PELLEGRINI, Giampietro Domenico
PELLEGRINI, Giampietro Domenico. – Nacque a Brienza, in provincia di Potenza, il 30 agosto 1899 da Benedetto Pellegrini e da Benedetta Giampietro.
Massone, nazionalista, fu uno dei fondatori della legione di Caserta «Sempre Pronti», combatté volontario nella Grande Guerra con il grado di tenente di fanteria e ottenne una medaglia d’argento al valore militare. Nel 1924 sposò Rosaria Armenise da cui ebbe tre figli: Gaetano, Vera e Ada nati, nell’ordine, fra la metà degli anni Venti e i primi anni Trenta.
Fascista della prima ora, partecipò alla marcia su Roma (28 ottobre 1922) e fu membro della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale con il grado di seniore fuori quadro.
Si laureò a Napoli nel 1926 in giurisprudenza. Esercitò la professione di avvocato, svolgendo anche quella di docente universitario di diritto pubblico comparato, diritto costituzionale italiano e comparato, storia e dottrina del fascismo presso l’ateneo partenopeo. Dal 1932 ricoprì la carica di vicedirettore della Scuola sindacale di Napoli istituita dal ministero delle Corporazioni per preparare nelle materie sindacali-corporative. Fu autore di numerose opere giuridiche e di propaganda nelle quali sostenne la superiorità dello Stato fascista sui diritti del singolo, si oppose ai sistemi parlamentari liberali, difese il Gran Consiglio e appoggiò la riforma della rappresentanza politica in senso (1938-43). Fu consigliere nazionale della Camera dei fasci e delle corporazioni (1939-43), fece parte del direttorio nazionale del Partito nazionale fascista (PNF) dal 1942 al 1943, fu membro della direzione federale di Napoli e segretario federale della città dal 2 gennaio al 17 febbraio 1943.
Si arruolò volontario nella falange franchista durante la guerra di Spagna e durante la seconda guerra mondiale combatté in Grecia, dove fu prigioniero dal 7 marzo al 5 maggio 1941 e fu ferito, rimanendo invalido; ottenne due medaglie d’argento al valore militare.
Già sottosegretario al ministero delle Finanze fino al 25 luglio 1943, Pellegrini fu nominato il 23 settembre ministro delle Finanze della Repubblica sociale italiana (RSI) e ministro per gli Scambi e le valute (ministero poi confluito in quello delle Finanze). Tra i più fedeli sostenitori di Benito Mussolini, fu uno dei promotori e redattori del cosiddetto manifesto di Verona, la carta che stabilì le linee programmatiche della politica interna, estera e sociale della RSI.
Il suo nome si ricorda sostanzialmente per il ruolo assunto nei rapporti finanziari con le autorità germaniche. Il 21 ottobre 1943 firmò con Rudolf Rahn, ambasciatore tedesco presso il governo della RSI e ministro plenipotenziario del Reich, un accordo finanziario in base al quale la RSI doveva pagare ai tedeschi una sorta di tassa di occupazione – sette miliardi di lire al mese, salita poi a dieci – fatta passare come ‘contributo di guerra’ per coprire le spese militari e civili tedesche per la difesa dell’Italia; in cambio furono ritirati i marchi di occupazione (Reichskreditkassenscheine) messi in circolazione dopo l’8 settembre: così facendo la RSI rimaneva formalmente sovrana e si evitava il pericolo di un aumento dell’inflazione come accadde nell’Italia meridionale con la messa in circolazione delle Am-lire degli Alleati. Fu, inoltre, direttamente coinvolto nella questione riguardante il trasferimento in Germania della riserva aurea della Banca d’Italia.
Era stato lo stesso Rahn a opporsi all’iniziale volontà di Hermann Göring di trasferire l’oro in Germania come bottino di guerra: trattenerlo in Italia significava per Rahn, infatti, avere una garanzia in caso di tracollo economico e finanziario della RSI. Nonostante le resistenze della Banca d’Italia – e un tentativo, avallato dal governatore Vincenzo Azzolini, di nascondere parte dell’oro nell’intercapedine della sacrestia in cui era conservato, ma riportato poi alla luce per paura di essere scoperti – l’intero quantitativo, pari a 119.252 kg, fu trasferito da Roma a Milano. Qui il metallo arrivò in due mandate, il 22 e il 28 settembre 1943, a fronte delle continue pressioni tedesche sostenute dallo stesso Pellegrini con un ordine scritto. Formalmente si trattava di un’operazione di trasferimento dell’oro da una filiale della Banca all’altra (il movimento fu infatti effettuato sotto il controllo della Banca grazie all’intervento di Azzolini), ma di fatto facilitava un eventuale trasferimento in Germania in caso di collasso della RSI. Da Milano, il 16 dicembre, l’oro fu poi spostato a Fortezza in Alto Adige, territorio non più italiano ma Alpenvorland, fuori dal potere della RSI. In questa operazione Pellegrini strinse accordi con i tedeschi senza tenere conto di Azzolini, informato solo ad accordi presi e tenuto all’oscuro della località scelta. In seguito, in occasione della sua difesa processuale, Azzolini avrebbe ribadito più volte i suoi cattivi rapporti con il ministro delle Finanze – un «ardente Farinacciano […] ostile a me, inviso all’Avv. Farinacci per varie ragioni che mi onorano […]» (La Banca d’Italia..., a cura di A. Caracciolo, 1992, p. 468). Il tentativo di Azzolini di dilazionare i tempi non ebbe esito positivo e fu responsabilità del ministro delle Finanze il trasferimento dell’oro a Fortezza: «Forse non sono stato chiaro […]. Si tratta di portarlo in provincia di Bolzano – tutto l’oro – in località alquanto sicura […] abbiamo già preso tutti gli accordi […] se non si fa questo se lo pigliano […]» (ibid., pp. 419-423).
Il 5 febbraio 1944 Pellegrini strinse l’accordo di Fasano (ibid., pp. 424 s.), sede dell’ambasciata tedesca, con Rahn e Serafino Mazzolini (segretario generale del ministero degli Affari esteri) sulle modalità di pagamento delle «spese di occupazione» tedesca. In base a questo accordo, oltre al pagamento in lire, l’Italia doveva contribuire alle spese di guerra mettendo tutto l’oro (119 tonnellate) a disposizione del Reich. Un quantitativo di oro per 1410 milioni di lire, pari a 50 tonnellate, partì per la Germania il 29 febbraio da Fortezza. A maggio Pellegrini autorizzò un secondo invio del metallo, ma le richieste tedesche non furono immediatamente soddisfatte grazie al commissario straordinario della Banca d’Italia, Giovanni Orgera, posto alla guida della Banca al Nord fino al 24 aprile 1945. Orgera era stato podestà di Napoli quando Pellegrini era segretario federale del PNF a Napoli e dunque, se non un «amico» (Einaudi, 1993, p. 644), era certo una sua vecchia conoscenza. La spedizione di 21 tonnellate fu, pertanto, rinviata al 21 ottobre e la consegna del metallo fu dilazionata.
L’azione di contenimento alle mire tedesche in campo monetario non fu dunque opera dei politici, ma degli amministratori: «furono Introna, Sforza, in qualche misura Azzolini, lo stesso Orgera nominato dalla Repubblica, a ostacolare la rapina dell’oro italiano, mentre i ministri, in particolare il loquace Pellegrini Giampietro, appaiono nelle vesti di interpreti della volontà tedesca e di trasmettitori di ordini» (Gigliobianco, 2006, p. 184). L’oro rimasto – 23 tonnellate – fu poi ritrovato a Fortezza dagli Alleati e riportato a Roma.
Licenziato nel gennaio 1944 dalla Commissione rettorale nominata dalla Education subcommission (struttura volta alla defascistizzazione dell’apparato educativo italiano, interna alla Commissione di controllo alleata), Pellegrini fu arrestato il 28 aprile 1945 per collaborazionismo e condannato il 28 agosto dalla Corte di assise straordinaria di Milano a trenta anni di reclusione e alla confisca dei beni. Dopo aver presentato ricorso alla Corte di cassazione, evase, nella notte tra il 15 e il 16 novembre 1945, dalle carceri del palazzo di Giustizia di Milano, rimanendo latitante fino all’esito del ricorso. Il 21 ottobre 1946 la Corte dichiarò estinti per amnistia i reati a suo carico e ordinò la revoca del mandato di cattura.
Qualche anno dopo, nel marzo 1949, fu di nuovo arrestato e sottoposto a un processo con l’accusa di avere consegnato a Mussolini cinque milioni di lire sottratte all’Erario, un certo quantitativo di valuta estera della Direzione generale della polizia alla presidenza del Consiglio, un miliardo al Partito repubblicano fascista, circa 70.000 franchi svizzeri alle famiglie di cinque personalità della RSI. Essendo uno dei fondatori del Movimento sociale italiano, in cui militò fino al 1948, il suo arresto suscitò le proteste di alcuni esponenti del partito, tra cui Giorgio Almirante e Giovanni Roberti. La Cassazione lo prosciolse il 13 maggio 1949.
Imbarcatosi da Genova il 21 luglio 1949, espatriò in Brasile e, da qui, andò in Argentina e Uruguay. In America Latina continuò a svolgere attività di tipo finanziario e dette vita a varie istituzioni di credito, la prima delle quali fu il Banco del lavoro italo-brasiliano di San Paolo, noto come il Banco del popolo produttore.
Morì per infarto a Montevideo (Uruguay) il 18 giugno 1970.
Opere. La serrata e lo sciopero nella legge sindacale fascista, Napoli 1928; Le funzioni dei Sindacati Intellettuali, Napoli 1928 (con G. D’Onofrio); Il principio di sovranità dello Stato fascista, Napoli 1932; Rappresentanza ed elettorato con riferimento alla legislazione fascista, Napoli 1932; La giurisdizione con speciale riguardo ai pronunciati esteri, Napoli 1933; La sovranità negli Stati moderni, Napoli 1933; La riforma costituzionale, Il Gran Consiglio del fascismo, Napoli 1933; Rivoluzioni e revisioni costituzionali nel diritto pubblico comparato, Napoli 1936; prefazione a G. Salvi, La scuola sindacale di Napoli nel suo primo decennio di attività, Napoli 1937; Aspetti storici e spirituali del fascismo, Pisa-Roma 1941; Sui rapporti economico-finanziari italo-tedeschi nella relazione del ministro delle Finanze della Repubblica di Salò a Mussolini, dicembre 1944, in Il movimento di liberazione in Italia, 19 (1952), pp. 48-59; L’oro di Salò, in Il Candido 1958, in A. Norelli, Il Ministro D. P.G. nel tramonto del fascismo, Napoli 1992.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, RSI, b. 77, f. 648, 4; ibid., Carteggio ordinario (1922-1943), b. 715, f. 210.640: Pellegrini Ecc. Giampietro Domenico; Roma, Archivio storico del ministero degli Affari esteri, Rsi, b. 202, f. Germania 1/8. Altra documentazione è conservata presso l’Archivio storico della Banca d’Italia e in parte pubblicata nei volumi della Collana storica della Banca d’Italia.
U.E. Imperatori, Dizionario di italiani all’estero. Dal sec. XIII sino ad oggi, Genova 1956, p. 361; M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del Regno d’Italia, Roma 1973, ad ind.; G. Bocca, La Repubblica di Mussolini, Roma-Bari 1977, ad ind.; M. Missori, Gerarchie e statuti del PNF. Gran Consiglio, Direttorio nazionale, Federazioni provinciali: quadri e biografie, Roma 1986, ad vocem; A. Norelli, Il Ministro D. P.G. nel tramonto del fascismo, Napoli 1992; La Banca d’Italia tra l’autarchia e la guerra 1936-1945, a cura di A. Caracciolo, Roma-Bari 1992, pp. 461-477; L. Einaudi, Diario 1945-1947, a cura di P. Soddu, Roma-Bari 1993, ad ind.; L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1993, pp. 122 ss.; H. Woller, I conti col fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna 1997, p. 95; L. Ganapini, La Repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Milano 1999, pp. 266 ss.; S. Cardarelli - R. Martano, I nazisti e l’oro della Banca d’Italia. Sottrazione e recupero. 1943-1958, Roma-Bari 2001, ad ind.; R. De Felice, Mussolini l’alleato, II, La guerra civile (1943-1945), Torino 2001, pp. 434 ss.; A. Pellegrini, La guerra della bambina, Bivigliano-Firenze 2001; A. Roselli, Il governatore Vincenzo Azzolini 1931-1944, Roma-Bari 2001, pp. 318 ss.; A. Gigliobianco, Via Nazionale. Banca d’Italia e classe dirigente. Cento anni di storia, Roma 2006, ad indicem.