CORNIANI, Giambattista
Nato a Orzinuovi (Brescia) il 28 febbr. 1742 da Giovanni Francesco e Ortensia Peri, studiò lettere nel collegio di S. Bartolomeo di Brescia, dove ebbe come maestri i padri Pujati e Cattaneo, e poi dal 1759 matematica e giurisprudenza a Milano. Iscritto alle accademie degli Umoristi e dei Trasformati e amico di Beccaria, Baretti, Parini, e dei fratelli Verri, dopo il ritorno a Brescia partecipò al vivace circolo culturale animato dal conte G. M. Mazzuchelli. Pubblicò poesie su giornali di Brescia, Venezia, Vicenza e Milano, tradusse Fedro e scrisse poemi, La vera filosofia (Brescia 1782) e I fonti (edito a Venezia nel 1790 in Poemetti e sciolti del secolo XVIII), tragedie a soggetto classico, Morte di Socrate, Il Decemvirato, Dario in Babilonia (Brescia 1765-1775) e melodrammi, Il matrimonio alla moda, L'inganno felice e Alessido e Dalisa ovvero l'amore coniugale (ibid. 1776); su suggerimento di Baldassarre Zamboni raccolse notizie erudite e filologiche sul paese natale di Orzinuovi e scrisse per la Nuova raccolta di opuscoli scientifici e filologici del Calogerà il Saggiosopra la letteratura alemanna (Venezia 1774), uno dei primi studi italiani sull'argomento.
Attivo anche nella vita amministrativa e politica, si recò più volte a Venezia per tutelare gli interessi della Comunità di Orzinuovi, del cui territorio diventò attento e colto studioso. Col passare degli anni ai primitivi interessi letterari affiancò l'attenzione per i problemi filosofici, economici e sociali, cui lo indirizzavano gli amici del Caffè e il generale moto verso le "riforme" di quegli anni. Nel 1765 ristampò a Brescia, con alcune aggiunte, il saggio di agricoltura Le trenta giornate del Gallo, che preannunciava la sua attiva partecipazione alla vita dell'Accademia agraria, eretta in Brescia come in tutte le altre città della Terraferma per volontà della Repubblica veneta e da lui presieduta per molti anni con intelligenza e passione. Nelle varie tornate accademiche lesse saggi sugli argini del fiume Mella, la manutenzione delle strade, i Monti di pietà, l'annona, le manifatture di ferro, il commercio della provincia; il 1° maggio e l'11 sett. 1777 pronunciò due discorsi Della legislazione relativamente all'agricoltura pubblicati a Milano nel 1805, insieme con l'altra sua opera Riflessioni sulle monete, nella collana di "Scrittori classici italiani di economia politica" diretta da Pietro Custodi (parte moderna, XXXIX, Milano 1805, pp. 166-244).
Ispirato a moderate teorie fisiocratiche, il saggio del C. rivela una singolare contraddizione tra il riferimento continuo e intelligente ai principali illuministi francesi ed il rifiuto delle loro più avanzate teorie sociali; così se il primo discorso si mantiene su un piano strettamente teorico, discettando sulle leggi di natura, la ragione, l'origine delle passioni e i principi generali di ogni legislazione, il secondo invece prende a pretesto il problema dello sviluppo dell'agricoltura in rapporto alla distribuzione della proprietà per svolgere una serrata critica al principio di eguaglianza che alcuni "filosofi" creatori di "sistemi chimerici di società" vogliono proporre alle classi inferiori per redimerle "dallo stato di sofferenza e di abbiezione in cui giacciono". Contro Rousseau, "animoso campione di uguaglianza" che "per calor di eloquenza, per singolarità di costumi e per inconseguenza di filosofia può esser comparabile ai più solenni sapienti dell'antichità" e contro Diderot, autore della "più vasta opera che siasi meditata ed eseguita nel nostro secolo", sottile ragionatore e dotato di "una immaginazione viva e brillante" ma pure "un prode atleta della uguaglianza", il C. dimostra che l'uguaglianza non può esistere nello stato di natura e di società, non influisce sulla felicità e si oppone ai progressi dell'agricoltura (pp. 213-227). La conclusione è in linea col cauto e prudente riformismo di molti intellettuali della Repubblica veneta: dopo un duro attacco alla servitù della gleba, il C. denuncia gli ostacoli che "in questi tempi di moderazione e di lumi" bloccano lo sviluppo dell'agricoltura e cioè i feudi, le enfiteusi, i laudemi, i fedecommessi che favoriscono la "troppo viziosa distribuzione delle ricchezze" usurpando al popolo in generale e a quello agricolo in particolare una porzione della "civil libertà" (pp. 241-244).
Se questi discorsi rimangono su un piano teorico e poco apportano al concreto sviluppo economico della sua provincia, altri saggi indicano un C. più attento alla viva realtà del territorio in cui vive e al progresso delle scienze naturali applicate all'agricoltura. Sono del 1781 le Idee sulla vegetazione (Brescia), in cui cerca di provare che l'idrogeno è la causa prima della vegetazione e tutto ciò che in natura aiuta l'incremento dei vegetali deriva dalla combustione dell'aria infiammabile, e del 1782 i Principij di filosofia agraria applicata al distretto degli Orzinuovi (ibid.), un trattato sull'agricoltura del suo paese, preceduto dalla storia del territorio e dalla descrizione della natura delle terre e delle coltivazioni più adatte, che peraltro non passa dalle aule dell'Accademia a concrete applicazioni.
Il C. torna a temi più teorici e generali in altri scritti degli ultimi anni del secolo che denotano un ripiegamento dalle primitive posizioni riformatrici ed una crescente chiusura alle idee illuministiche. Nel Saggio sopra Luciano o sia Quadro d'antichi e di moderni costumi (Bassano 1789 e 1790) egli riprende il tema dell'eguaglianza sociale per condannare recisamente l'educazione letteraria e artistica dei fanciulli del "minuto popolo", fonte solo di invidia e di malessere sociale; i contadini, ma non "bifolchi o i prezzolati famigli" bensì "i proprietari d'una conveniente porzione di terra", facciano studiare i loro figli, ma non perfarne preti o dottori, ma per "far loro conoscere ed apprezzare i mal conosciuti e male apprezzati vantaggi del loro stato" perché in realtà essi "sono infelici solo perché non comprendono la felicità della propria situazione" (pp. 14, 17-19).
Da queste posizioni di chiusura sociale, tipiche, osserva il Berengo, di una "nobiltà conservatrice che l'astensione da qualunque attività pratica tende ad isolare sempre più nel suo esclusivismo di casta" (p. 170), il C. passa a criticare tutta la "moderna filosofia madre fecondissima di sistemi di fatuità e di sragionamento" e volta solo a "ridurre le intellettuali umane facoltà in parità con quelle de' bruti". Non solo autori apertamente materialisti o atei come Hélvétius e La Mettrie, ma anche i più moderati Bayle e Toland sono presi di mira con durezza, in una generale requisitoria contro gli "enciclopedisti", compresi d'Alembert, Diderot, Rousseau, autore di un "elogio dell'ubriachezza", e Voltaire amico del "libertinismo" (pp. 68-88, 160).
Parallelo a questo distacco dagli ideali del secolo dei lumi appare il recupero delle "arti figlie dell'immaginazione e singolarmente la poesia e le belle lettere": nel saggio Ipiaceri dello spirito o sia Analisi dei principj del gusto e della morale (Bassano 1790) rileva con accenti negativi l'eccessivo impegno dei principi illuminati del tempo "a promuovere la felicità de' popoli" incoraggiando agricoltura, fisica, meccanica e altre scienze utili ad accrescere gli agi degli uomini, a scapito dei valori ideali espirituali, mentre invece "il gusto e il sentimento del bello" opportunamente diffusi presso la maggior parte degli uomini servirebbero a diminuire i loro mali e ad accrescere la loro felicità (pp. 89, 102).
Nel 1792 il C. abbandona gli ozi letterari per impegnarsi al servizio della Repubblica che lo chiama a Venezia per un parere in materia monetaria. Nasce così il trattatello Riflessioni sulle monete (Verona 1796), dedicato a Francesco Battaja, inquisitore agli ori e monete, che gli frutta l'invito, poi declinato per motivi familiari, a rimanere nella capitale a dare concreta esecuzione alle sue teorie.
È stato forse un bene che il C. non sia rimasto a Venezia perché in realtà il suo opuscolo, che viene dopo decenni di dibattiti monetari che hanno impegnato alcuni dei più celebri economisti e finanzieri del secolo, non brilla certo per novità e modernità di teorie: vuol infatti dimostrare, contro l'opinione di Locke, Galiani, Genovesi, Carli e molti altri, che l'accrescimento del valore numerario delle monete non produce un pari accrescimento nei prezzi delle merci nazionali ed anzi favorisce i più dotti interni a scapito di quelli importati. Questa decisa opzione per la rivalutazione monetaria sarà aspramente criticata nel secolo successivo dal Pecchio che definisce "fatale abuso" la sua teoria e si stupisce che il "giudizioso" Custodi abbia inserito la memoria, utile solo "per divertire l'ozio di qualche accademia", nella cit. raccolta degli economisti (XXXIX, pp. 77-163), rendendo così omaggio "alla fama letteraria dell'autore" laddove "era meglio rendere omaggio alla scienza col lasciarla nell'obblio" (Pecchio, pp. 208-10).
Nel 1793 il C. compì un lungo viaggio per l'Italia, strinse nuove amicizie, entrò in accademie di varie città e cominciò a raccogliere i materiali per una storia della letteratura italiana, anticipandone alcuni brani sotto forma di osservazioni critiche su vari poeti italiani in occasione di necrologi su giornali della Lombardia e del Veneto. Nel 1796 all'arrivo di Napoleone a Brescia aderì alla nuova municipalità democratica e venne eletto giudice criminale; nel 1798 fu chiamato a Milano al tribunale di revisione e poi a quello di cassazione, ritornò poi a Brescia come giudice decano della regia corte d'appello, conservando la carica sino alla morte. Passati i primi tumultuosi anni della Repubblica cisalpina e italiana, il moderato C. si trovò più a suo agio nel nuovo Regno italico che servì fedelmente per molti anni, collaborando tra l'altro alla versione italiana del codice di Napoleone, di cui pure disapprovava alcuni articoli lesivi della religione. Testimonianza del suo impegno di magistrato zelante e preparato è il Discorso di un giudice sopra i rapporti della giurisprudenza colla democrazia (Brescia 1802) in cui sostenne che maggiore è la libertà ove più si obbedisce alle leggi e ai dettami della giustizia.
Ascritto all'Istituto italiano il C. dedicò quindi i sereni anni della sua professione giudiziaria a concludere i prediletti studi di storia letteraria di cui aveva dato un saggio sin dal 1796 con la pubblicazione a Bassano de I primi quattro secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento. Dal 1804 al 1813 uscirono in nove volumi, dedicati al vicepresidente della Repubblica italiana e poi conte di Lodi, Melzi d'Eril, Isecoli dell'italiana letteratura dopo il suo risorgimento, ristampati una prima volta, sempre a Brescia, nel 1818-19 a cura di Camillo Ugoni, che al primo volume premise un'accurata biografia dell'autore, una seconda a Milano nel 1832-34 a cura di Stefano Ticozzi ed infine una terza a Torino nel 1854-56 con aggiunte di Francesco Predari.
Nell'Idea dell'opera, premessaal primo volume, il C. indica i presupposti ideali e critici della sua opera che vuol far conoscere "l'uomo e il letterato" contro o i moderni elogisti" che hanno troppo trascurato le "notizie della vita civile". Inizia la sua storia della letteratura, che ha come precedenti in Italia Giovanni Maria Mazzuchelli e Girolamo Tiraboschi, dal sec. XI perché in quest'epoca si può realmente rintracciare l'origine della letteratura italiana, dopo che la "scure dei barbari invasori ha troncato il grande albero della letteratura latina". Non manca un accenno al clima politico che rende possibile il "presente intraprendimento": l'Italia unificata e rinnovata daNapoleone "rinasce a nuova esistenza" e dunque a "riaccendere il genio scientifico dei viventi gioverà il proporre loro l'emulazione de' grandi uomini trapassati, che maestra la fecero delle altre nazioni" (I, pp. VI, VIII, XVIII). Il C. adotta un rigoroso ordine cronologico e comprende nella sua storia anche discipline diverse da quelle strettamente letterarie, come teologia, filosofia, medicina e giurisprudenza. Divisi in otto "epoche" (1000-1260, 1260-1400, 1400-1450, 1450-1530, 1530-1600, 1600-1650, 1650-1700, 1700-1750), ripartiti in "articoli", I secoli si aprono con saggi su filosofia e religione nel Medioevo, si ampliano a macchia d'olio nell'età del Rinascimento quando arti e lettere toccano vertici di perfezione mai raggiunti, e si chiudono con Goldoni, tralasciando gli scrittori contemporanei perché verso la metà del Settecento il "filosofico entusiasmo" vilipende l'erudizione, deride la purità dello stile e assoggetta le arti imitatrici, "libere figlie dell'immaginazione", "alla esattezza del calcolo e al vigor dell'analisi". Il C. ritiene troppo vicino questo radicale sconvolgimento spirituale e politico, questa "straordinaria meteora, per parlare con Aristarco, prodotta dal calor delle menti del secolo decimottavo", per poter giudicare con lucidità ed equilibrio e rinvia alla posterità il giudizio "se quest'ultimo periodo meritar possa il nome di secolo di luce, o di secolo di tenebre, o l'uno e l'altro promiscuamente" (IX, p. 440). I secoli del C. più che un'organica storia della letteratura sono una "serie biografica" attraverso cui, nota il Getto, egli richiama "l'attenzione sulla personalità dei singoli autori" e favorisce "anche se in maniera inconsapevole, il sorgere di una storia che, evitando il dispersivo esame delle opere", si svolge però "come narrazione di fenomeni letterari, considerati nella loro autonomia e visti insieme nei loro rapporti, non avulsi dalla personalità che li ha generati, ma inseriti in una esistenziale realtà umana, quella appunto inconfondibilmente riflessa nella biografia di ogni singolo scrittore" (Storia delle storie letterarie..., p. 106). Ormai infastidito della pura erudizione settecentesca, il C. cerca però di utilizzarla per "qualcosa di diverso e di più profondamente spirituale": anche se spesso nella scelta degli autori manca un'equilibrata misura selettiva e talvolta emergono motivi di "ingenua e cordiale difesa nazionalistica" dellacultura italiana, I secoli segnano senza dubbio, a parere del Getto, "un progresso nello sviluppo della struttura della storia letteraria" (ibid., pp. 105, 107, 108, 109) che però critici e letterati della prima metà dell'Ottocento non hanno riconosciuto e apprezzato, come testimoniano i giudizi negativi del Foscolo, dell'Emiliani-Giudici e del Conciliatore. Camillo Ugoni, concittadino e biografo affettuoso, ammette che nella produzione poetica il. C. "non oltrepassò i confini di una culta mediocrità", critica ne I secoli la scarsa esattezza di fatti ed epoche, non lesina riserve sulla lingua e lo stile, pur facendone carico al "gusto de' tempi in cui l'autore foggiò il suo modo di scrivere, tempi ne' quali pochi erano coloro che avessero fior di senno in fatto di lingua", ma gli riconosce il merito di aver scritto una storia della letteratura amena e dilettevole, spoglia di discussioni erudite e noiose, e capace di conseguire "questo intento di diffondere la conoscenza della nostra letteratura anche fra meno dotti". (Biografia, in apertura del primo volume dell'edizione 1818).
Il C. morì a Brescia il 7 nov. 1813.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Deputati all'agricoltura, Memorie scientifiche, busta 20, n. 19; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 1687, 2964/14, 3015/I; G. e A. Monti, Lettere ined. del Foscolo, del Giordani e della signora de Staël a V. Monti, Livorno 1876, pp. 22 ss.; U. Foscolo, Epist. (ed. naz. d. opere), II, p. 190; V. Monti, Epist., a cura di A. Bertoldi, Firenze 1929, III, p. 92; IV, p. 259; P. Giordani, Epist., a c. di G. Ferretti, I, Bari 1937, pp. 107 s.; G. Labus, Notizie intorno alla vita e agli scritti di G. B. C., Milano 1814; G. Fornasini, Elogio di G. B. C., Brescia 1815; C. Ugoni, Intorno alla vita e alle opere del conte G. C., in I secoli dell'ital. letter. dopo il suo risorgimento, Brescia 1818, I, pp. VII-XXXIV, poi ripubblicata in Biogr. de,gli italiani ill., a cura di E. De Tipaldo, I, Venezia 1834, pp. 266-276; C. Maffei, Storia della letter. ital., I, Milano 1834, p. 164; N. Tommaseo, Diz. estetico, II, Venezia 1840, ad vocem;G. Pecchio, Storia della econ. pubblica in Italia, Lugano 1849, pp. 208-210; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni. Studii storici. App., Venezia 1857, pp. 164-165; C. Cocchetti, Del movimento intellettuale di Brescia, Brescia 1880; G. Soranzo, Bibliografia veneziana, Venezia 1885, p. 344; G. Rosa, Studi di storia bresciana, Brescia 1886, ad Ind.;G. Losco, Glorie bresciane, Brescia 1887, ad vocem;G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia con una nuova prefazione, Milano 1920, pp. 314, 316; G. Natali, Il Settecento, I-II, Milano 1929, ad Indicem;B. Croce, Storia della letteratura italiana nel secolo XIX, Bari 1930, pp. 256, 262; M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1956, pp. 169-170; L. A. Biglione di Viarigi, La cultura del Settecento, in Storia di Brescia, Brescia 1964, III, pp. 260-263; IV, p. 674; G. Getto, Storia delle storie letterarie, Firenze 1969, pp. 103-111, 113-115, 122, 133, 141, 145, 179, 207; R. Frattarolo, Bibliografia generale, in Letteratura italiana. Le correnti, I, Milano 1969, p. 23; G. Getto, La polemica sul Baiocco, ibid., p. 437; Enc. Ital., XI, p. 429; C. von Wurzbach, Biographisches Lexikon ...,III, pp. 5 s.