BRIGNOLE, Gian Carlo
Nacque a Genova il 26 nov. 1761 secondogenito di Giacomo Maria ultimo doge della Repubblica genovese e di Barbara Durazzo, figlia del doge Marcello. Nel 1796 il B., come la maggior parte dei giovani nobili destinati agli uffici pubblici, entrò a far parte della magistratura dei Cinque padri del Comune, fino al giugno del 1797, quando, abolite dal governo provvisorio filofrancese le vecchie magistrature, all'ufficio dei Padri del Comune venne sostituita la Municipalità. Le agitazioni popolari avevano conosciuto la prima esplosione il 21 e il 22 maggio del 1797: nel clima di guerra civile che si era determinato tra i rivoluzionari e le schiere popolari dei "Viva Maria", guidate da aristocratici, tra cui il B., questi assunse poco dopo, insieme ad altri nobili moderati come Girolamo Serra e Gian Luca e Giuseppe Durazzo, un ruolo di mediatore e riuscì a far mettere in salvo l'ambasciatore francese Faipoult sorpreso da un assalto di controrivoluzionari. In quei giorni tumultuosi, essendo state organizzate dallo stesso doge suo padre delle deputazioni di patrizi "amati dal popolo" presso i vari quartieri della città, il B. fu assegnato al vulcanico quartiere del molo, insieme al Serra, a Franco Grimaldi e al reazionario capo dei "Viva Maria", Nicolò Pinelli Cattaneo. L'atteggiamento notoriamente moderato del B., tuttavia, non era tale da fargli riscuotere la fiducia dei rivoluzionari: così, caduto in Genova il vecchio regime nel giugno 1797, scoppiata ai primi di settembre una nuova sommossa popolare controrivoluzionaria, il B. venne sospettato di connivenza con i "Viva Maria", arrestato e condannato dalla commissione criminale istituita dal nuovo governo provvisorio all'esilio perpetuo, come reo di essere stato a conoscenza dei progetti della controrivoluzione e di non averli immediatamente denunciati. Pare che la condanna fosse stata lieve, relativamente al momento di emergenza, più che per la mancanza di prove concrete, per il prevalere, all'interno della commissione criminale, di una corrente moderata che ebbe l'appoggio di Napoleone; sta di fatto che il B., immediatamente dopo la scarcerazione, si trasferì a Parigi, dove rimase alcuni anni. Tuttavia a Genova continuavano a circolare voci che lo indicavano come un possibile cospiratore reazionario, tanto che egli stesso, nel 1798-1799, giunse a chiedere a più riprese a Luigi Lupi, inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Direttorio esecutivo della Repubblica ligure a Parigi, di essere costantemente sorvegliato, essendo desideroso di meritare "l'approvazione e la benevolenza" del nuovo governo. E tale scopo dovette conseguire, perché nel 1810 lo ritroviamo a Genova pienamente inserito tra la locale nobiltà filonapoleonica, e a suo modo partecipe delle iniziative culturali ispirate ai modelli francesi.
Il B. era infatti tra i principali membri della colonia ligure della Accademia italiana, che, negli anni dell'Impero, aveva mutato il suo nome in quello più pretenzioso di Società italiana di scienze, lettere ed arti e aveva scelto come sede dei propri convegni palazzo Rosso, o Brignole Sale: in realtà era un'accolta di verseggiatori che comprendeva, oltre il B., Felice Romani, Giancarlo Di Negro e molte donne, tra cui Anna Pieri Brignole Sale, che era stata tra le più accese fautrici della rivolta giacobina, ma che aveva finito col diventare, nel 1810, dama di palazzo dell'imperatrice. Si ignora se, oltre a questa letteraria, il B. abbia svolto altre attività in tali anni: comunque, posteriori relazioni della polizia sabauda escludono che egli abbia ricoperto qualche carica durante il governo francese; probabilmente si limitò a vivere con la cospicua rendita di 70.000 lire che le sue vaste proprietà gli permettevano, evitando l'impegno politico vero e proprio e riacquistando presso i suoi concittadini benpensanti stima e reputazione di uomo moderato.
Così, nel 1814, caduto Napoleone e passata Genova nelle mani di William Bentinck, il B. fu tra i primi nobili genovesi ad essere consultato dal lord inglese per la formazione del governo provvisorio. Il B., dopo aver dato la propria accettazione, rifiutò di entrarvi, e di lì a poco assunse invece la carica di presidente della giunta cui era stato affidato il delicatissimo incarico di apportare le riforme necessarie alla costituzione del 1576, presa come base del nuovo ordinamento politico.
Il problema, e il contrasto tra i membri di tale giunta, che tenne la sua prima seduta il 9 maggio, era rappresentato dal diritto al governo, che i giureconsulti Perasso e Ardizzoni opinavano basato sopra il censo, e alcuni nobili, capeggiati dal B., sul privilegio ereditario della nobiltà. Dopo contrasti e discussioni ebbe la meglio, come era logico in relazione ai tempi, la corrente censitaria, e l'11 giugno le modifiche apportate alla legge del 1576 vennero trascritte nel registro di Stato.
Deluso da questo insuccesso, nell'agosto del 1814 il B. si dimise dal governo provvisorio ed entrò a far parte di una commissione che, presieduta da Agostino Pareto e formata, col B., da Marcello Durazzo, Giuseppe Cavagnaro e Luigi Morro, si era assunto l'incarico di studiare la possibile ricostituzione del Banco di S. Giorgio, vero epicentro della potenza dell'antica aristocrazia genovese: tale ricostituzione venne deliberata infatti con legge del 2 dic. 1814. Ma ancora una volta la carriera politica del B. doveva conoscere una svolta in relazione agli avvenimenti che trasformarono la struttura stessa della Repubblica: il Congresso di Vienna già il 12 novembre ne aveva decretato la fine con l'annessione al Piemonte; il 26 dicembre tutto il governo provvisorio rassegnava le dimissioni e il 7 gennaio successivo assisteva alla presa di poteri di Ignazio Thaon di Revel in nome del re Vittorio Emanuele I. Nella cura che il Revel mise subito a creare un gruppo di partigiani della dinastia sabauda tra i nobili e i borghesi, l'attenzione non poteva non cadere sul B., i cui atteggiamenti aristocratici e conservatori sembravano i più consoni alla nuova linea politica, nonostante fosse noto il suo ideale attaccamento all'indipendenza della Repubblica. Anzi, poiché il re inizialmente pareva propenso a istituire a Genova una reggenza provvisoria, il B. venne subito segnalato, insieme con Ippolito Durazzo, Agostino Fieschi e Paolo Gerolamo Pallavicini e altri pochi, come uno dei più idonei a far parte di tale ufficio. Annullato tale progetto, al B. venne comunque conferita, nel gennaio del 1815, la carica onorifica di gentiluomo di camera di sua maestà. Il 29 apr. 1815, nonostante l'opposizione del Vidua, per le insistenze del Collegno e l'appoggio personale del re, il B. fu nominato ministro di Stato.
Negli ambienti liberaleggianti si insinuava intanto che tale nomina fosse dovuta all'atteggiamento reazionario assunto dal B. nei confronti della riorganizzazione della università di Genova, allorché, entrato a far parte della deputazione che, istituita fin dal 24 sett. 1814, avrebbe dovuto riformare i pubblici studi e amministrare i beni dei gesuiti, cominciò a svolgere una politica di eccessivo ossequio alle direttive sabaude. In effecti, con decreto del 19 maggio 1816, il B. fu messo a capo della università e, avocando a sé ogni potere decisionale ed esecutivo, ridusse ad organismo puramente formale la deputazione. Per prima cosa introdusse il triste sistema dei biglietti regi, in virtù dei quali, per conseguire la laurea, i candidati raccomandati dal re venivano dispensati da ogni obbligo di frequenza e di esami; quindi richiamò alle man ioni educative gli Ordini religiosi che ne erano stati allontanati e affidò la direzione del liceo civico ai padri somaschi, sottraendola al municipio, cui prima competeva qualsiasi diritto di nomina. Ancora più chiaramente soggetto alle direttive sabaude il comportamento del B. si palesò nel risolvere il problema della conduzione dell'università. Da tempo i gesuiti premevano per riottenerla, e avevano anche l'appoggio del re, mentre la deputazione stava elaborando un progetto di riforma che avrebbe laicizzato e democratizzato l'ordinamento universitario: ma il 5 ag. 1816 giunse alla deputazione l'ordine di consegnare nelle mani del padre Orazio Montesisto Vanni, procuratore della Compagnia di Gesù, l'università, i luoghi annessi e tutte le sue rendite. Vane furono le proteste e le richieste di intercessione rivolte dai colleghi genovesi al B., che si trovava in quel periodo a Torino, essendo stato appena eletto reggente al magistrato della Riforma: anzi il nuovo ordinamento emanato dal re il 23 ag. 1816 rafforzava ulteriormente il carattere clericale dell'università di Genova, tanto che il conferimento della laurea, anziché esser devoluto ai collegi, fu attribuito all'arcivescovo e al suo vicario. Nonostante l'aperta violazione di un diritto che Genova faceva risalire a una bolla papale del 1471, il B. non si era dunque opposto alle direttive sovrane.
La politica annessionistica piemontese nei confronti di Genova stava esercitandosi intanto anche nel campo economico-commerciale, facendo entrare in vigore un sistema doganale che avrebbe portato a un sicuro soffocamento del porto ligure, cui l'annessione al Piemonte e la politica protezionistica degli Asburgo-Lorena, signori del Lombardo-Veneto, e perciò di Venezia e di Trieste, avevano già esizialmente sottratto lo storico asse commerciale Genova-Milano. La Camera di commercio delcapoluogo ligure si rivolse, in quei mesi tra la fine del 1816 e la prima metà del 1817, più volte e con toni drammatici al B. a Torino affinché difendesse gli interessi economici genovesi, prospettandogli, le provvidenze che sarebbero state invece necessarie nei settori dell'industria cartaria, della produzione della seta e della lana, e in quello primario del traffico portuale. Il B. si adoperò con zelo, anche se inizialmente con scarso successo, nella difesa di questi interessi, dimostrando tale conoscenza dei problemi economici sopravvenuti con l'unificazione ligure-piemontese da venire nominato, il 3 giugno 1817, ministro delle Finanze. Subito dopo la sua elezione, nonostante l'opposizione del Borgarelli e con rappoggio del Baratta, direttore delle dogane e genovese anch'egli, il 17 ag. 1817 vennero abolite le dogane intermedie tra Liguria e Piemonte ed introdotto invece un dazio che colpiva le navi sarde all'ingresso del porto di Genova. Il B. conservò la carica di minimo delle Finanze fino al 25 febbr. 1825, prima sotto il re Vittorio Emanuele I e poi sotto Carlo Felice, che lo aveva riconfennato con biglietto del 31 ott. 1821. Aveva conservato anche la carica di direttore delle due università fino al 1818, allorché venne sostituito a Torino da Prospero Balbo e a Genova da Nicolò Grillo Cattanei: quando poi quest'ultimo nel 1824 si dimise, il B. gli subentrò nuovamente, restando poi a capo deiruniversità genovese fino al 1829; inoltre, dall'agosto 1825, scaduta la sua carica di ministro delle Finanze, venne rieletto a capo della Riforma degli studi.
Nel gennaio 1821 il B., che già nel 1819-20 aveva collaborato con P. Balbo nel suo tentativo di attuare un ampio rinnovamento legislativo, approvava i moderati progetti costituzionali dello stesso. Durante i moti carbonari fu però a Modena presso il re Carlo Felice, di cui divenne uno dei più ascoltati consiglieri. Comunque, passato il momento di pericolo e ritornato con la corte a Torino, egli sembrò tornare ai precedenti, più tolleranti atteggiamenti, tanto che nell'anno 1826 si adoperò persino per ottenere dal sovrano un regio biglietto che convalidava gli studi di Giuseppe Mazzini e di altri giovani patrioti che erano stati sospesi dall'università. Tale atto non deve però far pensare a un B. conquistato dalle idee nuove del Risorgimento nazionale: tanto è vero che due anni dopo, nel novembre del 1828, fu proprio lui a far presente al conte Barbaroux, segretario di gabinetto del re, che in quel momento si trovava a Genova, la necessità di sopprimere quell'Indicatore genovese che, sotto l'autodefinizione di "Foglio commerciale, d'avvisi, d'industria, e di varietà", andava raccogliendo le voci e le critiche degli oppositori e dei liberi pensatori, tra cui quella del giovane Mazzini. Inoltre il B., che dal 1824 0 1825 era membro autorevole dell'"Amicizia" di Torino (la nota organizzazione segreta cattolico-reazionaria), fece rimuovere dall'insegnamento di teologia dell'università G. M. Dettori, reo d'aver divulgato massime antiromane.
Nell'ottobre del 1829 il B. presentava le dimissioni da capo della Riforma degli studi, ritornando definitivamente a Genova, dove preferì ricoprire, a causa dell'età, cariche meno impegnative: fu prima tra i sindaci della città e poi, concludendo in maniera esemplare la sua carriera di aristocratico genovese e di moderato "vecchia maniera", presidente dell'albergo dei poveri, l'annosa istituzione fondata dai suoi antenati in cui la pietà si fondeva con il paternalismo economico dell'antica Repubblica.
Il B. non mancò tuttavia di continuare a esercitare la sua influenza nei momenti cruciali della vita pubblica: così, anche se documenti posteriori hanno indicato la sua totale estraneità alla morte di Iacopo Ruffini, la voce popolare lo indicò, dopo lo scoppio e la soppressione della cospirazione mazziniana del 1831, come colui che indusse un suo ex servitore, padre del medico Castagnino, a fare svelare dal figlio, arrestato, le fila della congiura; la delazione avrebbe appunto indicato in Iacopo Ruffini il capo della congiura a Genova e lo avrebbe spinto al suicidio. È invece certa l'opera di previdenza e di soccorso svolta dal B. in occasione dell'epidemia di colera che colpì Genova nell'estate del 1835. Fin dal 1831, avuta notizia dei primi casi di malattia in Oriente e in Europa, per migliorare le condizioni sanitarie della città, il B., insieme ad altrinobili ed alcuni medici, tra cui il padre di Mazzini, aveva organizzato una associazione, intitolata a Nostra Signora della Provvidenza, per l'assistenza e la cura a domicilio dei malati poveri: per l'opera da lui svolta, il 24 ott. 1835 ricevette un solenne encomio dal sovrano, che si era recato a visitare Genova alla fine dell'epidemia.
Il 3 apr. 1848 Carlo Alberto nominò il B. tra i primi senatori del Parlamento subalpino, ma egli rifiutò la carica giustificandosi con la tarda età. Morì a Genova il 22 apr. 1849.
Lasciò due figli maschi nati dal matrimonio con Emilia Lomellini, Giacomo e Nicolò: Giacomo, nato il 28 giugno 1793, sposò Sofia Rostan, ma morì senza prole il 23 febbr. 1875; Nicolò, nato il 4 ott. 1811 e morto il 16 dic. 1881, ebbe dalla moglie Francesca Balbi un unico figlio maschio, Benedetto, che rimase l'unico rappresentante della famiglia Brignole alle soglie del '900.
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