanile comunista e prese parte alle riunioni degli organi dirigenti del Partito comunista italiano (PCI).
Dopo la Liberazione fu nominato direttore dell’edizione milanese dell’Unità e segretario della federazione comunista di Milano, dove era giunto da Roma poco dopo il 25 aprile 1945. In quella veste, nel quadro delle acute tensioni politiche e sociali che si accompagnarono alla rottura dell’unità fra le forze antifasciste, fu protagonista nel 1947 del clamoroso episodio dell’occupazione della prefettura di Milano, punto culminante della protesta per l’allontanamento del prefetto della Resistenza, Ettore Troilo. Sembra che Pajetta avesse telefonato al ministro dell’Interno Mario Scelba comunicandogli che poteva contare su una prefettura in meno e che Palmiro Togliatti, segretario del PCI, avesse chiesto con sarcasmo al compagno di partito che cosa intendesse fare dopo avere assunto il controllo della prefettura di Milano.
Nel frattempo, si era sposato con la cugina Letizia Berrini, che aveva vissuto con lui i momenti più rischiosi della Resistenza e dalla quale ebbe tre figli, Gaspare, Giovanna e Luca. Se ne separò alla fine degli anni Cinquanta. Poi, dal 1962, condivise la sua esistenza con la scrittrice e giornalista Miriam Mafai.
Per quanto, nella sua lunga carriera politica, abbia diretto il quotidiano del PCI l’Unità solo per pochi anni (nel 1947 e poi fra il 1969 e il 1970), Pajetta ebbe una forte vena giornalistica di scrittore, polemista e propagandista. Accanto a Togliatti, fu la personalità comunista più conosciuta attraverso la televisione e la partecipazione, in particolare, alle discussioni del programma Tribuna politica. Affermò nella politica pubblica un suo stile irruento e scanzonato, aggressivo ma leale, quello proprio di un «totus politicus», intollerante come lo sono i forti moralisti, «aperto frequentatore degli avversari pur essendo il più sfacciato esaltatore dell’orgoglio comunista» (A. Reichlin, in l’Unità, 24 giugno 1981).
Un altro punto sul quale si misurò spesso fu quello dei ‘giovani’. Per le caratteristiche particolari della socializzazione comunista – una subcultura nella quale l’ingresso era gestito da un’organizzazione specializzata, la federazione giovanile comunista o il fronte della gioventù – il problema del rapporto del partito con i giovani era sempre stato assai rilevante. Pajetta, la cui esperienza politica era stata abbastanza precoce, si occupò spesso del problema che per molti decenni, quando la disciplina interna del movimento comunista non era mai messa in discussione, non aveva assunto carattere di acutezza. La questione prese, invece, rilievo all’inizio degli anni Sessanta, quando gli studenti delle scuole medie superiori e dell’università sembrarono testimoniare una crisi dell’istruzione pubblica e manifestarono un rinnovato sentimento antifascista. In quel panorama, Pajetta cominciò col criticare le banalità e i luoghi comuni coi quali, anche nel PCI, si giudicavano le culture giovanili: «Vi sono stati quelli – affermò nella riunione del comitato centrale del giugno 1961 – che hanno affermato che esiste una decadenza dei costumi, che si sono soffermati sui problemi della gioventù bruciata...» (Roma, Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Giancarlo Pajetta, s. 1958-69, sts. 7, Comitato centrale 1957-68, UA 3), mentre, in realtà, aggiunse, «non vivere come hanno vissuto i padri è la prima forma di reazione sociale, di rivolta elementare». I «giovani dei ju box (sic)» e dei «balli strani», potevano sembrare passivi destinatari «dei films o dei romanzi polizieschi o dei fumetti», ma esisteva anche una ricerca di prodotti di buona qualità culturale che rappresentavano «un elemento di interesse, di partecipazione, di dibattito».
Dopo la morte di Togliatti, che non aveva mai incoraggiato attitudini ‘specialistiche’ fra i membri del gruppo dirigente del PCI, si dedicò in modo particolare alle questioni internazionali della politica comunista e dal 1970 fu responsabile della commissione per la politica internazionale.
Fu sostenitore di un ‘nuovo internazionalismo’ e cioè di una politica internazionale che avrebbe dovuto superare le durezze della tradizione del Comintern e del Cominform, ed essere fondata sull’unità non fittizia del mondo comunista e sul riconoscimento delle diversità dei movimenti nazionali (anticolonialisti e antimperialisti) in diverse parti del mondo. Di quella visione erano punti centrali la solidarietà con i diversi tipi di ‘fronte’ di liberazione nazionale (dall’Algeria al Vietnam), e l’interesse verso un terzo mondo politico rappresentato nel Medio Oriente dai partiti Baath, dall’Organizazione per la liberazione della Palestina, dall’Egitto di Nasser. Il tema togliattiano dell’unità nella diversità fu da lui riproposto con costante fermezza. Accompagnò invece l’esperienza dell’eurocomunismo senza alcun entusiasmo. Di essa sottolineò il carattere limitato, ‘europeo‘, e quindi incapace di attrarre i movimenti e i partiti fuori dall’Europa ai quali egli guardava con particolare attenzione.
Nel PCI degli anni Settanta e Ottanta, Pajetta rappresentò una posizione di centro, non schierata con le ali ‘miglioriste’ o ‘di sinistra’ del partito e, da un punto di vista culturale, fu una figura tipica della tradizione del comunismo italiano: riconobbe, infatti, gli errori commessi negli anni dello stalinismo, ma ne parlò come se fossero frutto di tragiche necessità.
In una specie di estremismo storicistico – fin quasi al giustificazionismo – presentò sempre le contraddizioni della storia comunista come «non semplificabili» e accompagnate «da un profondo travaglio» (A. Reichlin, in l’Unità, 24 giugno 1981). Per lui il valore della storia del Comintern non poteva essere annullato «da vicende tragiche e dolorose», e alla fine la sua visione dell’esperienza del comunismo era segnata da «una fede così totale» (N. Bobbio, Il suo dramma: la crisi del comunismo, ibid., 14 settembre 1990) da precludergli la possibilità di giudizi realistici.
Per quarant’anni (dal 1946 a 1986) fu membro della direzione del PCI; fino al 1989 sedette nel comitato centrale e poi divenne presidente della commissione di garanzia e, infine, presidente del XIX congresso del PCI nel 1990. Fu, dal 1946 alla morte, eletto alla Camera dei deputati.
Visse addolorato il processo di estinzione del PCI e, per quanto fosse fra i presentatori di una mozione per il mantenimento del termine ‘comunista’ nel nome del partito e si esprimesse per la continuità delle vecchie regole di disciplina interna, affermò che avrebbe creato ‘la corrente dei senza corrente’ ma che, quando quell’evento fosse giunto, lui ne sarebbe stato il solo iscritto.
Morì a Roma il 13 settembre 1990, dopo aver preso parte a una festa dell’Unità.
Opere: si vedano, in particolare, oltre a quelle citate: La lunga marcia dell’internazionalismo, intervista di O. Cecchi, Roma 1978; Le crisi che ho vissuto. Budapest, Praga, Varsavia, ibid. 1982; Il ragazzo rosso va alla guerra, ibid. 1986.
Fonti e Bibl.: La Fondazione Istituto Gramsci di Roma conserva il Fondo Giancarlo Pajetta (1927-1990), in corso di ordinamento, che contiene tre serie archivistiche: 1927-39, 1958-69 e 1970-90. Per gli anni 1940-57 occorre altresì fare riferimento all’Archivio del PCI, anch’esso ivi conservato. La collaborazione di Pajetta alla stampa periodica comunista (in particolare l’Unità e Rinascita) è distribuita lungo tutto il corso della sua vita. Per un quadro della sua immagine pubblica all’indomani della scomparsa, si vedano le testimonianze su l’Unità del 14 settembre 1990. Per la sua intensa attività parlamentare, si veda, come punto di partenza: Portale storico della Camera dei deputati, http://storia.camera.it/deputato/gian-carlo-pajetta-19110624, che contiene i rinvii ai disegni di legge presentati e a molti interventi pronunciati in aula. Inoltre: Mamma P., a cura di G. Goria, Roma 1964; F. Andreucci, I leaders del PCI, Bergamo 1980, pp. 335-352; P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I-V, Torino 1967-75, ad ind.; R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VI, ibid. 1995, ad ind.; G. Gozzini - R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VII, ibid. 1998, ad ind.; M. Mafai, Botteghe Oscure, addio. Com’eravamo comunisti, Milano 1996; T. Detti, P. G., in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci - T. Detti, IV, Roma 1978, pp. 31-35.