Gravina, Gian Vincenzo
, Educato dal Caloprese ai principi del cartesianesimo, il G. porta nella sua opera di critico e teorico di poesia quel gusto della chiarezza e della ragionevolezza che caratterizza la nascente Arcadia, e al quale deve collegarsi il suo classicismo.
Già nel Ragionamento sopra l'Endimione del Guidi (1692) il G. riconosce solo a D., dopo Omero, il merito di aver abbracciato con la sua rappresentazione poetica tutte le condizioni dell'esistenza: " Largamente ancora spiegò le piume del suo ingegno Dante, il quale felicemente ardì di sollevar le forze del suo spirito all'alto disegno di descriver tutto l'Universo: sicché in un'opera non solamente le umane e le civili cose, ma le divine e le spirituali mirabilmente comprese ".
Ma è nel trattato Della ragion poetica (1708) che il pensiero del G. intorno a D. si precisa nei suoi termini essenziali. D. vi è accostato agli antichissimi poeti teologi Orfeo, Lino, Museo, Omero " che le cognizioni divine e naturali, per via delle allegorie e delle favole, accompagnate dall'armonia, ne' posteri tramandarono "; tuttavia rappresenta rispetto ad essi uno stadio ancora più avanzato di sapienza e di arte, poiché volle " la sua poesia consecrare colla religione e colla teologia rivelata e celeste, molto più degna della naturale de' filosofi e de' primi poeti ". Pertanto il suo mondo morale e religioso va studiato sia nel " significante ", cioè nelle immagini, sia nel " significato ", cioè nella verità. Si scorgerà allora che i tre stadi spirituali successivi alla morte (dannazione, purgazione, beatitudine) non sono che l'analogo figurativo dei tre stadi spirituali della mortal vita: il peccato, la riconquista della virtù con la connessa speranza della tranquillità, e infine la pace dello spirito, ottenuta col distacco dai sensi e con la cognizione di Dio. Allo stesso modo, ben intendendo il nesso significante-significato, è possibile dare alle figure del poema il loro vero valore, molte volte distinto da quello implicito nella loro realtà storica, come nel caso di Catone o delle sculture del Purgatorio, miste di esempi biblici e profani, e perfino di favole, " delle quali benché falso sia il significante, vero è nondimeno il senso significato, cioè la dottrina morale, ed il seme di virtù dentro la favola contenuto ".
La struttura poetica dell'opera dantesca obbedisce dunque a un criterio di alta razionalità (" Dante volle le parole alle cose sottoporre, e queste, quantunque minime, si studiò co' propri lor vocaboli esprimere, quando la ragione e la necessità e il fine suo il richiedea ") che subordina la sostanza e le forme della poesia allo scopo di liberare le menti dall'errore e dalla confusione (" per giugnere al vero non è necessario il caval Pegaseo che ci conduca per le nuvole, ma il filo d'Arianna che ci guidi sicuramente per entro il labirinto delle idee confuse "). In tal senso D. rinnova nell'epoca moderna la grande funzione d'incivilimento iniziata dai classici antichi e risponde, entro certi limiti, all'esigenza di chiarificazione intellettuale propugnata nel secolo XVIII dal cartesianesimo. La riserva, secondo il G., si giustifica tenendo presente il linguaggio dantesco, che ai moderni appare poco intelligibile. Ciò dipende certo dalla sublimità stessa della materia trattata (cfr. Regolamento degli studi di nobile e valorosa donna, cap. XXV), dal fatto che D. è poeta più " da scuola che da teatro ", rivolto a un'aristocrazia di lettori e non a tutto il popolo: sotto questo rispetto il suo stile " contorto acuto e penetrante " si distingue da quello di Omero " aperto, ondeggiante, spazioso ". Ma dipende anche dagli usi linguistici dei suoi continuatori, il Petrarca e il Boccaccio sopra gli altri, i quali non seppero o non vollero nutrire il volgare con gli stessi succhi e col medesimo artificio onde l'aveva egli allevato, e invece di mantenerlo nell'ampio giro che esso possedeva nelle scritture dantesche, lo ridussero in molto minor spazio: " Ma perché il Petrarca e il Boccaccio ed altri tutti le scienze e le materie gravi scrissero in latino, e la volgar lingua non applicarono se non che alle materie amorose... perciò le parole introdotte da Dante, le quali sono le più proprie e le più espressive, rimasero abbandonate dall'uso, con danno della nostra lingua e con oscurità di quel poema ". Nel qual discorso non importa tanto notare l'inaccettabilità della tesi quanto la capacità del G. di cogliere gli aspetti peculiari dello stile dantesco, la grandiosità della sua forza espressiva, il rilievo plastico di certe parole che, com'egli nota nel Ragionamento sopra l'Endimione, " spesso si cangiano nel proprio essere delle cose ".
Quest'ultima osservazione richiama alla mente il Vico, che allo stesso modo sentì la ‛ corposità ' delle immagini di D.; ma si tratta di uno dei pochi punti di contatto fra i due critici, ché anzi il G., interpretando la poesia in genere, e quella di D. in particolare, come espressione sensibile di una sapienza riposta, come grave e austero ammaestramento di verità nascosto sotto le spoglie della favola, si contrappone al Vico, che fa sorgere la poesia dalle passioni e non dalla sapienza e vede in D. il poeta di un'età barbara ed eroica, dotato di " colerico ingegno ", agitato da trasporti impetuosi e sentimenti vivissimi atti a recare " altissima maraviglia ". È però da osservare che, come il Vico sembra accogliere talora qualche suggerimento graviniano (si confronti la Prefazione a un Commento della D.C., stesa nel 1729, in cui lo scrittore fra le fonti sacre e profonde della poesia pone un " animo informato di virtù pubbliche e grandi, e sopra tutte di magnanimità e giustizia ") così il G. tempera in qualche caso il suo intellettualismo e il suo rigorismo etico-civile, e sa cogliere al di là dell'autorizzazione classica alcune proprietà caratteristiche della personalità dantesca (come quando nota che la sua frase è spesso governata da una fantasia creativa simile a quella biblica) nonché i rapporti e i condizionamenti reciproci fra il poeta e l'ambiente politico, religioso e culturale del suo tempo.
Bibl. - F. Balsano, La D.C. giudicata da G. V.G., città di Castello 1897; G. Zacchetti, La fama di D. in Italia nel sec. XVIII, Roma 1900; F. Sarappa, La critica di D. nel sec. XVIII, Nola 1901; Dantisti e dantofili dei secoli XVIII e XIX: contributo alla Storia della fortuna di D., Firenze 1901, fasc. I; M. Barbi, La fama di D. nel Settecento, in " Bull. " IX (1901-02) 1-18 (poi in Problemi I 455-472); B. Barillari, Il giudizio intorno a D. di G.V.G., in " Calabria Nobilissima " IV (1950) 81-86 (poi in La posizione el'esigenza del G. e altri saggi, Torino 1953; A. Quondam, Cultura e ideologia in G.V.G., Milano 1968.