BONINCONTRO (Bonscontro o Boniscontro), Gian Guglielmo
Nacque da Biagio a Palermo in data difficilmente precisabile, ma compresa, come sembra di poter dedurre dagli ulteriori dati biografici, nel decennio 1520-30. All'età di quindici anni circa soggiornò per qualche tempo a Genova: ne rimane esplicita attestazione in una sua poesia giocosa, il Capitolo in lode della Torta; poisitrasferì a Ferrara per studiarvi diritto e si addottorò il 9 luglio 1545. Da questa data fino al 1555 non si hanno più notizie del Bonincontro. Il 25 febbraio di quell'anno lo zio Ambrogio Panicola lo nominava in testamento erede universale dei propri beni con la clausola che "in caso di qualsivoglia delitto che commettesse, sei mesi innanti c'havesse fatto e pensato tal delitto s'intendesse haver caduto della detta eredità et sia erede universale il sopradetto Ludovico Boniscontro", cioè un altro nipote del Panicola. Nel 1958 figura a Palermo in qualità di "advocato de li carcerati poveri et requisiti del S. Officio". Dovette ricoprire l'ufficio sino al giugno del 1561.
Sei anni più tardi (14 giugno 1567) il fisco dell'Inquisizione procedeva all'inventario di tutti i beni del B., onde procedere all'addebito di spese per il vitto che il B. consumava in prigione. Il documento ufficiale che testimonia della cattura del B. specifica la causa del provvedimento (l'avere il B. approvato alcune proposizioni di Lutero per quel che riguardava l'intercessione dei santi) ed esplicitamente accenna al fatto che l'anno precedente alla cattura il B. fu giudice presso la Gran Corte. Sia la causa della condanna da ricercarsi nelle idee luterane del B. (che, del resto, a Ferrara doveva aver seguito le lezioni di Andrea Alciato e forse conobbe Giorgio Siculo), ovvero nell'antagonismo tra l'Inquisitore di Sicilia Bezerra de la Quadra e il Gran Consiglio, sta di fatto che il B. fu incarcerato e poi condannato a vestire l'"abito" per dieci anni.
La condanna, particolarmente infamante e tale da precludere al B. ogni possibilità di riabilitazione, fu tuttavia sopportata dall'ex magistrato con una rassegnazione e una tale volontà di rivincita morale da costituire con l'esempio della sua vita un modello del tutto originale nella storia delle persecuzioni religiose in Sicilia. Per quanto gli fosse lungamente contestata l'eredità lasciatagli da Antonio Panicola, pure egli riuscì a salvare un piccolo territorio in Serra di Malopera, presso Palermo, ove si trasferì con la moglie conducendo vita arcadica tra l'ammirazione e lo stupore dei contemporanei. Ancora Vincenzo Di Giovanni commentava l'episodio nel Palermo ristorato con un accento di inconfessata benevolenza: "Era di umor filosofico, si vestiva da pastore e da ninfa faceva vestir sua moglie; e sonando ora sue ciaramelle, ora i flauti a guisa di pastore, con sua moglie si prendeva diletto e spasso; cosa non solamente di gusto a lui, ma di sommo piacere a chi lo vedeva e sentiva".
Dal suo pastorale eremo il B. dette inizio, o intensificò (se è da credere che alcuni versi giovanili risalgono al periodo del soggiorno ferrarese) una notevole produzione poetica, in lingua e in dialetto, con cui accentuava mordacemente la nuova - involontaria, ma certo non respinta - situazione di arcade, satireggiava l'Inquisizione e, in genere, l'equivoco fervore del clero siciliano, profondeva elogi alla vita pastorale, lodava iperbolicamente oggetti infimi dell'esistenza quotidiana in stile bernesco, e al Berni si accostò anche in alcune lettere che, più delle poesie, sottolineano l'umore beffardo e sarcastico dello scrittore.
Per lungo tempo tale produzione è stata ritenuta, nel complesso, di un Mariano Bonincontro che il Garufi identificò come un fratello di Gian Guglielmo. Già il Giraldi Cintio, fonte autorevole per quel che concerne l'ambiente culturale ferrarese, parlava di un "messer Mariano Bonincontro da Palermo di acuto e vivace ingegno, il quale a pochi anni, si fe' qui in Ferrara molto onorevolmente dottore in legge. Questi per pigliarsi spasso di simili ingegni, faceva, come sapete, i più belli sonetti del mondo, quanto alle voci ed alle rime, i quali non dicevano cosa alcuna ed erano senza sentimento; poi gli lasciava uscire sotto il nome di qualche valent'uomo, ed egli stesso si frapponeva fra gli altri, e mostrava di volervi far sopra discorsi, dicendo che era meraviglioso il senso loro. Laonde induceva ognuno a farvi sopra fantasie ed opinioni".
Notizie molto simili forniva il Mongitore a proposito di "Marianus Bonincontrus nobilis panormitanus iurisconsultus celebris" ("Ingenii eminentissimi aciem poesis tum Latinae et Etruscae, tum vernaculae, egregie addixit, et in utraque mirum in modum claruit"), e gli eruditi settecenteschi continuarono ad assegnare a Mariano Bonincontro il piccolo corpus di poesie e di prose che il Mongitore aveva segnalato come opera sua anche in base all'attribuzione di alcuni tardi manoscritti.
Ancora O. Coppoler nel 1905 non esitò ad assegnare a Mariano Bonincontro un discreto nucleo di opere (centonove ottave siciliane, un sonetto siciliano, una barzelletta, una pastorale, due ottave italiane, due sonetti italiani, un capitolo e tre lettere, in parte tratte dai codici palermitani - di cui però il più antico non è anteriore al secolo XVII -, in parte trascritte dalle stampe anche queste non anteriori al XVII secolo mentre è significativo che l'unica silloge stampata a Palermo vivente l'autore per volere dell'Accademia, di cui il B. avrebbe fatto parte, non contenesse rime di Mariano (Rime della Accademia degli Accesi di Palermo, Palermo, per Giovan Mattheo Mayda, 1571).
Questa evidente contraddizione venne sanata dal Garufi, il quale nel corso delle ricerche rivolte alla storia dell'Inquisizione in Sicilia venne a scoprire che Mariano altri non era che un fratello del B., e per di più laureato in diritto a Ferrara non molto tempo dopo Gian Guglielmo (25 luglio 1547). "Il fatto che i due fratelli a distanza di due anni si laurearono a Ferrara - concludeva il Garufi - rende attendibilissimo il sospetto che il Giraldi Cintio e, dietro lui, tutti gli eruditi siciliani sian caduti in equivoco attribuendo a Mariano le doti poetiche spiccatissime di Gian Guglielmo; ma è anche probabilissimo che entrambi abbiano coltivato le Muse e che i posteri abbiano attribuito a Mariano anche tutto ciò che uscì dalla penna del luterano condannato dall'Inquisizione". Comunque sarebbe stata proprio la forte personalità del B. come eretico ad escludere il suo nome dalla raccolta di Rime degli Accesi "ricordando che di quell'Accademia, che si riuniva nel convento di S. Domenico, furon parte grandissima Argisto Giuffredi notaro dell'Inquisizione e Don Gerardo Spada, governatore di Morreale".
In definitiva, si tratta di un argomento ex silentio quello addotto dal Garufi, che lascia di per sé ancora adito a varie e diverse soluzioni riguardo al problema dell'attribuzione dell'intero corpus di rime, o di gran parte di esse. Perciò lo stesso Garufi procedeva con molta cautela all'elencazione delle rime e delle lettere che potevano essere con maggiore attendibilità assegnate al B., sottolineando quei luoghi ove i più evidenti riferimenti biografici avrebbero potuto meglio adattarsi alla singolare vicenda dell'eretico-arcade.
Sembrò in tal modo che si potesse assegnare al B. il Capitolo in lode della Torta, composto forse tra l'ottobre e il novembre del 1567, per una serie di arguzie che trovano riscontro in una lettera del B. indirizzata il 10 dic. 1571 al vescovo di Cefalù, Giovanni Bellavia. Similmente il Garufi pensò che si potesse attribuire al B. l'ottava "Mentre la scupa è nova, lu patruni", ove l'autore inveisce contro le spie che probabilmente lo denunciarono al tribunale dell'Inquisizione; l'altra "Un asinu na vota s'insaccau" per una frecciata abbastanza evidente contro il Bezerra in persona, caduto nel 1572 in disgrazia in seguito all'inchiesta del visitatore generale Quintanilla, e inoltre l'ottava "Un mulu grassu pri tropp'orgiu usau", che contiene, come le precedenti, mordaci allusioni ai fatti che dovettero condurre il B. a sostenere l'accusa di eretico. Forse anche sua è la Pastorale... reprobando la conversatione delle Città, dieci ottave che ben si adatterebbero all'ideale di vita del B., quale appare dalla testimonianza di Vincenzo Di Giovanni, ma che per la loro estrema genericità sembrano sfuggire ad ogni tentativo di più sicura attribuzione.
Più sicuramente riferibili al B. sono altre due ottave: "Senza lu mundualdu nun pò fari" e "Si ben de jure non su obligatu", che, indirizzata al Senato di Palermo, contiene un accenno al mal di podagra, di cui egli risulta anche afflitto in una lettera del '75, e allude inoltre a un oscuro motivo per cui lo scrittore sarebbe costretto a tenersi celato, lontano dal consorzio umano.
Qualche dubbio nutriva invece il Garufi circa l'assegnazione al B. del sonetto "Un regnu in paci, in guerra ogni momentu" indirizzato "a lu Signori Duca di Terranova per la morte de lu Signuri Don Ferranti so figghiu", mentre del B. riteneva l'ottava "Dimmi, o Menarca di l'ingegni fini", diretta al Giuffredi nel 1576 contro i funzionari dell'Inquisizione che avrebbero avuto parte nella sua condanna.
Nel pastorale eremo di Serra di Malopera il B. morì in data imprecisata, forse tra la fine del 1575 e l'inizio del 1576.
Il Garufi ha pure rivendicato al B. un gruppetto di lettere, una delle quali (datata 1º genn. 1568 e indirizzata al vescovo di Cefalù) costituisce un saporoso esempio di prosa satirica, piena di sottintesi e di allusioni alla propria condizione, di battute pungenti, di incisi apparentemente divaganti, di giochi verbali sottolineati da un bifrontismo linguistico che va dal latino dottorale al linguaggio della familiare e arguta conversazione. Nella cifra della prosa, senz'altro più congeniale al B., egli riesce ad esprimere quel distacco dalla realtà della vita civile - e insieme quella volontà di rivincita nutrita contro di essa - che invano cerca di conseguire nelle rime, troppo letterarie, se non altro per l'indifferenza che lo scrittore programmaticamente ostenta rispetto al dramma della propria condizione.
Una considerazione a parte esigono le singole ottave, in lingua o in dialetto, ove i modi sarcastici dello scrittore si esprimono, talvolta felicemente, in frizzi di sapore proverbiale e popolaresco. Sono questi i tratti tipici e, tutto sommato, più incisivi di una poesia diseguale, ma in genere condotta con scarsa originalità rispetto al modello bernesco riproposto secondo la pigra consuetudine dei continuatori.
Fonti e Bibl.: G. B. Giraldi Cintio, Discorso sul comporre dei Romanzi,delle Tragedie e delle Commedie, in Scritti estetici, Milano 1864, pp. 89 s.; V. Di Giovanni, Palermo ristorato, in Bibl. stor. e lett. di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, I, Palermo 1876, p. 93; A. Mongitore, Biblioteca sicula, II, Palermo 1708, p. 41; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, pp. 2396 ss.; G. Pardi, Titoli dottorali conferiti allo Studio di Ferrara nei secoli XV e XVI, Lucca 1901, p. 138; G. Mazzoni, Glorie e memorie dell'arte e della civiltà d'Italia, Firenze 1905, pp. 139 ss.; O. Coppoler, Un poeta bizzarro del Cinquecento (Mariano Bonincontro da Palermo), in Arch. stor. siciliano, n.s., XXX (1905), 1, pp. 1 ss.; C. A. Garufi, Contributo alla storia dell'Inquisizione in Sicilia nei secc. XVI e XVII,ibid., n.s., XL (1916), 2-3, pp. 349 ss.; S. Caponetto, Origini e caratteri della Riforma in Sicilia, in Rinascimento, VII (1956), 2, pp. 262 s.; F.Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., p. 182.