TIEPOLO, Giambattista
Pittore e incisore. Nacque a Venezia nel 1696, morì a Madrid nel 1770. Per l'evidenza stessa della sua grandezza fu il primo e per un certo tempo l'unico artista del Settecento veneziano largamente considerato, dopo la carneficina estetica neoclassica. E deriva dall'averlo visto quasi contro genio, come "monstrum", senza la prospettiva di tutto il secolo pittorico su cui campeggia, ma da cui nasce, ed entro cui domina, se la sua figura non ci si presenta chiara come dovrebbe. Messo da banda Gregorio Lazzarini, a lui giovanetto posto a fianco dalla madre, come maestro di grido, in quanto nulla poteva dargli col suo vacuo dipingere nei modi del Forabosco, è ormai chiarito che suo iniziatore fu Giambattista Piazzetta, il più alto pittore veneziano di allora, veramente fatto per serrare la fantasia focosa del giovanetto entro le briglie della forma e della composizione. Da ciò il distacco netto dalla generazione, di poco precedente, di quei coloristi effusi, quali l'Amigoni, il Pellegrini e il Crosato.
Ma i rapporti col Piazzetta vanno stabiliti con precisione per evitare le confusioni e le false attribuzioni. Nel periodo che corre dal 1716, data delle opere sicure dell'Ospedaletto, che sono i Ss. Simone e Matteo e il Sacrificio d'Isacco, sebbene alquanto più tardo, alle Anime purganti della chiesa di S. Pantalon (1720-22), oggi a Brera, periodo che comprende certamente il Martirio di S. Bartolomeo (1718 c.) a S. Stae, la Probatica piscina delle Gallerie Veneziane, e soprattutto la Crocifissione di Burano, non è l'abbondanza che ci aiuta, ma la certezza. E questa certezza se ci prova che il T. fu ligio al maestro, quasi sino a confondersi con lui, e s'impadronì del suo metodo di chiaroscuro pittorico, necessario alla consistenza della figura, che doveva lanciare e librare nei cieli, a ben vedere c'insegna anche che il pittore, interessato appunto più dalla padronanza della forma che dall'interiorità, si esimeva dall'accettare dal Piazzetta il gusto di quel rugiadoso fermento, che il maestro aveva avuto dal Crespi a Bologna. Egli preferì forme decise e quindi, come fu notato dal vecchio Moschini, accolse certa nervosità propria di quel sosia del Piazzetta che fu Federico Bencovich; per cui parve talvolta "caricato" e persino scomposto. E fu forse anche la detta nervosità a conciliargli il contatto con l'arte di Sebastiano Ricci, salvata dalle eccessive effusioni pittoriche dal gusto della pennellata costruttiva, raggiunta attraverso al Magnasco. Con lui, artista già per molti lati pretiepolesco, il pittore comprese che, per affrontare i campi cosiddetti decorativi, i più ambiti dal "figurista", che il suo genio anelava, occorreva uscire dai colori bassi e infocati, ma troppo locali, bisognava dimenticare i lussi delle penombre, per rischiarare decisamente la paletta, riprendendo la via che Paolo Veronese aveva insegnato senza troppa fortuna ai veneti oltre un secolo prima. E un'altra cosa ancora: di non far risaltare le tinte su fondi oscuri e serrati, ma di portare in questi la massima luce, di modo che i colori più solidi fossero posti a dare consistenza ai primi piani. Ma non si creda fosse tutta dovuta al Ricci la lunga via che trionfalmente percorse il T. in questa direzione; perché il vecchio pittore, mancato nel 1734, ebbe ancora tempo, con la sua versatilità gioconda, d'imparare dall'imitatore geniale. Il primo impulso però venne da lui; ed è il graduale affacciarsi delle sue scoperte pittoriche a permetterci di datare le tappe vittoriose dell'attività del maestro. Nel palazzo Dolfin a S. Pantalon; per cui decorò tutto il salone centrale (poco tempo dopo le Anime purganti), sebbene dia al suo magico pennello un respiro gigantesco, non ancora osato, è la tela a bastargli; e spetta a quel tempo, in cui l'effetto è raggiunto piuttosto per via del tragico che del lieto, e con l'ardore aggressivo della pennellata roggia, il giuoco dei corpi possenti di piazzettesca efficacia del Serpente di bronzo, già fregio nella chiesa dei Ss. Cosma e Damiano oggi alle Gallerie, di Agar e Ismaele della scuola di S. Rocco a Venezia e della Storia biblica di Verona; tutti dipinti mobili.
L'esordio del T. vero dobbiamo cercarlo nell'affresco, del quale vediamo le sicure primizie nel soffitto del palazzo Sandi Porto col Trionfo dell'Eloquenza nel mezzo, e attorno quei "geroglifici", cioè chiaroscuri, che sono l'ultimo squillo del Secentismo superato ma fondamentale. Non è il gaio maestro che conosceremo subito dopo, lo annuncia però. La prima tappa vittoriosa è quindi il complesso dell'arcivescovado di Udine, a cui si collega, sebbene mal giudicabile per i restauri, la cappella del Santissimo nel duomo (il soffitto della Purità fu fatto, invece, dopo il 1750).
Nella Caduta di Lucifero lungo la scala dell'arcivescovado e nel Giudizio di Salomone, come nel voltino con la Gloria di S. Teresa agli Scalzi di Venezia è ancora il Piazzetta che affiora, ma nelle pareti delle Gallerie (il soffitto è di scuola al pari dei Profeti laterali dell'altra stanza) il T. erompe come una fanfara (1730 circa). Nella Rachele che nasconde gl'idoli e nelle Storie di Abramo, il maestro mostra di aver trovato quella strada che fu sua per sempre; ove le forme saettanti si snodano sopra fondi abbaglianti, con poche graduazioni, ottenute facendo valere il bianco stesso della calce.
Giunti a questo punto, cerchiamo di prospettare i momenti più alti dell'attività del T., inseguendolo attraverso le sue esperienze trionfali, conteso da principi e da sovrani, allietati così e insieme riflessi nella sua arte mondana e maliosa.
La fama volò subito al di là della Laguna, e dopo il complesso di Udine eccolo chiamato a Milano per gli affreschi del palazzo Archinti, datati 1731 nel salone; cui tengono dietro le pitture della cappella Colleoni a Bergamo (1732-33). Nello stesso tempo dipinse le grandi tele della parrocchiale di Verolanuova nel Bresciano. Dalla Lombardia passò alla villa di Biron nel Vicentino (1734), per far ritorno a Milano, chiamato ad affrescare nella cappella di S. Satiro e nella sua sacristia a S. Ambrogio. Nel 1738-39 lavorò nel soffitto dei Gesuati a Venezia; poi lo rivediamo nella capitale della Lombardia a dipingere nel palazzo Dugnani e Clerici, e il soffitto Gallarati Scotti con la Nobiltà e la Saggezza, condotto su uno schema che riapparirà, con poche varianti, tanto nel palazzo Caiselli a Udine, quanto nel palazzo Michieli dalle Colonne a Venezia, entrambi ora di proprietà delle Gallerie. Fu la conclusione mattutina di tanta bravura la famosa serie degli affreschi della villa Valmarana presso Vicenza, vero trionfo del suo fare più lieto, tanto nel corpo centrale di ariostesca fantasia, quanto nella foresteria a cineserie, scherzi di putti e feste villerecce, laddove un cartellino compiacente segna l'ingresso in arte del figlio Giandomenico, con quella data del 1737 che non gli converrebbe, essendo bastante meraviglia dipingesse a quattordici anni intorno al 1740.
Prossima per stile è la decorazione della scuola del Carmine a Venezia, col Trionfo della Vergine (1743 circa), che doveva subito dopo spiccare maggior volo nella Santa Casa sul soffitto degli Scalzi, sciaguratamente distrutto da una bomba durante la guerra mondiale, al pari degli affreschi nella villa Soderini a Nervesa sul Piave; dove, per ottenere effetti luminosi inauditi, divise il campo allegorico maggiore con la gloria in due parti, fra cui filtrava la luce da opportune finestre. È qui che la collaborazione di aiuti, necessaria a tanta vastità di opere, si palesa con dichiarata sincerità, nell'opera di Francesco Zugno. Altrove, a Verona, sarà il Lorenzino ad aiutare; ma poi questa parte ligia e devota sarà serbata quasi sempre ai figli Domenico e Lorenzo.
Con l'aumentare della fama in patria, giunsero anche i richiami dall'estero, sebbene alcuni, come quello di Pietroburgo, rifiutati. Così, se non nell'Austria tanto veneziana, dominata da una scuola gelosa, il T. si spinse in Baviera, a Würzburg, per dipingere magnificamente il salone imperiale e lo scalone della residenza (1751-53). Ai trionfi stranieri tennero dietro le commissioni lagunari; ed egli passò, subito dopo il ritormo, dai due soffitti del Palazzo Rezzonico (1758) ai più bei complessi di figura con le architetture illusorie del palazzo Labia, e infine all'ornato tanto aereo della chiesa della Pietà. E fuori di Venezia basti ricordare il salone del Palazzo Canossa a Verona (1760) e quello della villa Pisani a Stra, gli affreschi Contarini di Mira (ora a Parigi, Museo Jacquemart-André) e della villa Cortellina a Montecchio (1747). Tutto un mondo che pareva dar ali e voli alle pareti.
Vecchio ma non stanco, il maestro non s'impaurì d'intraprendere il più lungo dei suoi viaggi, che fu senza ritorno, verso la Spagna, dove giunse per via di terra, nel 1762. Ivi lo attendeva l'eredità dell'Amigoni e del Giacquinto, a cui volle forse fare omaggio dipingendo con toni d'argento, contro un cielo fitto di nubi, la sala della guardia, ma come preludio per arrivare agli squilli più alti e alle più squisite tenerezze di colore, cantando nell'immenso salone maggiore, nel 1765, le glorie della monarchia di Spagna. E pare che la Musa si addolcisca anche nell'ispirargli, per le pale di Aranjuez, ultimo suo lavoro, le semplicità più pungenti e balenanti di avvenire. Solo la morte gli tolse di mano i pennelli, perché, quando il 27 marzo 1770 egli trapassava quasi repentinamente a Madrid, queste erano pronte per salire sugli altari nell'oratorio della delizia reale. E non conta se le ossa del grande giacquero in una tomba presto dimenticata, e oggi introvabile, nella chiesa abbandonata di S. Martino.
Per necessità pratica, essendo stato il T. quasi sempre pittore del genere cosiddetto decorativo, si ricordano a parte le opere da cavalletto; le pale, i ritratti e le pitture di fantasia. In queste ultime non abbiamo che il maestro riflettente in piccolo i varî momenti della sua operosità, dal Sacrifigio d'Ifigenia di casa Giustinian, dove abbondano gli accenti piazzetteschi, alle varie redazioni, in Italia e nella Spagna, delle scene carnevalesche, che pare partano dallo spunto della Foresteria Valmarana, per preludere nelle ultime varianti e nel Concilium in Arena di Udine al Goya. E questo per non dire delle storie in grande di Rinaldo già a Genova, della Morte di Giacinto e specialmente della mirabile Nascita di Anfitrite, oggi a Dresda (il cui preteso bozzetto a Trieste è però un falso). Nei ritratti, pochi ma personali (quello del farmacista committente nella Crocifissione di Burano; il Riccoboni di Rovigo; il Procuratore Giovanni Querini a Venezia), c'è nel pittore un certo stacco quasi sdegnoso verso chi è ritratto con tanta cocente fermezza. Per le pale fu detto che il T. non era adatto, senza tener conto della proprietà del genio; ma se gli mancano le effusioni del Piazzetta, allorquando più gli si attiene, come nelle opere citate, nella Sacra Famiglia di San Marco (Venezia) e nel Martirio del Santo di Padova, quando il suo stile divenne più personale, ben si guardò di seguirlo per quella via, ma, ora accentuando il teatrale come nelle tele di Sant'Alvise (1740), e nelle pale di Cividale (1759, ora a Dresda), di S. Patricio e della chiesa di S. Massimo a Padova, di Würzburg, ecc. e specialmente in quella dei Gesuati, ora il patetico, come nella Santa Tecla di Este, e sottolineando infine le caratteristiche più sensitive dei suoi tipi, specialmente femminili, anelanti e spasimanti, seppe darci tanto i capolavori di Santa Lucia comunicata dei Santi Apostoli a Venezia e il Martirio di Sant'Agata di Berlino, già a Lendinara, paralleli arguti del S. Giorgio del Veronese, quanto le pitture più liquide di Aranjuez.
Restano per ultimo da interrogare i disegni, che furono veicolo aderente della portentosa immaginazione e della felicità del maestro non mai perduti in deliquescenze, ma stringati, volanti, istantanei, a freghi larghi e a larghe macchie di bistro, sopra la carta candida, vivissimi, eppure intimi. E dietro ai disegni le incisioni, dove, non parlando delle riproduttive per i Viero e per la Verona illustrata del Maffei, questa libertà è non meno palese (capricci, disegni di fantasia, teste di orientali) giocate soprattutto sul contrapposto del bianco abbagliante, rispetto al ghirigoro felicissimo della linea. Incisioni quasi tutte ormai bene elencate, a cui si tentò vanamente aggiungere quella serie di figurette di certe raccolte del Giampiccoli tratte da pitture dei Ricci, ov'è del maestro solo una piccola fantasia segnata nell'antiporta.
A una visione complessiva, Giambattista T. ci appare come l'interprete più grande, e pur nell'apparente superficialità, più profondo, del Settecento, non soltanto italiano, ma europeo. Di una abilità così portentosa di tecnica e sempre così creatrice d'arte - non mai rilassata nella cifra e nella maniera - da non aver paragoni nel campo dell'affresco, nemmeno in Paolo Veronese. Una tale gloria pittorica non teme tramonti, anche se il gusto possa forse oggi portarci oltre quel trionfo troppo conscio dell'applauso, e quella ricchezza un poco ostentata, ma reale e sostanziosa.
Fondatore dell'Accademia, idolo di tutto un secolo che si rispecchiava e s'esaltava in lui, il maestro giunse a sentire i primi accenti del neoclassicismo, allorquando a Madrid si vide contrapporre la fredda arte di Raffaello Mengs, che cacciò dalla reggia le sue ultime opere e i suoi figli; ma non se ne turbò. Tradita dal gusto ufficiale, la sua arte veniva compresa e assorbita da Francesco Goya, il quale portò in salvo per tempi migliori gl'insegnamenti della sua pittura e della sua fantasia; proprio come fece quella inglese per il Guardi, per tale via divenuti alimento dell'impressionismo; entrambi quindi lievito dell'arte moderna. Ma più del Guardi fu il T. uomo del suo tempo e, cavaliere e figurista, sdegnò d'abbassarsi alle quadrature, al paesaggio, alla scenografia (per i riquadri si giovò del Mengozzi Colonna (1688-1772) e del Visconti a Stra); né mai giunse alla sublime umiltà del cognato (Giambattista aveva sposato, ottenendone ben nove figli, la sorella di Francesco Guardi, Cecilia, della cui vivacità e leggerezza s'impadronì la leggenda), il quale, libero assolutamente da ogni pregiudiziale di categorie e di generi, superò anche in questo il suo secolo. Ma se il T. fu interprete del suo tempo, egli è e rimane, come artista, d'ogni tempo. Brilla, nella sua pittura una sanità che risale alla tonica eredità del Piazzetta, senza tradirla; ma quella che nel Piazzetta era torpida e chiusa, quasi si direbbe ancora secentesca, in lui diviene solo motivo d'arginatura alle forme, che si sarebbero altrimenti perdute entro i suoi illimitati cieli. La plasticità si muta così in linea arguta e definitoria, elegante, ma netta insieme ed elastica. I suoi colori, chiari ma non scialbi, azzurri, gialli, verdi, non mai usati con tanto coraggio, tanto equilibrio, tanto rischiosa intonazione, sgranano una gamma che parlerà sempre agli uomini con i suoi accordi. I suoi ritratti s'imporranno alla ribalta del quadro, non con l'albagia delle vesti e degli atteggiamenti, ma con l'imperiosità dello stile; i pallori delle sue Vergini in martirio, gli sguardi delle sue creature dagli occhi di driade, riveleranno sempre, a chi li sappia intendere, una profondità misteriosa, e un'eterna trionfante giovinezza accompagnerà i voli degli angeli rosa e azzurri nei suoi cieli intrisi di luce.
Bibl.: P. Molmenti, Acqueforti del Tiepolo, Venezia 1896; A. De Vesme, Le peintre graveur italien, Milano 1906; P. Molmenti, G. B. Tiepolo, ivi 1909; Sack, G. B. Tiepolo, Augusta 1910; G. Fiocco, G. B. Tiepolo (coll. Piccoli maestri), Firenze 1924; D. v. Hadeln, Handzeichnungen von G. B. Tiepolo, Monaco 1927; G. Fiocco, La pittura veneziana del Seicento e del Settecento, Verona 1929.