Vico, Giambattista
Filosofo (Napoli 1668-ivi 1744). Si iscrisse (1688) alla facoltà di giurisprudenza dell’univ. di Napoli, ma senza seguirne i corsi, e conseguì poi la laurea, forse a Salerno, tra il 1693 e il 1694. Costretto a cercare lavoro, accettò il posto di precettore (1686-95) dei figli del marchese Domenico Rocca. In questi anni V. consolidò la sua preparazione filosofica, partecipando a quel movimento di idee che si era venuto sviluppando attorno a personalità come Tommaso Cornelio, Leonardo di Capua e Francesco d’Andrea, che conducevano un’assidua lotta contro la cultura scolastica, aprendosi alle nuove correnti della cultura europea come il cartesianismo, la filosofia di Gassendi, l’erudizione storica. In questi stessi anni, V. si dedicò allo studio del latino e si impadronì della filosofia cartesiana, verso la quale assunse però subito un atteggiamento polemico. Riprese anche gli studi di giurisprudenza, accostandosi al pensiero dei grandi teorici e storici del diritto francesi e olandesi, e affinò la sua cultura letteraria. Nel 1699 fu nominato lettore d’eloquenza all’università. La prolusione pronunciata il 18 ott. 1708, all’apertura dell’anno scolastico, e pubblicata l’anno seguente con il titolo De nostri temporis studiorum ratione, segna la prima affermazione originale del pensiero vichiano. Negli anni seguenti, approfonditi i suoi studi platonici, V. compose il De antiquissima Italorum sapientia ex latinae linguae originibus eruenda, che doveva constare di tre libri (uno sulla metafisica, con un’appendice sulla logica, uno sulla fisica e uno sull’etica) e di cui invece uscì soltanto il primo libro (1710) col sottotitolo di Liber metaphysicus. Col materiale preparato per il secondo libro, sulla fisica, V. compose nel 1713 un opuscolo (De aequilibrio corporis animantis), di cui sono andati perduti sia il manoscritto sia il testo a stampa. Elaborò inoltre una Risposta (1711) e una Seconda risposta (1712) ad alcune censure sul De antiquissima uscite anonime nel Giornale de’ letterati d’Italia. Incaricato dal duca Adriano Carafa di scrivere la vita del maresciallo Antonio Carafa (De rebus gestis Antonii Caraphaei) fra il 1713 e il 1715, iniziò a studiare il De iure belli et pacis di U. Grozio, che da allora considerò come il quarto dei suoi «autori» dopo Platone, Tacito, Bacone. Frattanto portò a termine i primi abbozzi della Scienza nuova: annotazioni all’opera di Grozio, una prolusione del 1719, una trattazione in tre libri, che sono andati quasi completamente perduti, mentre ci è pervenuto il Diritto universale, composto di una specie di manifesto stampato in foglio volante (Sinopsi del diritto universale, 1720), di due libri (De universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis), e di una lunga serie di Notae (1722). Quindi V. si dedicò alla ricomposizione dell’opera solitamente designata come la Scienza nuova in forma negativa, oggi perduta, che fu poi riscritta e condensata (1725) nei Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, stampati a Napoli a sue spese nel 1725 e da lui stesso chiamati poi col nome di Scienza nuova prima. Dal 1725 al 1728 diede, in quattro lettere, notevoli saggi critici sull’indole della vera poesia, su Dante, sulla condizione degli studi in Europa, sul cartesianismo e le due sue migliori orazioni funebri, mentre si intensificava la sua attività didattica, che aveva sempre più successo fra i giovani. In seguito pubblicò un opuscolo (Vindiciae, 1729) contro un denigratore della Scienza nuova, andato disperso, e infine (1729-30) la seconda Scienza nuova, alla quale durante gli ultimi anni V. non smise mai di aggiungere commenti, note, correzioni, che, nuovamente rielaborati e fusi nel testo, costituirono la Scienza nuova terza, uscita postuma nel 1744. Accostatosi attraverso Grozio e la tradizione erudita antica e moderna ai problemi della storia, V. si avvia a costituire una nuova scienza, la scienza dell’accadere storico. Questa è l’ispirazione centrale della Scienza nuova: una scienza della storia è possibile perché il mondo della storia è fatto dagli uomini, per cui se ne possono ritrovare i principi e le leggi «entro le modificazioni della nostra medesima mente umana». Il «mondo delle nazioni o sia il mondo civile» diviene così l’oggetto proprio della «scienza nuova» che unirà filologia e filosofia, cioè il «certo» offerto dall’erudizione storica con il «vero» della filosofia che indica le idee e le leggi eterne che governano la storia. Compito della filosofia sarà dunque quello di contemplare «questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna», in stretto rapporto con la verifica, che potremmo dire «sperimentale», data dalle ricerche della filologia. Così la «nuova scienza viene a essere a un fiato una storia delle idee, costumi e fatti del genere umano». La storia si svolge secondo V. scandita da una successione di momenti che riproducono le tappe dello sviluppo stesso dell’uomo: come in questo vediamo un succedersi di senso, fantasia e ragione, così nella storia si succedono l’età degli dei, degli eroi e degli uomini. La prima è l’età in cui gli uomini erano come «bestioni» in una condizione di vita ferina, da cui, lentamente, sotto l’incombente e ostile realtà naturale, uscirono scoprendo la divinità, le leggi morali, e quindi istituendo i primi legami sociali. Inizia così il processo di incivilimento, fino all’età della dispiegata ragione, l’età degli uomini: processo che è guidato dalla provvidenza secondo disegni grandiosi che sovrastano i particolari fini perseguiti dagli uomini; da questo punto di vista la scienza nuova si vuole configurare come «teologia civile ragionata della provvidenza». Particolare importanza assume, nel quadro storico tracciato nell’opera, lo studio delle prime fasi della vita degli uomini: V. dà valore e significato positivo a questi momenti aurorali, primitivi, barbari, che ricordano la fanciullezza dell’uomo: i tempi della nascita del linguaggio, della piena espressione della «fantasia», della creazione dei grandi miti e della poesia. Ma la storia umana non realizza un processo lineare: dalla «dispiegata ragione» gli uomini cadono nella «barbarie della riflessione» fino alla negazione di Dio: così gli uomini ritornano in una nuova barbarie da cui ricomincia un nuovo «corso» della storia. Esempio di questa caduta è il Medioevo, «nuova barbarie», con il suo lento riscoprire linguaggi, miti, organizzazioni civili. Si compie così in corsi e ricorsi, che non comportano il ripetersi di accadimenti individuali ma il ritorno di analoghe forme storiche, la storia delle nazioni in cui sempre «architetto» è la divina provvidenza.