VICO, Giambattista
Filosofo, storico, giureconsulto e critico letterario.
1. Primi anni (1668-1686). - Terzultimo degli otto figliuoli di Antonio, figlio d'un contadino maddalonese e divenuto il più povero forse dei librai napoletani, e della napoletana Candida Masullo, figliuola a sua volta d'un lavorante di carrozze, nacque il 23 giugno 1668 a Napoli in un bugigattolo soprastante alla bottega paterna, sita al n. 31 della via S. Biagio dei Librai. Fanciulletto, ebbe temperamento allegro e irrequietissimo. Ma, dopo una tremenda caduta (1675?), che gli cagionò la frattura del cranio e perdite abbondantissime di sangue, tre anni di cure valsero a salvargli, sì, vita e intelligenza, non a ridargli la perduta gaiezza, e meno ancora a infondere vigoria in quel suo corpicino esile e quasi evanescente, che, minacciato perennemente dalla tisi, gli fece dar poi il nomignolo crudele di master Tisicuzzus. Tornato (ottobre 1678?) alla scuola non tardò a rivelarsi un "autodidascalo", come lo soprannominarono poi gli amici: tanto che, condotto (ottobre 1680?) all'altra scuola dei gesuiti al Gesù Vecchio, bastò che in una gara scolastica gli si usasse un piccolo torto, perché, sin da allora collerico e pieno d'amor proprio, si chiudesse in casa (maggio 1681?) terminando da solo i corsi di grammatica. Certamente, allorché nell'ottobre successivo, volle affrontare, parimente da solo, la filosofia, e proprio nelle astrusissime Summulae di Paolo Veneto, fu preso da tal "disperazione" nel vedere che il suo ingegno, "ancor debole da reggere a quella spezie di logica crisippea", era quasi per perdervisi, che, "fatto disertore dagli studî, ne divagò un anno e mezzo" (1682-83). Pure, rimessosi in carreggiata, tornò (ottobre 1683) presso i gesuiti; ma, stanco ben presto dell'insegnamento del padre Giuseppe Ricci da Lecce (1650-1712), che s'indugiava troppo sull'ente e la sostanza, si rinchiuse nuovamente in casa, e questa volta con tanto profitto, che, in poco più d'un anno (1684-85), oltre che far succo della Metafisica di F. Suárez, menò a compimento tutti gli studî di umanità e filosofia. Né, a dir vero, seguì criterio diverso dopo che, per volontà del padre, che lo desiderava uomo di legge, passò a quelli giuridici. Un paio di mesi (estate 1685) frequentò lo studio privato del canonico (poi vescovo di Vico Equense) Francesco Verde (1631-1706), rinomato insegnante di diritto; e, anche quando più tardi (1688) s'immatricolò all'università, non vi si recò se non una volta sola. Per contrario, studiò molto da sé il diritto romano e quello canonico, non senza coltivare, al tempo stesso, la poesia, ossia quella lirica tutta concettini, acutezze e arguzie che usava nel Seicento, specie a Napoli. Disgraziatamente, le sue condizioni economiche, restate sempre tristissime, lo costringevano, sin dall'adolescenza, a procurarsi un'occupazione redditizia. Forse, avvalendosi della protezione di Carlo Antonio de Rosa marchese di Villarosa (1638-1712), consigliere del Sacro Real Consiglio, che aveva voluto condurlo di persona presso l'"onestissimo" avvocato Fabrizio del Vecchio, avrebbe potuto avere qualche fortuna nei tribunali. Ma, sebbene la sorte gli fosse propizia nella prima causa civile, che, assistito dal Del Vecchio, trattò nell'anzidetto Consiglio in difesa del proprio padre (1686), s'avvide ben presto d'essere uomo di troppo poco spirito "d'intorno alle cose che riguardano l'utilità". Non gli parve vero, dunque, in seguito alle esibizioni di monsignor Geronimo Rocca (1623-91), vescovo d'Ischia, d'accettare il posto di aio dei figli piccoletti d'un fratello del Rocca, Domenico (1640-1699), che dimorava alternativamente a Napoli, a Portici e nel suo marchesato di Vatolla, ridente terra cilentina dall'aria saluberrima e quindi adatta a che la salute del V., minata dalla tisi, rifiorisse. E in casa Rocca appunto, e in particolar modo tra le "selve" di Vatolla, compì, lungo un novennio, un men tumultuario corso di studî, che si potrebbero dire di autoperfezionamento.
2. Studî di autoperfezionamento (1686-1695). - Ben lontano, nella sua prima giovinezza, dalla quasi misantropia, che dolori e delusioni determineranno in lui nell'età matura, anzi, come dice egli stesso, "molto conversevole", il V. amò non poco frequentare, nelle ore libere, librerie, salotti letterarî e accademie private, tra le quali segnatamente quella degl'Infuriati, che, trasformata nell'altra detta degli Uniti, lo annoverò dal 1692 tra i suoi soci. Ebbe modo, pertanto, d'assistere molto da vicino a un largo moto di rinnovamento culturale che - promosso intorno al 1660 da Tommaso Cornelio da Rovito (1614-84), Lionardo di Capua da Bagnoli Irpino (1617-95) e Francesco d'Andrea da Ravello (1625-98), e uscito trionfante da fiere lotte contro i rappresentanti della vecchia cultura, nonché da un clamoroso processo di "ateismo", intentato dal Santo Ufficio contro parecchi propugnatori di quelle nuove dottrine (1688-1693) - aveva reso quasi popolare a Napoli un eclettismo materiato di atomismo democriteo-epicureo-gassendiano di tendenze scetticheggianti o liberopensanti, di filosofia del Rinascimento (neoplatonismo, telesismo, brunismo e campanellismo), di sperimentalismo galileiano-baconiano e soprattutto di razionalismo cartesiano. Nel 1725, quando la mentalità determinata da quelle dottrine era stata dal V. totalmente superata, egli scrisse, contro di essa, una pagina famosa, nella quale, l'intellettualismo, lo scetticismo, la mancanza di senso storico e di conseguente senso religioso, gli errori fondamentali, insomma, di quegli eclettici napoletani, irrigiditisi quasi tutti in un meccanizzato cartesianismo, non si sarebbero potuti cogliere con penetrazione più profonda. Il che non toglie che, nella sua giovinezza, pur mostrando una predilezione, divenuta sempre più viva, verso il neoplatonismo italiano della Rinascenza e, per riflesso, verso Platone, che affermò poi primo e principale dei suoi "quattro auttori", il V. fosse preso anche lui da quella febbre di rinnovamento. Gl'idoli dei suoi anni giovanili furono per l'appunto il Cornelio, il Di Capua e il D'Andrea, col secondo e terzo dei quali ebbe altresì rapporti personali. All'esempio del Cornelio, tanto mediocre grecista quanto valente latinista, egli dové d'avere abbandonato lo studio del greco ed essersi consacrato tutto a quello del latino, che finì col conoscere quasi più a fondo della stessa lingua natia. Frutto degl'insegnamenti del medesimo Cornelio furono non solo il suo considerare, per lo meno sino al 1712, le matematiche quali perfettissime fra le scienze, ma finanche un non riuscito tentativo giovanile d'erudirsi nella geometria. Di provenienza corneliana fu in lui un'avversione irriducibile (sebbene non mancasse di studiare segnatamente la Poetica d'Aristotele) contro l'aristotelismo, contro lo scolasticismo e in modo peculiare contro il tomismo. Per riflesso del Cornelio, mentre si destava in lui un'antipatia, sempre più accentuata, per certi atteggiamenti estremi del cartesianismo, egli fece succo e sangue di tutte le opere del Descartes: un filosofo che più degli altri il V. avrebbe dovuto annoverare fra i suoi "auttori", dal momento che, dopo essere stato per non pochi anni anche lui cartesiano, proprio nella sua incessante polemica contro il razionalismo trovò gli stimoli maggiori e migliori per costruire e fortificare l'originalissima filosofia della sua maturità. Che se poi al D'Andrea il V. fu debitore d'aver continuato i suoi studî di diritto dal punto di vista, più che altro, storico, e d'aver cominciato a prendere tra mano le opere così dei grandi storici francesi e olandesi del diritto romano, come dei grandi giusnaturalisti del sec. XVII, ancora maggiore fu l'efficacia che nella formazione della sua cultura ebbero i libri e gl'insegnamenti orali del Di Capua. Giacché sotto la spinta del Di Capua egli assunse, già negli scritti giovanili, quella posizione antitetica alla morale stoica e, in genere, rigoristica, che sarà uno dei punti fondamentali della sua filosofia posteriore, teorie mediche apprese nei libri del Di Capua furono il punto di partenza dei suoi futuri studî di filosofia della natura; e il Di Capua appunto riuscì, intorno al 1692, a convertirlo, dal barocchismo letterario di tipo ultramarinistico, al neopetrarchismo nella poesia e al più ortodosso purismo trecentistico e toscanistico nella prosa. Naturale, pertanto, che il V. fosse indotto a leggere il poema lucreziano, che allora faceva girare molte teste giovanili napoletane, non senza orientarne parecchie verso l'ateismo. Che quella lettura producesse anche in lui quell'effetto, non appare da documenti espliciti. Ma è un fatto che, divenuto vecchio e rifortificatosi nel cattolicismo, confessava egli stesso d'esser caduto, durante gli anni giovanili, in "debolezze ed errori" d'indole religiosa. Ed è un altro fatto che, mentre leggeva Lucrezio, pubblicò gli Affetti di un disperato (1693), canzone a forti tinte lucreziane, che un fervido credente non avrebbe scritta nemmeno per esercitazione letteraria, giacché in essa è oggettivato un pessimismo (personale e particolarmente cosmico) così cupo e una disperazione così straziante di qualsiasi soccorso ab intra e ab extra, da fare del V. di quella canzone l'antitesi più perfetta del teorico della Provvidenza che sarà il V. della Scienza nuova.
3. Dal 1695 al 1699. - Con codesto corredo di cultura, essendo divenuti grandi i fanciulli affidati alle sue cure, uscì da casa Rocca per tornare alla stamberga paterna (settembre 1695). Aveva allora ventisette anni, e il problema del pane quotidiano gli si presentava tanto più tormentoso che non nove anni addietro, in quanto, per la vecchiaia del padre e per l'inabilità dei fratelli, le speranze maggiori e migliori della famiglia erano riposte in lui. Fu costretto pertanto a procacciarsi, non senza stento, ripetizioni di retorica a giovinetti di buona famiglia, e persino di grammatica elementare a fanciulli e, al tempo stesso, a cercare un'occupazione più stabile e redditizia. Ma trovò ben poco. Il teatino Gaetano d'Andrea (1628-1702), fratello di Francesco, non seppe dargli altro consiglio che di farsi frate; né Giuseppe Lucina, letterato di merito, ma nella vita pratica poco meno inabile e sfortunato del V., poté rendergli altro servigio che di presentarlo all'avvocato Niccolò Caravita (1647-1717), a cui una dissertazione contro le pretese pontificie sul regno di Napoli valse più tardi (1707) un quarto d'ora di celebrità. E certamente, l'incarico, avuto dal Caravita, di comporre un discorso proemiale latino per una miscellanea poetica pubblicata nel marzo 1696 per la partenza da Napoli del viceré spagnolo Santostefano e, dopo quel primo, una lunga serie di lavori d'occasione e per commissione (molte poesie ed epigrafi per nozze, monacazioni e funerali; un'orazione funebre latina, pubblicata nel 1697, in morte di Caterina d'Aragona, madre del nuovo viceré Medinaceli; una eccellente storia, parimente latina e a forti tinte sallustiane, della congiura detta del principe di Macchia, scritta nel 1702 e pubblicata postuma nel 1835; un Panegiricus per la venuta di Filippo V di Spagna a Napoli, pubblicato nel 1702, ecc.) procurarono al V. fama di letterato valente e, insieme, l'aggregazione a molte accademie, tra cui l'Arcadia (1710). Ma, d'altra parte, chiese invano (dicembre 1697) la carica di segretario presso il municipio di Napoli; e, se nel gennaio 1699 fu nominato, per concorso, lettore d'eloquenza nell'università, conviene soggiungere che a quella cattedra erano assegnati appena cento ducati l'anno (poco più di trentacinque lire il mese). Con i quali, con i piccoli diritti derivatigli da taluni certificati universitarî, con i meschini proventi delle ricordate lezioni private e degli anzidetti lavori per commissione, e con quelli, alquanto men tenui d'uno "studio" privato di retorica, che apre nel 1699 in casa, il V. - che frattanto (12 dicembre 1699) sposava l'analfabeta Teresa Caterina Destito, e ne aveva otto figliuoli (Luisa, Ignazio, Teresa, Gennaro, Filippo, più tre morti fanciulli) - condusse fino al 1735 una vita non meno santa, alta ed eroica di quella dell'egualmente "povero" Benedetto Spinoza.
4. Primo periodo dell'attività filosofica (1699-1709). - L'ottenuta cattedra universitaria e il connesso obbligo imposto all'insegnante d'eloquenza di recitare una solenne prolusione nell'apertura dell'anno accademico (18 ottobre), gli porsero occasione di comporre i suoi primi scritti filosofici, cioè sei prolusioni o, come usa chiamarle, Orazioni inaugurali, recitate, con qualche anno d'intervallo, dal 1699 al 1706, rielaborate nel 1708 o 1709 e pubblicate postume nel 1869.
Quantunque oggi alquanto sopravalutate, l'autore non ebbe torto di rifiutarle. E invero il loro interesse precipuo è documentario, in quanto esibiscono la prova che fino al 1708 egli, continuando a considerare i problemi de Deo, de mundo et de homine, con occhio non troppo diverso dagli studiosi tra i quali viveva, s'adagiasse ancora in una filosofia non troppo dissimile, nei tratti essenziali, dall'eclettismo ricordato di sopra. Senza dubbio c'è in esse un respiro molto più largo e una comprensione molto più profonda che non nelle opere di altri cartesiani napoletani; c'è un potente anelito verso una concezione più affinata della realtà; c'è una latente insoddisfazione per la filosofia a cui il Vico stesso dichiarava allora di aderire; c'è, magari, com'egli scriverà poi, un sintomo che s'agitasse già nell'animo suo "un qualche argomento e nuovo e grande, che in un principio unisse tutto il sapere umano e divino". Ma, quanto a originalità, ce n'è ancora tanto poca che il V., come riecheggia a volta a volta i filosofi studiati in gioventù, e particolarmente M. Ficino, G. Pico della Mirandola, G. Cardano, G. Bruno, T. Campanella, R. Descartes e persino B. Spinoza, così, costretto a recitare punto per punto il suo Credo filosofico, non sa fare di megiio che ammettere simultaneamente la metafisica platonica, la poetica e la retorica aristoteliche, la morale stoica, la teoria del primo vero e il metodo geometrico di Cartesio, la dottrina democritea degli atomi e, conseguenza di questa, proprio quella fisica corpuscolare contro la quale nell'età matura assumerà posizione così combattiva. Ben altra importanza ha una settima prolusione, la quale, recitata il 18 ottobre 1708 e pubblicata con aggiunte l'anno successivo, esamina i vantaggi e gli svantaggi della maniera di studiare nostra messa a confronto di quella degli antichi", e ricerca il modo di conservar quelli e schivare questi in guisa che un'odierna università sia, per es., "un solo Platone con tutto il di più che noi godemo sopra gli antichi, e tutto il sapere, umano e divino, regga da per tutto con uno spirito, sì che le scienze si diano l'una all'altra la mano, né alcuna sia d'impedimento all'altra". Basta questa mera enunciazione del tema a mostrare come il V., entrando nel vivo della querelle des anciens et des modernes, assuma in essa ufficio di arbitro in nome d'una filosofia, che, appunto per ciò, non poteva essere più soltanto quella cartesiana, ma che cominciava già a diventare vichiana. E l'importanza di quella prolusione cresce di mille doppî, qualora si pensi alla guisa in cui il V. vi si preparò, e che fu, tra l'altro, di trar profitto dalle opere del Bacone (terzo ormai, dopo Platone e Tacito, tra i suoi auttori"), e in particolar modo dal De dignitate et augmentis scientiarum; all'intento polemico che egli volle raggiungere, e che fu di contrapporre una teoria propria alla prima parte del Discours de la méthode di Cartesio, combattuto punto per punto; e all'ampiezza di visuale con cui seppe trattare il complesso argomento. Critica, analisi, metodo geometrico applicato alla fisica, chimica applicata alla medicina, spargirica (chimica farmaceutica), chimica applicata alla fisica, meccanica applicata alla medicina, ottica, fisica e geometria applicata alla meccanica; e poi ancora rapporti fra la critica e l'eloquenza e le arti, inconvenienti del metodo geometrico applicato alla fisica, rapporti tra l'analisi e la meccanica; e poi ancora scienze mediche, eloquenza, poesia, teologia; e poi ancora giurisprudenza (con una stupenda digressione storica sui giureconsulti romani), arte tipografica e compito delle università degli studî: non c'è ramo dello scibile su cui egli non getti sprazzi di luce vivissima. Eppure, convinto che i libri di filosofia debbano, al modo stesso di quelli di "meditazione cristiana", proporre pochi punti e lasciar molto pensare al lettore, seppe contenere un materiale così vasto in un opuscolo di poco più di cento paginette. Bene è vero che in ciascuna è già impressa così profondamente l'unghia del leone, che a ragione un anonimo recensente francese parlava già d'un génie qui s'ouvre de nouvelles routes".
5. Secondo periodo (1709-1713). - Col De nostri temporis studiorum ratione (tale il titolo di quella prolusione) si chiude, per dir così, un primo periodo dell'attività speculativa del V. e se ne apre, al tempo medesimo, un secondo, ben altrimenti fruttuoso. Non che egli abbandonasse il tema, a lui tanto caro, del fine e del metodo degli studî, sul quale anzi tornò più tardi in una prolusione d'anno incerto e oggi perduta, in talune lettere e anche, qua e là, nelle due Scienze nuove. Né poi sarebbe esatto affermare che dal 1708 mutasse l'oggetto fondamentale delle sue ricerche, il quale, sebbene in altra forma, continuò, come per il passato, a essere il problema gnoseologico. Ciò che per contrario cangia è lo spirito e il metodo con cui il V. prende quind'innanzi a considerare la filosofia.
Lo spirito, perché, pur non uscendo ancora dal razionalismo, egli accentua sempre più la sua polemica contro Cartesio. Il metodo, perché già dal 1708, e più ancora dal 1710, si delinea in lui la tendenza ad avviare, parallelamente all'indagine filosofica, una correlativa ricerca storica e insieme, l'errore di fondere e talvolta confondere l'una e l'altra, trattando i fatti come filosofemi e i filosofemi come fatti. Pertanto, dopo che il suo amico Paolo Mattia Doria (1666-1746) e altri studiosi napoletani lo esortarono a inquadrare in una generale trattazione filosofica certe sue idee sulla filosofia della natura esposte in una cena a casa Doria (1709), egli non si domandò soltanto che cosa fosse la conoscenza, ma, anche quale fosse stata storicamente la conoscenza o sapienza o civiltà degli uomini primitivi, che, per l'errore notato qui sopra, identificava nella prima forma o grado ideale del conoscere. E, come dal Cratilo platonico, che allora lesse o rilesse, assorbì il concetto che codesta sapienza fosse "riposta", ossia già materiata di filosofia (e non, invece, di sola arte e storia), già raggiunta con l'intelletto (e non, invece, con la sola fantasia e memoria), già frutto di attenta e matura riflessione (e non, invece, semplicemente di geniale, spontanea e giovanile intuizione); così, analogamente a Platone, che ne aveva investigato i principî nelle etimologie delle voci greche, il V., convinto della preesistenza a quella greca d'una luminosa civiltà italica, volle rinvenirli nelle etimologie, non meramente grammaticali, bensì storiche o pseudostoriche, delle parole latine.
Il critico più implacabile del moltissimo che in codesta concezione permaneva ancora d'intellettualistico, fu, poi, precisamente il V. Tuttavia codesta falsa posizione, oltre che indispensabile per lo svolgimento posteriore del suo pensiero, gli riuscì, anche nel presente, ferace di risultati cospicui. Giacché da essa appunto fu indotto a compiere, nella gnoseologia, la scoperta, da lui non rifiutata mai, del verum-factum, ossia a formulare (contro la fondamentale teoria cartesiana della chiara e distinta percezione) il principio che conditio sine qua non per conoscere intimamente una cosa è l'averla creata o fatta (condizione che allora, fra tutte le scienze umane, il V. trovava avverata nella sola matematica); ad affinare e rendere spiccatamente originale il concetto che, attraverso il platonismo, lo stoicismo, il neoplatonismo e il cartesianismo, s'era formato, non tanto forse dell'etica, quanto della fisica e della metafisica; a ragionare in quest'ultima la teoria, nemmeno essa rifiutata mai, dei cosiddetti "punti metafisici", che, non estesi, eppur generanti l'estensione, s'interpongono mediatori tra Dio, ch'è quiete, e il corpo, ch'è moto, mercé il conato, ossia l'indefinita virtù e sforzo dell'universo a mandar fuori e sostenere le cose particolari tutte; a porre taluni problemi filosofici e storici che trattò ampiamente nelle opere posteriori (i rapporti, per es., tra la filosofia e la storia e quelli tra le civiltà egizia, etrusca, greca e romana), e anche a precorrere talune scoperte del sec. XIX nel campo della fisica sperimentale (possibilità di servirsi del fluido magnetico per la determinazione della longitudine) e in quello della medicina, nella quale pare anticipasse la maggior parte delle conclusioni che dovevano poi render celebre il naturalista scozzese John Brown. Frutto di codesti studî fu il trattato De antiquissima italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, che, concepito come un compiuto sistema filosofico, sarebbe dovuto constare di tre libri, consacrati rispettivamente alla metafisica (con un'appendice sulla logica), alla fisica (o filosofia della natura) e all'etica. Per altro, il V. dié alla luce nel novembre 1710, col sottotitolo di Liber metaphysicus, soltanto il primo (ma senza l'appendice sulla logica); sviluppando taluni degli appunti preparati per il secondo (Liber physicus), mise insieme nel 1713 un breve opuscolo, De aequilibrio corporis animantis, di cui è andato disperso così il manoscritto come il testo a stampa, che pare fosse pubblicato postumo, alla fine del Settecento, in una rivista napoletana; non abbozzò nemmeno il terzo (Liber moralis). Vero è altresì che, in difesa del primo, che un "dotto signore" anonimo (il veneto Paolo Trevisan?) aveva cortesemente censurato nel Giornale de' letterati d'Italia, pubblicò una Risposta (settembre 1711), e, avendo il "dotto signore" replicato, una Seconda risposta (agosto 1712): veri modelli - valore filosofico a parte - di urbanità letteraria.
6. Nuovo orientamento filosofico (1714-1722). - Una parentesi storico-letteraria s'aprì dal 1714 al 1716 in così fervida attività speculativa per la commissione, data al V. dal suo giovane discepolo Adriano Carafa duca di Traetto, di scrivere in latino la vita del maresciallo Antonio Carafa: un napoletano che s'era reso tristamente famoso ai servigi di Leopoldo I d'Austria.
Il lavoro, alla stessa guisa delle maggiori sue opere filosofiche, fu condotto "tra crudelissimi spasimi ippocondriaci al braccio destro", "in mezzo agli strepiti domestici" e "spesso in conversazion degli amici". Pure gli riuscì temprato non solo di "onore al subbietto" e di "riverenza verso i principi", ma anche e soprattutto, quantunque le efferate repressioni esercitate dal Carafa in Ungheria rendessero la cosa assai delicata e difficile, di "giustizia che si deve avere per la verità". Sennonché non soltanto in siffatto risultato e nell'avere avuto agio di considerare più da vicino la storia e la politica s'assommano i vantaggi ridondati al V. da codesta fatica. Il maggiore fu che, avendo letto o riletto il De iure belli et pacis di Ugo Grozio, trovò "il quarto auttore da aggiugnersi agli altri tre che egli si aveva proposti". Giacché - diceva a sé stesso - se, della "sapienza volgare e poetica di Omero", cioè della storia e della poesia, Platone si avvale piuttosto per adornare che non per confermare la sua "sapienza riposta", ossia la filosofia; se Tacito, pure illuminando i fatti con la sua morale e la sua politica, li considera tuttavia "sparsi e confusi, senza sistema"; se il Bacone intende bensì che il concetto, che s'aveva ai suoi tempi del sapere umano e divino, andava supplito ed emendato, ma non per questo, nello studiare le leggi, s'eleva "all'universo della città, alla scorsa di tutti i tempi, alla distesa di tutte le nazioni"; in Grozio, invece, la filosofia e la filologia, ossia la scienza degli universali e la cognizione di ogni sorta di fatti particolari, non costituiscono più due forme di conoscenza giustapposte o magari contrapposte e ciascuna procedente per la sua strada. Senza dubbio, Grozio, e, dopo di lui, il Selden e il Pufendori si fondano ciascuno su un'ipotesi errata, e iniziano l'indagine da un punto che avrebbe dovuto essere d'arrivo più che di partenza. Ma, alla fine dei conti, nessuno può negar loro, e soprattutto al primo, il merito d'aver tentato di comporre la filosofia e la filologia "in sistema di diritto universale". Constatazione che fu per il V. come una favilla che caschi in una polveriera. Tanto più che in Grozio, e ancora più chiaramente nel Pufendorf, che, con le sue polemiche antihobbesiane, lo trasse a informarsi anche delle opere del Hobbes, trovava inoltre una ipotesi, che urtava, sì, contro la sua rinnovata e ormai incrollabile fede religiosa, ma che, ciò nonostante, lo allettava sempre più: l'ipotesi che fondatori della civiltà fossero stati, non gíà filosofi colmi di "sapienza riposta", come egli amava ritenuto fin allora sulle orme del suo Platone, bensì uomini-bestie, privi, nonché di qualsiasi cultura, di qualsiasi umanità, ma pur sorretti da un oscuro istinto di conservazione, che li avrebbe condotti via via a vivere socialmente e, con ciò, a porre la prima pietra dell'edificio della civiltà. Quale copia affollata d'idee turbinò allora nella mente del V.! Gli parve di rivivere gli anni della giovinezza, quando, leggendo per la prima volta il quinto libro del De rerum natura, s'era imbattuto in una consimile ipotesi, epicurea quanto si voglia, ma seducentissima. Gli risonarono all'orecchio i discorsi ascoltati vent'anni addietro da taluni amici più degli altri compromessi nel processo intentato dal Sant'Ufficio contro gli "ateisti" napoletani: che "prima d'Adamo vi fussero uomini al mondo, li quali fussero stati composti d'atomi, come anco tutti gli animali; e che gli uomini più giudiziosi cominciassero a fabbricar le case, terre, castelle e città, e facessero tra loro unione, chi da una parte, chi dall'altra; e chi era più giudizioso si facesse figlio di Saturno, chi figlio di Giove e chi figlio di altro dio; ma che questi uomini così giudiziosi si supponessero figli di dèi per essere stimati e venerati da' popoli, ma in effetto credendo non essere tali", e via enumerando. E gli tornarono alla mente certe considerazioni sull'origine del linguaggio e della scrittura, che, senza darvi maggiore importanza di quella, tenuissima, data a esse dall'autore medesimo, aveva pur lette nel suo Bacone, il quale, lucrezianamente, aveva parlato anche lui dell'origme spontanea del linguaggio, anche lui di gesti che precederono le parole, anche lui di scritture ideografiche o geroglifiche sorte per analogia spontanea prima di quelle alfabetiche. Quale nuova e originale filosofia si poteva costruire su codeste ipotesi lucreziane, baconiane e giusnaturalistiche, che si presentavano così belle, così poetiche, così consone al bisogno irrefrenabile del V. di liberarsi di quanto ancora nel suo pensiero permaneva d'intellettualistico. Giacché porre agl'inizî dell'umanità, non sapienti, ma bestioni, e attribuire i primi passi compiuti dall'uomo nel cammino della civiltà, non a saggi consigli dei primi, ma a un oscuro istinto dei secondi, equivaleva appunto a bandire per sempre dalla filosofia l'intellettualismo, ad asserire forma primigenia del conoscere, non già la ragione, ma proprio quell'istinto irrazionale o, quanto meno, arazionale, ossia ciò che nell'uomo è sentimento, intuizione e inventività; e, conseguentemente, a elevare a dignità di scienza tutte le arazionali discipline che hanno a base sentimento, intuizione e inventività, ch'è quanto dire proprio quella coscienza del peculiare o certum o "filologia", che il cartesianesimo considerava sorta di conoscenza inferiore. Ma, d'altra parte, quelle ipotesi, esplicitamente in Lucrezio, implicitamente nel Bacone e nei giusnaturalisti, conducevano diritto a un ateismo, a cui il V., rifortificatosi, come s'è detto, nella religione avita e non mai come allora vivente fra cocolle monacali e zimarre pretesche, non sapeva pensare senza sentirsi pervadere da un'angoscia disperata. Come, allora, cristianizzarle o, che per il V. era lo stesso, platonizzarle? Purtroppo manca qualsiasi ragguaglio diretto sul travaglioso lavorio mentale che lo condusse all'illusione d'essere riuscito a compiere quell'impossibile conciliazione. Ma è altamente probabile che gli giovasse non poco lo studio del De civitate Dei di Aurelio Agostino, dal quale così come dal suo esornatore Bossuet, la divina Provvidenza vien presentata quale fabbra e rettrice del corso delle cose umane, ossia della storia. Senza dubbio, per Agostino e per il Bossuet, la Provvidenza opera in questa per cause prime, ossia in guisa diretta, immediata e, per conseguenza, soprannaturale o trascendente. Ma c'era proprio bisogno di ricorrere, anche in questo caso, alla trascendenza, e non bastava riconoscerla, da buon credente, nella natura e nelle sue leggi? Alla fin dei conti, altro è Grazia, altro è Provvidenza. E chi ammetta che, con la grazia, nella quale è implicito il concetto di trascendenza, Dio aiuti soprannaturalmente l'uomo in casi straordinarî, così come fece certamente nei riguardi del popolo ebreo, esce proprio dall'ortodossia, qualora soggiunga che, nei casi ordinarî, cioè nei rispetti di tutti i popoli diversi dall'ebraico, Dio, volendo aiutare l'uomo soltanto per cause seconde, ossia in guisa indiretta, mediata, naturale, gli lasci intero l'esercizio del libero arbitrio, di cui lo ha pur dotato, contentandosi di dare al corso delle cose umane una provvidenzialità o logica, non proveniente ab extra, ma intimamente connaturata a esse, onde quanto vien fatto dagli uomini singoli, e quali che siano i loro fini individualistici, tutto, in ultima analisi, ridonda a beneficio dell'umanità, e quindi a glorificazione della divina Provvidenza? Superati, così, i suoi scrupoli religiosi e fatte sue, con profondi ritocchi che sarebbe troppo lungo esporre, le ipotesi lucreziano-baconiano-giusnaturalistiche accennate di sopra, al V., quasi premio all'aspra fatica, toccò la gioia di constatare che ciò ch'era andato laboriosamente "cercando nelle Orazioni inaugurali e aveva dirozzato pur grossolanamente" nel De studiorum ratione e, "con un poco più di affinamento", nel De antiquissima, era finalmente troppo. Ormai non c'era da fare altro che costruire - ma non dal troppo angusto punto di vista del giusnaturalismo, che dall'ipotesi dei "bestioni" saltava all'uomo già incivilito e considerava appena qualche millennio di storia, bensì da un osservatorio molto più elevato, comprendente nel suo raggio visuale tutto lo scibile e, fin dove occhio umano potesse giungere, l'eterna distesa dei tempi - una "scienza nuova", nella quale la filologia (linguaggio, scrittura, poesia, eloquenza, arte, storia, diritto, arte di governo, usi e costumi dei varî popoli, ecc.), elevata dallo stato d'ancella, a cui l'aveva degradata il cartesianesimo, ad autonoma "scienza del certo", fosse "inverata" dalla filosofia; e la filosofia a sua volta, considerata quale forma riflessa di conoscenza, e quindi né primigenia né autonoma "scienza del vero", fosse "accertata" dalla filologia. Costruzione alla quale il V. consacrò un quindicennio d'attività ininterrotta e che lo indusse a compiere, e poi a perfezionare e sistemare, un numero così immane di grandiose "discoverte" filosofiche e storiche, che l'elenco che segue giova appena a darne una pallida idea.
7. Le grandi "discoverte" vichiane. - Nella gnoseologia, l'applicazione della teoria del verum factum non più alle sole matematiche, ma anche e soprattutto alle scienze morali, nel senso che l'uomo, incapace di costruire scienza perfetta del mondo della natura, creato da Dio e di cui Dio solo ha il segreto, può ben costruire scienza perfettissima del mondo degli uomini o della storia, creato dall'uomo stesso e pertanto retto da leggi rinvenibili tutte nelle varie modificazioni della mente umana. Nell'estetica, la scoperta di questa stessa modernissima scienza (chiamata dal V. col nome aristotelico di "poetica"), insieme con quelli che, ancora nella più recente e cospicua elaborazione, ne sono ritenuti capisaldi: indipendenza della fantasia dall'intelletto, e carattere arazionale, intuitivo, lirico e pur cosmico e universale dell'opera d'arte. Nella filosofia del linguaggio, l'esclusione più recisa di qualsiasi elemento concettuale e convenzionale dalla formazione delle lingue, asserite totalmente nella loro forma "muta" (lingue per gesti, scrittura ideografica, stemmi), prevalentemente in quella "articolata" (lingue per suoni o parole, scrittura alfabetica) una perenne creazione della fantasia. Nella filosofia del mito, o, come egli la chiamava, "logica poetica e, la teoria nuovissima dell'universale fantastico" o "genere poetico", ossia la considerazione del mito quale forma semifantastica del conoscere, che, non per frode più o meno cosciente, ma soltanto per immaturità di riflessione, rende corpulenti, individualizzandoli e antropomorfizzandoli, certi concetti astratti o generi (la forza, l'astuzia, la libidine, ecc.), identificandoli primamente in individui fantastici o reali (Achille, Ulisse, satiri, ecc.) e atteggiandoli poi perennemente come quei tali individui. Nella filosofia della politica, la sistemazione filosofica della sino allora empirica scienza politica, in quanto nel V. appunto la forza o energia creatrice degli stati diventa, mercé un approfondimento e superamento del Machiavelli e del Hobbes, un momento ideale, ossia un primo grado dell'attività pratica, a cui, come al certo (filologia) nei riguardi del vero (filosofia), segue in eterno, per dialettico svolgimento, l'altro momento o grado ideale della giustizia e della morale. Nell'etica, una polemica incessante contro l'utilitarismo, con la correlativa considerazione del pudore o coscienza morale, quale fonte di tutte le virtù. Nella filosofia del diritto, una polemica non meno implacabile contro il giusnaturalismo, con l'annessa e connessa affermazione della storicità del diritto. Nella filosofia della religione, a prescindere dalla già ricordata eccezione per l'ebraismo (e naturalmente anche per il cristianesimo), l'identificazione dell'elemento teoretico delle religioni (culto del vero) in una rudimentale e mitizzante metafisica ("metafisica poetica" e l'identificazione dell'elemento pratico (culto del bene) in una parimente rudimentale e mitizzante morale ("morale poetica"). Nella pedagoga, una critica spietata dell'indirizzo di cultura del sec. XVIII e dei suoi metodi educativi, e la conseguente teoria che all'età fanciullesca e giovanile, in cui fantasia e memoria prevalgono su riflessione e raziocinio, occorra impartire un'istruzione, non più materiata di logica scolastica o scolasticheggiante e di algebra, ma limitata a lettura di poeti, storici e oratori e all'apprendimento delle lingue e dell'arte dell'inventare (topica). Nella teoria della storiografia, la scoperta della superindividualità della storia, retta né dal Fato né dal Caso, ma, come s'è detto, da un'immanente logica interna, per cui tante volte lo svolgimento delle cose umane riesce provvidenzialmente diverso o contrario ai fini particolaristici degl'individui, che pur concorrono tutti a determinarlo. Nell'ermeneutica storica, l'enunciazione di canoni positivi e negativi, tanto ignoti alla storiografia sei-settecentesca quanto largamente applicati da quella del sec. XIX e dei giorni nostri: dimenticare, nell'interpretazione dei costumi degli antichi, la nostra psicologia di uomini inciviliti e procurare di rivivere la loro stessa psicologia; non prestar fede alla "boria delle nazioni" e a quella "dei dotti", inquinatrici, nella storia dei singoli popoli, particolarmente del periodo delle origini; vincere l'altro pregiudizio della cosiddetta "sapienza innarrivabile degli antichi" considerare quali documenti storici di prim'ordine sui tempi primitivi, più che i sempre tardi racconti di storici anche antichi, le lingue ("i testimonî più gravi degli antichi costumi de' popoli"), i miti ("ogni favola ha un motivo di vero"), e certi "grandi frantumi dell'antichità" (avanzi di monumenti, scavi, monete, leggende, tradizioni, usi e costumi popolari e particolarmente contadineschi); servirsi, infine, come di potente metodo d'induzione storica, della comparazione (inaugurazione delle moderne discipline della filologia comparata, delle letterature comparate, del diritto comparato, della storia delle religioni). Nella preistoria, la distruzione del mito d'un'edenica e comunistica "età dell'oro" e la sostituzione a questa d'un'infelicissima "età ferina", durante la quale gli uomini-bestioni, nudi, sudici, irsuti, muti, giganteschi, privi ancora di coscienza morale e di sentimento religioso, e obbedienti soltanto agli stimoli della fame e della libidine, errano solitarî per "la gran selva della terra" in cerca di cibo e della femmina: "mio e tuo" anche questi, e quali "mio e tuo"! Nella preistoria ancora, il ripartirla in "dodici epoche", che, non troppo dissimilmente dall'odierna ripartizione in "età della pietra", "età del ferro" e via enumerando, sono contraddistinte da qualcuna delle grandi pietre miliari, morali e sociali, a cui la belva umana s'è via via fermata nel continuo cammino verso la socialità e conseguente civiltà (religioni, matrimonî, sepolture, ecc.). Nella storia dei tempi eroici, un gran sogno su quel castello di carte ch'era l'eroismo intellettualistico-sentimentale-galante in voga nelle compilazioni storiche e nel teatro sei-settecenteschi, e la presentazione del vero eroismo quale barbarie superstiziosa, feroce, violenta, crudele, rozza, ignorante, caparbia, fanciullesco-contadinesca, conservante insomma parecchio dell'originaria ferinità; ma priva, d'altra parte, dei vizî di età civili, e quindi pudica, temperante, forte, coraggiosa, intimamente giusta, profondamente religiosa e non priva nemmeno di tratti di generosità e magnanimità. Nella stessa storia dei tempi eroici, un'anticipata confutazione della teoria del contratto sociale con l'annessa e connessa affermazione della spontaneità e ineluttabilità così dell'origine come degli sviluppi dei varî regimi sociali e politici; e, insieme, tutta una folla di osservazioni precorritrici sul regime per famiglie isolate (o gentes o clan), primo nucleo di qualsiasi governo; sul potere dispoticamente monarchico dei singoli patres sulle famiglie rispettive (moglie, figliuoli, famuli e patrimonio); sulla riunione, rebus ipsis dictantibus, di più padri-eroi nella "città eroica"; sull'originario carattere di "non cittadini", privi di diritti civili e politici, che in codesta città eroica, o primitiva "patria" (res patrum), hanno le plebi; sulla prima concessione ai plebei, mercé il corrispettivo di prestazioni personali e reali, del dominio precario di alcune terre; sul conseguente sorgere del feudo, non peculiare all'Europa medievale, ma comune a tutte le società eroico-barbariche d'ogni tempo e d'ogni luogo; sul graduale affrancarsi delle plebi e sul loro eguagliamento civile e politico ai patres, causa prima della trasformazione dei regimi da eroico-aristocratici in umano-democratici e poi umano-monarchici. Nella critica omerica, la considerazione di Omero quale barbarico bardo di codesto barbarico eroismo e, insieme, la dimostrazione di tre tesi memorande: Omero grandissimo tra i poeti, appunto perché privo affatto di "sapienza riposta" (mente filosofica, riflessione, dottrina), ma ricolmo di "sapienza poetica" (fantasia, sentimento, liricità); l'Iliade e l'Odissea, due grandi "tesori" storici della primitiva civiltà ellenica; la personalità d'Omero mitica "per metà", in quanto Omero è il popolo greco che, cantando e mitizzantlo per secoli la sua storia eroica, dà vita a una delle maggiori epopee nazionali (poligenesi della materia) e, al tempo stesso, un grande poeta singolo, che, vissuto circa la fine del periodo eroico, raccoglie e rielabora, non meccanicamente, ma poeticamente, un ciclo preesistente (monogesi della forma). Nella storiografia romana, l'affermare la configurazione tradizionale della storia eroica di Roma tarda, artificiosa e goffa falsificazione, dovuta all'incrocio della boria d'un antico popolo conquistato (Grecia), mirante sempre a far di sé stesso il deus ex machina della storia degli altri popoli, con la boria d'un non antico popolo conquistatore (Roma), tanto lieto di vedersi creare esotici antenati e riempire di fatti grandi alcuni secoli della sua piccola e stentatissima vita, quanto dimentico di dovere la sua ascesa, prodigiosa ma recente, proprio al prolungarsi del suo "giovanile eroismo" o grossolana barbarie in tempi già colti e tra popoli già di civiltà progreditissima. Nella stessa storiografia romana, tra altre innumeri osservazioni particolari, la negazione della venuta di Enea in Italia e del riattacco di Roma ad Alba, la riduzione dei sette re a personificazioni d'istituti giuridici o religiosi, la posticipazione a tempi più bassi del complesso di riforme conosciuto col nome di "censo di Servio Tullio", e finalmente il presentare, quella attribuita al primo Bruto, quale rivoluzione, non popolare, ma "signorile", e liberante, non la plebe dal giogo patrizio, ma i patrizî dai re, i quali, da principio principi tra pari ed eletti soltanto da pari in quelle "ragunanze armate" che erano originariamente i comizî curiati, miravano a farsi monarchi. Nella storia della legislazione romana, oltre a considerazioni originalissime sulle leges Publiciae e sulla lex Poetelia-Papiria e alla dimostrazione della falsità della cosiddetta lex regia de imperio, la tesi ultramoderna del carattere non esotico, non unitario e non ufficiale delle XII Tavole, asserite, non imitazione riflessa, per opera dei leggendarî decemviri e del loro leggendario collaboratore Ermodoro da Efeso, di leggi ateniesi e spartane, ma spontanea opera collettiva di tutto il popolo romano, celebrante i suoi costumi, e quindi cantante anch'esso una sorta di epopea nazionale, mercé una serie di consuetudini giuridiche, che, da ultrabarbariche fattesi via via più civili, e affidate per secoli alla sola tradizione orale, vennero raccolte in iscritto, per iniziativa privata, in tempi relativamente tardi. Nella storia del diritto romano, oltre che analisi genialissime di singoli istituti (per es., della patria potestà e del testamento, considerati sopravvivenze dell'eroico potere monarchico del pater nel regime per famiglie isolate), la definizione di tutt'intero quel diritto come d'un "poema drammatico serioso", le cui mitiche fictiones e personificazioni stanno, rispetto a "cose" e "persone vere" dell'antichissimo diritto eroico, in analogo vincolo di derivazione e dipendenza dei mitici tipi o maschere o "personaggi finti" della commedia nuova nei riguardi dei "personaggi veri" di quell'antica. Nella storiografia medievale, la piena comprensione e, con questa, la giustificazione storica del Medioevo, inteso come un provvidenziale ringiovanimento barbarico della non più vitale Europa romana, e un non meno provvidenziale ricorso della psicologia, mentalità, usi, costumi, incultura di tutta la vita, insomma, dei primitivi tempi eroici, perché, non la sola Europa, ma quasi tutta l'umanità delle nazioni" potesse ascendere a quella forma altissima di civiltà che caratterizza i tempi moderni. Nella critica dantesca, la considerazione rivoluzionaria di Dante come d'un Omero ricorso, cioè come d'un barbarico cantore del barbarico eroismo ritornato, e il riporre la sua grandezza né nella sua troppa filosofia e teologia (inciampo, anziché aiuto all'irrompere della sua poesia), né nelle sue tanto celebrate allegorie (superfetazioni dalle quali giova piuttosto prescindere), bensì proprio nell'umile significato letterale, oggettivante in modo sublime la sua psicologia di divino poeta, volto sempre a cose alte, ardente di virtù pubbliche e grandi, cupido di nient'altro che di gloria e immortalità. Se ne vuole di più? Quasi a mostrare di che cosa sarebbe stato capace il suo genio, qualora egli avesse potuto rompere il cerchio di ferro della sua antiquata e povera cultura filologica e storica, il V., pur non conoscendo una parola sola di tedesco, previde il partito immenso che gli studî storico-filologici avrebbero tratto dall'epica e dalle antichità germaniche; e, pure attraverso le notizie generiche, monche e dispregiatrici che si cominciavano ad avere in Italia del teatro "inghilese", intravide che proprio in quel teatro c'era qualcosa che, per grandezza di poesia eroico-barbarica, poteva stare accanto ai poemi di Dante e di Omero.
8. L'oscurità vichiana. - Prima forma di codesto complesso di ricerche, al quale soltanto dal 1724 il V. prenderà a dare il titolo "invidioso" di Scienza nuova, furono talune annotazioni, oggi perdute, al primo e secondo libro dell'opera groziana, che egli cominciò a stendere intorno al 1717, ma poi intermise "sulla riflessione che non conveniva a uom cattolico di religione adornar di note opera di auttore eretico". Ben presto, per altro, tornava sull'argomento così in una prolusione del 1719 (18 ottobre), come in una più ampia trattazione, o abbozzo di più ampia trattazione, in tre libri, l'una e l'altra restate inedite, e di cui oggi non avanzano se non piccoli frammenti. Intero e a stampa c'è pervenuto, invece, quell'altro abbozzo della futura Scienza nuova (come lo definì poi lo stesso autore) che si conosce col nome di Diritto universale. Consta d'una sorta di manifesto (Sinopsi del diritto universale), pubblicato in foglio volante nel giugno del 1720; d'un primo libro, prevalentemente giuridico, intitolato De universi iuris uno principio et fine uno (luglio 1720); d'un secondo e più ampio libro (De constantia iurisprudentis), prevalentemente filosofico-storico, suddiviso in due parti, intitolate rispettivamente De constantia philosophiae e De constantia philologiae (agosto 1721); e finalmente d'una lunga serie di Notae (agosto 1722), ossia di correzioni, aggiunte e dissertazioni così fondamentali da dovere essere considerate, quali furono poi le varie stesure della Scienza nuova, nuova elaborazione del pensiero vichiano.
Chi, dopo il De antiquissima e le Risposte al "Giornale de' letterati", legga il Diritto universale, e ancora più le due Scienze nuove, ha l'impressione di trovarsi al cospetto d'un altro Vico. Quel filosofo, già così calmo e riflessivo, prende ora a comporre le sue opere in uno stato di rapimento e di ebbrezza: tanto che i suoi scritti, modello sin allora di compostezza scientifica, assumono sempre più il tono d'un'alta, ispirata, ieratica poesia. Si direbbe quasi che l'irruzione d'una luce così abbagliante nel suo spirito determinasse in lui press'a poco quel profetico furore che aveva prodotto ai loro tempi gli Ezechiele e gli Isaia; o anche che, di mano in mano che penetrava nella mentalità, prevalentemente poetica e fantastica, degli uomini primitivi, egli la facesse sempre più sua. Giacché, via via che il suo pensiero si potenzia in profondità, la sua prosa diventa, sì, più alta, più solenne, più poetica, tutta apoftegmi lapidarî (le "degnità" della seconda Scienza nuova), immagini robuste e frasi scultorie, ma, al tempo stesso, da fluida si trasforma in torbida, da pacata in nervosa, da ordinata in disordinata, da metodica in confusa; e, ch'è più, la sua tendenza a fondere e confondere l'indagine filosofica con la ricerca storica si accentua con un crescendo spaventoso. Peggio: la giustissima teoria che i fatti umani siano retti da leggi ideali rinvenibili tutte nello svolgimento dei fatti stessi, lo indusse a non contentarsi d'aver dato vita a una nuova filosofia e a una nuova storiografia, ma a costruirvi accanto, empiricamente, cioè generalizzando e spesso sforzando taluni avvenimenti singoli, anche una scienza sociale, mirante a stabilire, nella triadica successione dei tempi oscuri, favolosi e storici, una successione universale, parimente triadica, di tutte le manifestazioni teoretiche e pratiche dell'attività umana (lingue, costumi, governi, diritti, ecc.), ossia una "storia ideale eterna" o "corso uniforme delle nazioni", che, svolto il suo ciclo, sfocia in un "ricorso", e così, circolarmente, all'infinito: storia ideale eterna, confusa a volte con la filosofia, a volte con la storiografia, a volte con l'una e con l'altra insieme, e che, dovunque e comunque, esercita ufficio perturbatore e oscuratore. A noi, che abbiamo visto riscoprire le sue scoperte lungo il sec. XIX, e talora attraverso le confusioni ed errori in cui egli era caduto, riesce ormai possibile, se non sempre facile, penetrare nel suo pensiero e rendere omaggio al suo genio. Ma sui suoi contemporanei, che, dal loro irrigidimento in viete formole cartesiane, erano trasportati tutt'a un tratto in un mondo di cui non sospettavano nemmeno l'esistenza, le nuove opere del V. dovevano pur produrre, come produssero, l'effetto della cima d'un monte altissimo a chi, contro voglia, debba guardarlo dall'ima valle in una giornata di gran nebbia. Naturale che essi, i quali avevano pur lodato il De studiorum ratione e discusso il De antiquissima, restassero gelidi di fronte al Diritto universale e alle due Scienze nuove, quando non prorompessero in motteggi e persino dubbî sull'equilibrio mentale dell'autore. Ma, poiché, d'altro canto il V., insieme con la coscienza piena del suo genio, aveva poco men precisa l'altra dell'oscurità del suo pensiero, naturale altresì che la costante incomprensione del pubblico e l'affannosa autocritica, con cui si dié tormentosamente a ricercare la causa di quell'oscurità senza riuscire mai a trovarla, gli rendessero quegli anni non solo i più fecondi ma anche i più tragici della sua travagliata esistenza.
9. Dal 1723 al 1732. - Tanto più che, in quegli anni appunto, la sfortuna s'accanì maggiormente a perseguitarlo. Un bando di concorso per una cattedra di diritto romano, retribuita con uno stipendio sei volte maggiore dei suoi cento ducati, gli aveva fatto sperare per un momento che anche la sua casa buia e desolata fosse per essere rallegrata da un raggio di sole. Ma, nonostante la fiducia con cui s'iscrisse fra i concorrenti (24 marzo 1723) e la dotta facondia con cui parlò (24 aprile) intorno al tema assegnatogli, la cattedra venne data a un Domenico Gentile; e a lui, l'autore del Diritto universale, non si elargì nemmeno l'elemosina di una classificazione. Fu un colpo così fiero che, ancora nel discorrerne anni dopo, la voce gli si velava di lagrime. Ma non altronde - soggiungeva - si può intendere apertamente che il V. fosse nato per la gloria della patria (Napoli) e, in conseguenza, dell'Italia, perché quivi nato, e non in Marocco, esso riuscì letterato", quanto dal fatto che "da questo colpo di avversa fortuna, onde altri avrebbe rinunziato a tutte le lettere, se non pentito di averle mai coltivate, egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere". E, invero, fin dal 1723 disfaceva la tela tessuta nel Diritto universale per ritesserla, con elementi più copiosi e altro ordito, in una nuova trattazione in due libri: l'uno polemico, ove ricercava le origini della civiltà "per via d'inverisimiglianze, sconcezze e impossibilità di tutto ciò che gli altri ne avevano più immaginato che ragionato"; l'altro, conseguenza del primo, ove, stabilito non solo contro stoici ed epicurei dell'antichità, ma anche contro stoici ed epicurei dei tempi moderni (Hobbes, Spinoza, Bayle e Locke) il principio della provvidenzialità della storia, spiegava la genesi dei costumi umani mercé una cronologia ragionata del tempo oscuro e favoloso dei greci. E già la Scienza nuova in forma negativa, secondo si suol designare questa opera oggi perduta, era stata approvata dal revisore ecclesiastico; già il cardinale fiorentino Lorenzo Corsini, poi papa Clemente XII, ne aveva accettato la dedica (dicembre 1724), venendo per tal modo, giusta l'uso del tempo, a impegnarsi tacitamente a sopperire in tutto o in parte alle spese di stampa; allorché, nel luglio del 1725 giungeva al V. la notizia che spese più urgenti impedivano al Corsini di rendergli siffatto servigio. "Lettera di Sua Eminenza Corsini, che non ha facultà di somministrare la spesa della stampa dell'opera precedente alla Scienza nuova, onde fui messo in necessità di pensar questa dalla povertà, che restrinse il mio spirito a stamparne quel libricciuolo, traendomi un anello che avea, ov'era un diamante di cinque grani di purissima acqua, col cui prezzo potei pagarne la stampa e la legatura degli esemplari del libro, il quale, perché mel trovava promesso a divulgarlo, dedicai ad esso signor cardinale": - questa la postilla dolorante che, pochi mesi dopo, il V. appose su quella missiva così crudele. E il "libricciuolo", ove, disfacendo la Scienza nuova in forma negativa, riuscì, in poco più di un mese (agosto-settembre 1725), a condensarla "in forma positiva" in soli dodici fogli di stampa, furono quei mirabili Principî di una scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, pubblicati a Napoli nell'ottobre 1725 e conosciuti, come il V. medesimo prese a chiamarli, col nome di Scienza nuova prima. È necessario ripetere che l'accoglienza fattale dai Napoletani rinnovò nell'autore i dolori e le delusioni provati nel pubblicare il Diritto universale? "Sfuggo - scriveva il 25 ottobre 1725 - tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro a' quali l'ho io mandata: ché, se per necessità egli addivenga, di sfuggita li saluto, nel quale atto, non dandomi essi neppure un riscontro di averla ricevuta, mi confermano l'opinione di averla io mandata al diserto". E, intanto, il suo primogenito Ignazio, che, aborrente dagli studî, egli era riuscito a impiegare nella dogana di Napoli, s'invischiava in amorazzi, e, se è vera una tarda leggenda, commetteva tante capestrerie da costringere il padre a invocare l'aiuto della polizia, salvo poi, nel vedere da lontano i birri, a gridare allo sciagurato: "Figlio mio, salvati!"; - ai suoi tanti malanni s'aggiungeva un'ulcera cancrenosa alla gola, che gli divorava "quasi tutto ciò ch'è al di dentro tra l'osso inferiore della testa e 'l palato"; - e, non ultimo fra codesti dolori, vedeva spirare a soli ventiquattro anni donna Olimpia Cimmino marchesa della Petrella, bellissima dama che lo confortava e sorreggeva e che egli amava con affetto paterno. Ma in quell'uomo straordinario, avversità, dolori, malattie, miseria erano stimoli a salire su vette sempre più alte. Nello scorcio del 1725 scriveva la prima parte della stupenda Autobiografia, pubblicata a Venezia tra il 1728 e il '29 e a cui, per invito avutone dal Muratori, faceva nel 1731 un'importante "aggiunta", pubblicata postuma nel 1818; - dal 1725 al 1728 dava, in quattro lettere a Gherardo degli Angioli, all'abate Esperti, al gesuita francese De Vitry e a Francesco Saverio Estevan, meravigliosi saggi critici sull'indole della vera poesia, su Dante, sulla condizione degli studî in Europa nei primi decennî del Settecento e sul cartesianismo; - di quel tempo sono le sue due migliori orazioni funebri: una (1724), in morte di Anna d'Aspermont contessa d'Althann, notevole per una densa digressione sulla guerra di successione spagnola; l'altra, commoventissima, in morte appunto della Cimmino (1727), ricca di fini osservazioni di psicologia morale; - circa il 1728 tornava su Dante - e finalmente, quasi "generosa vendetta" del torto fattogli dall'università, proprio dal 1723 al 1732 intensificava i suoi sforzi nell'educare nella sapienza e nella virtù, oltre che nell'eloquenza, i giovani che accorrevano sempre più numerosi alle sue lezioni, ufficiali e private, parlando tutti i giorni "con tal splendore e profondità di varia erudizione e dottrina come se si fussero portati nella sua scuola chiari letterati stranieri", e offrendo loro, il 18 ottobre 1732, quasi canto del cigno, la poetica prolusione intitolata De mente heroica. Piccole fragilità non mancarono, al certo, in una vita così piena di coraggio, d'abnegazione e di sacrificio; e qualche volta la collera e il troppo ombroso amor proprio gli furono pure cattivi consiglieri. P. es., allorché chissà qual letteratucolo napoletano fornì a Giovanni Burcardo Mencken gli elementi per inserire negli Acta eruditorum di Lipsia (1727) una noterella, più sciocca forse che maligna, ove si diceva, tra l'altro (ed era vero), che la Scienza nuova era stata accolta dagl'Italiani più con tedio che con profitto, il V. ebbe il torto di pubblicare (1729), col titolo di Vindiciae, un opuscolo furibondo e tanto più grottesco in quanto, anche a prescindere dalla sproporzione tra quella parva favilla e un così gran fuoco d'ira, stridono grandemente le delucidazioni sull'opera sua e anche una bella digressione sul riso con tutta una serqua di contumelie, rivolte in un magnifico latino a quel letteratucolo, o, com'egli scrive, ignotus erro, degno, a suo dire, d'esser trascinato al rogo a schiena d'asino. Così ancora, mentre, tra il 1728 e il 1729, a iniziativa del conte Gian Artico di Porcìa, del padre Carlo Lodoli e di Antonio Conti, si doveva pubblicare a Venezia una nuova edizione della prima Scienza nuova, per la quale l'autore aveva inviato altresì un grosso volume manoscritto di Annotazioni, oggi disperso, bastò che il tipografo uscisse a trattare con lui "come con uomo che dovesse necessariamente far ivi stampare la sua opera", perché, "entrato in un punto di propia stima", e nulla curando che né a Napoli né altrove si sarebbe trovato un editore che se ne addossasse le spese tipografiche, fu irremovibile nel rivolere indietro il manoscritto. Sennonché questi scatti, che finivano col far male soltanto a lui, e ancora "le maniere troppo risentite", e spesso mordacissime, con le quali inveiva contro "gli errori d'ingegno e di dottrina o 'l mal costume de' letterati suoi emuli", e persino certe fanciullaggini, alle quali ricorreva talora per procurarsi artificiosamente un po' di lode, erano un bisogno per i suoi nervi scossi. Senza dire che anche nelle sue collere sapeva trovare nuovi stimoli per affinare e approfondire il suo pensiero. Giacché proprio la duplice disavventura ora ricordata lo indusse a sottoporre la sua mente a un più possente sforzo, per cui, disfacendo una volta ancora la sua tela, riuscì in soli centosette giorni (25 dicembre 1729-9 aprile 1730) a porre insieme, "con estro quasi fatale", quel capolavoro che è la seconda Scienza nuova.
10. Ultimi anni (1732-1744). - Con la pubblicazione di questa (ottobre 1730), il V. cominciò a trovare una pace, che nel 1732 o 1733 si può dire pienamente raggiunta. Quei due nemici implacabili che fin allora gli avevano reso amara la vita - l'incomprensione del pubblico e la perenne insoddisfazione di sé medesimo -, erano ormai vinti. Non che la seconda Scienza nuova venisse accolta con maggiore intelligenza della prima: se mai, fu l'opposto. Tuttavia la fama del V. minore - del V. latinista, del V. educatore e persino del V. versificatore - divenne più generale e più salda. D'altra parte, l'elevatezza del suo senso morale, l'illibatezza della sua vita, spesa tutta in servigio degli studî, il fascino stesso che emanava dalla sua persona, finivano col creargli un ambiente di rispetto e venerazione. E per ultimo, divenuta Napoli, da vicereame austriaco, regno indipendente con Carlo di Borbone (1734), bastava ch'egli chiedesse la carica di storiografo regio, perché gli venisse conferita con un dispaccio altamente onorevole e altri cento ducati l'anno (21 luglio 1735), quasi al tempo stesso che, mercé la riforma dell'università (1735), dovuta al nuovo cappellano maggiore Celestino Galiani si raddoppiava il gramo stipendio. E se, per ciò che concerne la vita familiare, ebbe il dolore di perdere il già ricordato figlio Ignazio (1737), dolci compensi davano al suo cuore paterno la figlia Luisa, colta versificatrice, e segnatamente l'altro figliolo, Gennaro (1715-1806), il quale, quasi appena ventenne (1737), lo coadiuvava già nella cattedra e nel 1742, giubilato il padre, gli divenne stabilmente successore. Sennonché tutto ciò sarebbe stato nulla se, sorretto dalla sua viva fede religiosa e illuminato dal suo potente senso storico, il V. non fosse riuscito ad applicare alla sua vita individuale il principio, a lui tanto caro, della provvidenzialità della storia, così col rassegnarsi al compito penoso di chi getti un seme che sarà raccolto soltanto più tardi, come col convincersi che, poiché chi vive nel suo secolo muore con esso, l'incomprensione nel presente è pur necessaria quando s'aspiri, in un avvenire più o meno lontano, all'immortalità.
Quando quest'ultimo e più doloroso sforzo, iniziato già dal tempo della prima Scienza nuova, giunse, appunto intorno al 1732, a piena perfezione, egli si sentì tutt'altro uomo. Cessarono "gli stimoli di più lamentarsi della sua avversa fortuna e di più inveire contro la corrotta moda delle lettere" giacché vedeva ora che, senza codesta moda, senza codesta sfortuna, non sarebbe mai giunto a tanta altezza di pensiero. L'animo suo fu "informato come di un certo spirito eroico, per lo quale non più lo perturbava alcun timore della morte", e l'indifferenza del pubblico, fonte già per lui di tante collere e tanti dolori, lo lasciava "non più curante". Gli pareva, anzi, che il "giudizio di Dio" lo fermasse "sopra un'alta adamantina ròcca" donde scorse che rendere giustizia all'opera sua non si poteva già dalla piccola e, in fondo, buona gente tra cui viveva, ma soltanto da "saggi" pari a lui, i quali "sempre e dappertutto furono pochissimi uomini di altissimo intendimento e di erudizione tutta propria, generosi e magnanimi, che non altro studiano che conferire opere immortali nel comune delle lettere". Più difficile, anzi impossibile, gli sarebbe riuscito vincere il suo secondo e ben più terribile nemico, se la Provvidenza non gli avesse dato l'illusione che la causa, affannosamente cercata, della propria oscurità mentale, era finalmente trovata. Sì - egli si disse - fino alla seconda Scienza nuova, il suo pensiero era stato effettivamente oscuro. Ma non per altro che per difetto di metodo. I principî generali, da cui derivavano tutte le sue scoperte filosofiche e storiche, non erano stati fissati fino allora con sicurezza. La "sapienza poetica", che di quelle scoperte era la maggiore, non era stata esaminata, come si sarebbe dovuto, in tutte le sue parti. La genesi dei poemi omerici era stata per l'addietro più intravvista che vista. E finalmente il "corso uniforme" e soprattutto il "ricorso delle nazioni (la scienza empirica sociale e il ritorno periodico. degli avvenimenti umani) restavano, nell'insieme del sistema, ancora incerti. Ora non più. Allo "stabilimento dei principî", parte dei quali enunciati, matematicamente, in forma di assiomi o "degnità", era consacrato il primo libro della seconda Scienza nuova; alla "sapienza poetica" e alle sue suddivisioni il lunghissimo secondo libro; corollario di questo era la "discoverta del vero Omero", trattata nel terzo; nel quarto e nel quinto il "corso uniforme delle nazioni" e i "ricorsi" trovavano separato e adeguato svolgimento. Tutte le esigenze metodiche erano soddisfatte, e bastava leggere l'opera con congrua preparazione, mente pura e animo scevro da preconcetti per esserne conquiso. Era, come s'è detto, un'illusione, giacché, malgrado un così bell'ordine estrinseco, nella Scienza nuova seconda le tenebre, anziché diradarsi, s'infittiscono. Ma quell'illusione appunto lo salvò dalla disperazione o, quanto meno, gli risparmiò quattordici anni d'inutili tormenti.
Sua cura precipua fu, non più di diroccare l'edificio dalle fondamenta per ricostruirlo ex novo, ma di ritoccarlo minutissimamente in tutti i particolari. Già negli ultimi mesi del 1730 aveva pubblicato, l'una nella forma di errata-corrige, l'altra in quella di lettera a Francesco Spinelli principe della Scalea, due serie di Correzioni, miglioramenti e aggiunte; due altre serie, estesissime e che si serbano ancora autografe, furono messe insieme fra il 1731 e il '33; e intorno al 1734 il V., rifondendo testo e correzioni in un tutto organico, e ora aggiungendo ancora, ora potando, dava dell'opera, restata immutata nelle linee generali, un'ultima rielaborazione letteraria, alla quale sino agli ultimi mesi del 1743 faceva nell'autografo, anch'esso giunto a noi, altre giunte e correzioni. Per poco che quest'ultima redazione, conosciuta anche col nome di Scienza nuova terza e pubblicata postuma nel giugno 1744, avesse, lui vivente, visto la luce in veste tipografica degna, egli avrebbe avuto un momento almeno di felicità. Ma, proprio nel momento che se ne iniziava la stampa e il cardinale Troiano Acquaviva d'Aragona ne accettava la dedica, dichiarandosi pronto a fare ciò che nel 1725 non aveva potuto o voluto il Corsini, il V., ridotto ormai una larva, si poneva a letto per non levarsi più. Ancora il 10 gennaio 1744 trovava la forza di scrivere o dettare la dedica all'Acquaviva; e dodici giorni dopo, nella notte fra il 22 e il 23 gennaio, chiesti egli medesimo i sacramenti e date, con la maggiore serenità, le disposizioni per i proprî funerali, mostrava come sapesse lasciar la vita chi, secondo il suo ideale del filosofo, congiungesse, nel grado eminente di lui, la religiosità e la saggezza.
Opere: Un'edizione critica delle Opere in otto volumi, dei quali il secondo in tre, il quarto in due parti, è stata iniziata negli Scrittori d'Italia del Laterza da F. Nicolini, che ha avuto collaboratori, per il primo volume G. Gentile, per il quinto B. Croce. Di essa sono comparsi finora i volumi: I (1914), Orazioni inaugurali, De studiorum ratione, De antiquissima e polemica col Giornale de' letterati; II (1936), Diritto universale; III (1931), Scienza nuova prima e Vindiciae; IV (1928), Scienza nuova seconda (testo del 1744 con le varianti dell'edizione del 1730 e delle redazioni intermedie mss.); V (1929), Autobiografia, carteggio e poesie varie. È in corso di stampa il VI consacrato al De rebus gestis Antonii Caraphaei e al De parthenopea conjuratione: negli altri due verranno raccolti tutti gli scritti minori. Per questi conviene ricorrere ancora alla seconda tra le due edizioni delle Opere curate da G. Ferrari (Milano 1852, in voll. 6). Della seconda Scienza nuova s'hanno altresì un'edizione ampiamente commentata da F. Nicolini in voll. 3 (Bari 1910-16); nonché due traduzioni tedesche, una, compiuta e annotata, del Weber (1822), l'altra, abbreviata, dell'Auerbach (1924); due traduzioni francesi, una, parziale, del Michelet (1827), l'altra, compiuta, della Trivulzio Belgioioso (1844); una traduzione parziale inglese del Nelson Coleridge (1830); una, anche parziale, polacca del Lange (1916). Del primo libro del Diritto universale esiste una rielaborazione tedesca del Müller (1854). Parecchie opere latine vennero tradotte, e taluna più volte, in italiano. Parecchie altresì le antologie: ultima e più ampia, quella a cura di F. Nicolini (Firenze 1936).
Bibl.: Tutta la letteratura critica, italiana e straniera, è indicata (e talora con excerpta e riassunti) nella Bibliografia vichiana, iniziata nel 1904 da B. Croce (raccoglitore altresì d'una ricca Collectio viciana) e, talora, con la collaborazione del Nicolini, aggiornata, mercé sei Supplementi, sino al gennaio 1936. Per un primo orientamento cfr. B. Croce, La filosofia di G. B. V. (3ª ed., Bari 1933); G. Gentile, Studi vichiani (2ª ed., Firenze 1927); F. Nicolini, La giovinezza di G. B. V. (2ª ed., Bari 1932).