PISAPIA, Gian Domenico
PISAPIA, Gian Domenico. – Nacque a Caserta il 22 febbraio 1915 da Giovanni, direttore di banca, e da Gemma Orlandella. Si laureò in giurisprudenza a Napoli nel 1935, poco più che ventenne, per proseguire negli studi, che gli consentirono di conseguire una seconda laurea nel 1938, in filosofia. Sposò Margherita Agnoletto, da cui ebbe i figli Donatella, Guido, Giovannino, Giuliano, Dolores, Giorgio e Giuseppe. Il figlio Giuliano, nato a Milano nel 1949, avvocato penalista, fu deputato e nel 2011 è stato eletto sindaco di Milano.
La sua vocazione per la ricerca scientifica nel diritto penale si manifestò ben presto in modo così intenso da portarlo in pochi anni alla pubblicazione di due monografie: Il reato continuato, del 1938, e Violenza, minaccia e inganno nel diritto penale, del 1940.
Superato l’esame di ammissione alla professione forense con il massimo dei voti, tanto da vincere il premio Marghieri nel 1938, dopo vari viaggi all’estero in cui affinò la conoscenza del tedesco e del francese, conseguendo anche un diploma per l’insegnamento dell’ungherese, entrò nell’Avvocatura dello Stato, dove esercitò le sue funzioni fino a quando fu costretto a dimettersi per aver rifiutato fedeltà al regime fascista.
Trasferitosi a Milano, si dedicò con sempre maggior impegno allo studio del diritto penale entrando in contatto con Giacomo Delitala, pur senza rescindere il legame con la figura carismatica di Alfredo De Marsico. Il suo ingresso nel mondo accademico risale al 1953, quando fu chiamato alla cattedra di diritto penale nell’Università di Modena. Professore ordinario di istituzioni di diritto penale nell’Università statale di Milano dal 1961, nello stesso ateneo insegnò procedura penale dal 1963 al 1985, tenendo anche come incaricato, per qualche anno, il corso di criminologia, materia da lui ritenuta un necessario completamento della formazione del penalista.
La personalità di Pisapia rifletteva quella molteplicità di esperienze e culture, dalla dogmatica giuridica all’arte forense, che avevano contrassegnato le figure di alcuni penalisti dell’Italia liberale, come Francesco Carrara e Luigi Lucchini. Anche in Pisapia convivevano le due anime dello studioso e dell’avvocato, così da rendere l’impegno teorico una premessa indispensabile per sperimentare sul terreno processuale soluzioni capaci di offrire un equilibrio tra esigenze repressive e garanzie individuali. Al riguardo è stato detto con efficacia che nel suo operare Pisapia ha saputo esprimere «la vitalità di un raccordo e l’insuperabile simbiosi di due attività tra loro complementari» (Siracusano, 2000, p. 2).
La sua opera di maggior respiro sistematico è la Introduzione allo studio della parte speciale del diritto penale (1945), volume pubblicato anche in lingua spagnola, nel quale Pisapia rivitalizzò la teoria del bene giuridico facendo leva sulle norme costituzionali, considerate come «direttive programmatiche di tutela potenzialmente vincolata» (p. 15).
Il suo percorso di giurista proteso a superare il divorzio tra teoria e pratica del diritto penale sfociò poi in due ampi studi, in cui riuscì a dare risposte esaurienti ai problemi applicativi riguardanti due aree penalistiche di grande rilevanza. I volumi Delitti contro il patrimonio (1951) e Delitti contro la famiglia (1953) offrono preziose chiavi interpretative ai fini dell’applicazione delle norme oggetto di analisi.
Pisapia fu per più di quarant’anni uno degli avvocati penalisti più noti e stimati in tutte le sedi giudiziarie italiane. Il suo stile «asciutto ed essenziale», capace di affascinare i magistrati che lo ascoltavano per la serietà, la sobrietà e la chiarezza del suo eloquio (Vassalli, 2000, p. 5), lo fece ben presto emergere in primo piano sulla scena professionale forense. Numerosi i processi di rilievo mediatico che lo videro protagonista come difensore in casi delicati e drammatici come quelli degli studenti del liceo Parini di Milano, chiamati a rispondere in sede penale per aver pubblicato nel 1966 sul giornale scolastico La Zanzara un’inchiesta sulla sessualità, di Gianni Guido, accusato del delitto del Circeo avvenuto nel 1975, e del banchiere Roberto Calvi imputato per le vicende del Banco Ambrosiano (1981).
Di grande risonanza anche la sua difesa di Eugenio Scalfari per il ‘caso Sifar’ (processo del 1967) e il caso dell’omicidio del benzinaio di piazzale Lotto a Milano (1967), per il quale Pisapia chiese di essere sentito come teste in corte d’assise in favore dell’imputato, il ‘biondino’ Pasquale Virgilio, per averne appreso l’innocenza da un suo assistito. La corte si convinse soltanto sulla base della parola di Pisapia, che non poté fare i nomi dei colpevoli ma affermò di aver raccolto la confessione sul vero responsabile (Rosaspina, 1995, p. 10).
Stimolato dalla sua esperienza di avvocato, Pisapia dedicò la seconda fase della sua attività scientifica allo studio della procedura penale, prima nella monografia Il segreto istruttorio nel processo penale (1960) e poi in vari scritti sulla carcerazione preventiva e sul diritto di difesa. Coltivò orizzonti interpretativi fortemente ancorati ai valori del garantismo schierandosi contro tutte le distorsioni applicative della custodia cautelare e contro gli abusi del ‘pentitismo’. Il suo libro per l’insegnamento universitario Compendio di procedura penale, che ha avuto cinque edizioni, testimonia della sua adesione a quei valori.
Fondatore nel 1983 con Giovanni Conso della Associazione tra gli studiosi del processo penale, ora intitolata al suo nome, concluse il suo itinerario di studioso e avvocato firmando il progetto del codice di procedura penale approvato nel 1988 ed entrato in vigore il 24 ottobre 1989.
La commissione ministeriale incaricata di redigere le nuove norme sulla base della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 fu da lui presieduta e guidata non solo con l’esperienza maturata in tanti anni di studio e di vita professionale, ma anche con la sua impareggiabile arte di promuovere il confronto aperto tra le diverse componenti del gruppo di lavoro. Solo in quel clima di virtuoso pluralismo è stato possibile dar vita al primo e finora unico codice dell’Italia repubblicana, superando l’eredità della cultura inquisitoria.
Rivendicando il primato del garantismo, Pisapia replicò agli oppositori e ai critici del modello accusatorio, recepito dal codice del 1989 e in qualche parte mutuato dall’esperienza del common law, che «non è compito dei giudici combattere la criminalità, ma solo applicare imparzialmente la legge penale, condannando i colpevoli e assolvendo gli innocenti con le garanzie previste dal codice ed in modo uguale per tutti» (In difesa del nuovo codice, in La Repubblica, 10 agosto 1990, p. 8).
Morì a Milano il 25 febbraio 1995.
Fonti e Bibl.: E. Amodio, G.D. P.: un maestro di antiformalismo, in Cassazione penale, 1995, p. 781; G. Neppi Modona, Le doti umane del grande giurista, in La Repubblica.it, 26 febbraio 1995; E. Rosaspina, Addio al padre del nuovo processo, in Corriere della sera, 26 febbraio 1995, p. 10; R. Salemi, Come salvai i ragazzi della Zanzara, in La Domenica del Corriere, 1° ottobre 1987, p. 66; G. Vassalli, Presentazione, in Studi in ricordo di G.D. P., I, Milano 2000, p. 5; D. Siracusano, Ricordo di G.D. P., ibid., II, pp. 1 s.; E. Amodio, Il giusto equilibrio da penalista e quel sorriso ereditato dal padre, in Corriere della sera, 1° giugno 2011, p. 4; Id., G.D. P., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), II, Bologna 2013, p. 1602.