CICALA, Giambattista
Nato a Genova il 27 maggio del 1510 da Carlo, di famiglia di antica nobiltà, venne avviato alla carriera ecclesiastica dallo zio paterno Odoardo, il quale era vescovo di Sagona in Corsica. Probabilmente dopo aver completato gli studi ed ottenuto la laurea inutroque iure raggiunse Roma, dove, grazie alla protezione dello zio, il 2 sett. 1535 trovò una prima sistemazione come abbreviatore delle lettere apostoliche e ottenne quattro anni dopo, mediante l'esborso di 15.000 ducati, l'ufficio di uditore della Camera apostolica (con questo titolo appare già in un documento del 22 genn. 1540: Arch. Segr. Vat., Reg. Lat. 1699, ff. 13v-15v). In quel tomo di tempo dovette essere nominato anche referendario utriusque Signaturae, titolo con. cui viene designato in un documento del 26 ag. 1540 e che manterrà fino al termine del pontificato di Giulio III. Il 5 dicembre 1543, in seguito alla morte di Girolamo Grimaldi, diventò vescovo della diocesi di Albenga, cui rinunciò il 30 marzo 1554 a favore del nipote Carlo Cicala, mantenendo per sé le rendite e la collatio beneficiorum fin quando, nel 1557, il nipote non raggiunse l'età canonica. Contemporaneamente alla rinuncia ad Albenga ottenne in amministrazione la diocesi di Mariana in Corsica, che sei anni dopo (13 sett. 1560) cedette al fratello Nicolò, conservando metà delle rendite e la collatio fino alla morte e usufruendo anche delle entrate della Chiesa di Accia la cui unione alla Chiesa di Mariana fu sancita nel 1563. Il 12 febbr. 1551, inoltre, gli era stata data in commenda la Chiesa di Sagona, cui rinunciò lo stesso giorno riservandosi il diritto di regresso, di cui si avvalse nel 1562 per rinunciarvi definitivamente nel 1567, Seguendo una prassi assai diffusa, non lasciò le cariche che deteneva in Curia per dedicarsi alle sue diocesi, che affidò a vicari e che sembra non abbia mai visitato.
Il 23 nov. 1546 il C. raggiunse Trento per prendere parte ai lavori conciliari in qualità di vescovo di Albenga.
L'invio del C., uno dei maggiori esponenti della Curia, non mancò di insospettire gli Imperiali che temettero il rafforzamento del partito dei legati e il trionfo del progetto di sospendere il concilio da essi patrocinato e condiviso dal papa, che peraltro il 20 ott. Si era rifiutato di decretare la sospensione. Paolo III aveva cercato di tranquillizzarli replicando che, dovendosi trattare della riforma, desiderava fossero presenti a Trento oltre a Tommaso Campeggi ` reggente della Cancelleria, Filippo Archinto, suo vicario per la diocesi di Roma, e il C., uditore generale, "per essere li principali della corte" (Conc. Trid., X., pp. 719-720). Sia per l'autorità che gli derivava dal suo 'ufficio sia per la solidissima preparazione tecnico-giuridica, il C. diverrà, infatti, uno dei più assidui e ascoltati consiglieri dei legati.
Giunto a Trentò con l'intenzione di fare ritorno a Roma per le festività natalizie, forse nella convinzione che, pur di procrastinare la pubblicazione dei decreto sulla giustificazione, Carlo V avrebbe dato il suo consenso al progetto di sospensione o che, in caso di rifiuto dell'imperatore, si sarebbe comunque pervenuti, una volta pubblicati i decreti sulla giustificazione e sull'obbligo di residenza dei vescovi, ad una rapida conclusione del concilio, il C. manifestò immediatamente una certa impazienza per il trascinarsi dei lavori conciliari intorno alla dottrina della duplice giustizia e della certezza della grazia.
Questo suo atteggiamento fu all'origine di un violento scontro con il cardinale Pacheco, il quale si sentì direttamente chiamato in causa quando il C., deprecando il rinvio della pubblicazione del decreto sulla giustificazione, attribuì ad un "malus spiritus" la richiesta di un ulteriore differimento avanzata dal cardinale spagnolo insieme con altri prelati di parte imperiale (Conc. Trid., X, pp. 763-764). All'indomani della sesta sessione (13 genn. 1547). in cui il decreto sulla giustificazione fu finalmente promulgato, il C. espresse, in una lettera al cardinale Farnese, la convinzione che per concludere il concilio "si havessi a far un breve ristretto delle opinione lutherane, quale per la maggior parte sono state dannate per altri concilii, et expedirle tutte in una sessione; quanto alla reformatione, che si comprendessero tutte in una bolla generalissima, quale riducesse le cose a giusti termini" e che nella sessione in cui fosse stata pubblicata, si dovesse dichiarare il concilio "per assoluto et finito", decisione che avrebbe trovato il consenso dei "doi terzi et forse più delli voti, desiderando ogni huom, di ritornarhene a casp" (ibid., p. 791).
In quella stessa sesta sessione il Del Monte affidò al C. l'esame dei casi dei prelati ingiustificatamente assenti dal concili o con la facoltà di dichiararli contumaci. Se nel corso del dibattito per la formulazione del decreto.sulla giustificazione il C., pur intervenendo nella sua redazione materiale, non prese uno specifico atteggiamento, nei dibattiti sull'obbligo di residenza dei vescovi assunse posizioni che denotavano inequivocabilmente l'attaccamento ai vecchi privilegi e abusi e la volontà irremovibile di difendere le prerogative della S. Sede.
Nella congregazione generale del 4 genn. 1547espresse l'opinione che esecutore delle pene contro i trasgressori dell'obbligo della residenza non dovesse essere il concilio provinciale, ma il pontefice (ibid., V, p. 757), e in quella del 9 gennaio, richiamandosi al V concilio lateranense, dichiarò che era consentito ai cardinali di detenere vescovati e benefici con cura d'anime, affidandone il governo a vicari idonei (ibid., I, p. 119) e approvò il progetto presentato dal Del Monte che fissava pene assai miti per coloro che non osservavano l'obbligo della residenza. Opinioni più oltranziste manifestò nel corso del dibattito sull'origine nel diritto divino del dovere della residenza: convinto che "omnem omnino episcoporum auctoritatem a sede apostolica emanasse nec aliquam episcopos auctoritatem habere a Deo" (ibid., I, p. 128), ebbe un vivacissimo scontro con il vescovo di Fiesole, Braccio Martelli, che accusò di opinioni ereticalì perché aveva disapprovato che l'autorità concessa ai vescovi sugli esenti dovesse essere esercitata in qualità di delegati della S. Sede e non in forza di un diritto proprio. La richiesta del C. che gli fosse tolta la parola provocò vivaci reazioni tra i padri, che videro minacciata la libertà d'opinione, e l'intervento del Del Monte che a sua volta accusò l'uditore di essersi arrogato un diritto spettante ai soli legati. Alla corte cesarea, come ebbe a dichiarare il confessore di Carlo V, Pedro Soto, al nunzio Verallo, era diffusa la sensazione che il C. "fusse mandato a Trento, perché tenesse in freno li vescovi che volessero parlare dell'autorità di N. S.re et che alle volte se li minacciava di processarli di heretici" (ibid., XI, p. 179).
Il 3 marzo 1547, al primo diffondersi delle voci sul propagarsi della febbre petecchiale il C. chiese al cardinale Farnese licenza di lasciare Trento, dove riteneva di non potersi trattenere "senza mia manifesta ruina, dico della persona" (ibid., IX., p. 834). Fu, peraltro, tra coloro che sostennero (sedute del 9 e del 10 marzo) che, in presenza di una causa vera e legittima il concilio, previa consultazione con il pontefice, dovesse essere trasferito a Bologna e che dovessero essere considerati scismatici quei padri che, rimasti a Trento, proseguissero i lavori. Giunto a Roma il 2 aprile, poté informare il legato Cervini delle prime reazioni negative del pontefice e della Curia alla notizia della traslazione. L'auspicato allontanamento dal concilio non durò a lungo e già il 2 Imaggio i legati lo.informavano che Paolo III desiderava che egli raggiungesse Bologna al più presto "accioché con l'andata sua dia essempio a gli altri, oltre che per esser V. S. nel officio et luogo che gli è et havendosi a trattar della reformatione par che la presentia sua vi sia più necessaria che dogn'altro" (ibid., XI, p. 197). Egli tuttavia non arrivò prima del 10 settembre e si trattenne a Bologna fino al 3 marzo dell'anno successivo.
Il C. intervenne nel dibattito sulla riforma della prassi sacramentale, chiedendo l'esplicita proibizione delle elargizioni di denaro che venivano impos te quasi universalmente dal clero in occasione della somministrazione dei sacramenti, schierandosi su questo punto a fianco dei rigoristi Girolamo Seripando e Galeazzo Florimonte. Nelle discussioni relative al sacramento del matrimonio e alla riforma del diritto matrirnoniale, assumendo una posizione contrastante con quella della maggioranza - che riconosceva la validità e la sacramentalità del matrimonio clandestino -, il C., pur richiedendo l'eliminazione degli abusi, rivendicava alla Chiesa la facoltà di dichiarare puramente e semplicemente invalidi tali matrimoni, raccomandando peraltro cautela per evitare maggiori scandali e il turbamento della o publica honestas "che ne, sarebbero derivati. Si ebbero suoi interventi riguardo agli abusi nei sacramenti dell'eucarestia, del battesimo, della cresima e della penitenza.
Il 19 genn. 1548 il C. fu incluso nella deputazione di diciassette membri cui venne affidato il compito di redigere la risposta alla protesta dell'imperatore contro la traslazione del concilio a Bologna presentata tre giorni prima nella congregazione generale dai procuratori imperiali Vargas e Velasco.
Diversamente dalla maggioranza dei padri e dallo stesso legato Del Monte, preoccupati di smussarne e ridurne all'essenziale il contenuto, il C. riteneva si dovesse assumere una posizione intransigente per salvaguardare l'indipendenza dei potere spirituale da quello temporale: il breve testo, approvato il 20 gennaio, sebbene riguardoso nei confronti dell'imperatore, respingeva le accuse di illegittimità del concilio bolognese.
Quando il pontefice, in seguito alla ulteriore protesta dell'imperatore, presentatagli il 23 gennaio dal Mendoza avocò al suo tribunale la controversia sulla legittimità della traslazione e chiese ai legati di presentare a Roma gli atti relativi e di inviare tre padri. conciliari in difesa della causa della traslazione, i legati nominarono sei deputati, fra cui il Cicala.
Di fronte alle rimostranze del cardinale Farnese che, oltre a trovare il numero eccessivo, disapprovava la scelta dell'Archinto e del C., che sarebbero stati "tenuti troppo suspetti" (ibid., XI, p. 387), per le loro rispettive cariche di vicario generale per la diocesi di Roma e di uditore della Camera, i legati obiettarono che, desiderando costoro lasciare a tutti i costi Bologna, era parso loro più opportuno farli partire con un pretesto valido; inoltre, essi non andavano con funzioni di giudici, bensì come avvocati di parte per difendere la causa della traslazione. Prevalsero le motivazioni dei legati ed i sei inviati, giunti a Roma il 17 marzo, il 22 comparvero in concistoro. Il concilio bolognese fu sospeso e sciolto; l'assemblea romana di riforma progettata in sua sostituzione fu impedita dalla morte di Paolo III, il 10 nov. 1549.
Con il nuovo pontefice Giulio III Del Monte non sembra che il C. abbia mantenuto la posizione di primo piano che occupava sotto il suo predecessore, né risuIta prendes i se parte ai lavori preparatori per la ripresa del concilio, a Trento, indetta per il 1° maggio 155 1 con la bolla Reductionis del 14 nov- 1550. Tuttavia, la competenza giuridica del C. e la sua strenua azione a difesa degli interessi della S. Sede erano note a Giulio III dai tempi della loro collaborazione a Trento e a Bologna e nella terza promozione cardinalizia del 20 nov. 1551 il C. fu elevato alla porpora con il titolo di S. Clemente (4 dic. 1551), dal quale fu poi traslato a quellodi. S. Agata (7 nov. 1565, con la dispensa di farsi chiamare con il titolo precedente) ed infine alla diocesi di Sabina (30 apr. 1568). Non risulta aver lasciato dopo l'elevazione al cardinalato l'ufficio di. uditore della Camera apostolica. Dopo la, nuova sospensione del concilio nell'autunno 1552, il C. fece parte della commissione nominata :il 16 sett. 1552 e presieduta dal Cervini, che doveva attuare un vasto programma di riforma. Il 13 marzo 1553 fu nominato cardinal legato della Campagna e Marittima che amministrò, secondo le consuetudini, attraverso un vicelegato, scelto nella persona di Ugo Boncompagni, il futuro Gregorio XIII.
Il 5 apr. 1555 il C. entrò nel conclave dal quale uscì eletto papa M. Cervini. Marcello II gli affidò la revisione della bolla sulla riforma del conclave, nonché l'incarico di vigilare, insieme con altri cardinali, all'approvvigionamento della città di Roma e di deliberare alleviamenti dell'imposizione fiscale. Il 25 aprile, già gravemente infermo, il papa chiese al cardinale Puteo e al C. di rivedere la bolla di riforma Varietas temporum, preparata da Giulio III. La morte prematura di Marcello II e l'ascesa al soglio pontificio di Paolo IV, che il C. aveva veementemente ostacolato nel conclave, schierandosi a favore del cardinale Puteo, segnarono il temporaneo allontanamento del cardinale genovese da cariche e mansioni di fiducia. Deputato il 17 luglio 1555, insieme con il Puteo, ad occuparsi della riforma generale della Chiesa, con particolare riguardo all'Italia, il C., per motivi che ci sono sconosciuti, ma che sono facilmente imputabili ad una cattiva intesa con Paolo IV - la cui politica decisamente antimperiale non poteva essere condivisa dal cardinale notoriamente filospagnolo -, si allontanò da Roma, stabilendosi a Genova dove giunse nel maggio del 1556 e rimanendovi durante tutto il pontificato di Paolo IV, nonostante il breve del 16 luglio 1556, inviato anche ad altri quattordici cardinali preti, che ne deprecava l'assenza da Roma e gli ingiungeva di ricevere gli ordini entro tre mesi. Il 27 febbraio 1557 chiese al card. G. Morone di intervenire su Paolo IV perché lo scusasse del suo mancato rientro a Roma. I disordini che agitavano la Corsica avevano reso impossibile negli ultimi venti mesi la riscossione delle sue entrate sulla Chiesa di Mariana (2.000 scudi annui), né era riuscito ad ottenere i frutti di due pensioni . ecclesiastiche (1.600 scudi annui) su benefici nelle diocesi di Messina e Consa. Afflitto dai debiti, egli non era quindi in condizione di trasferirsi a Roma, mentre non avrebbe mancato durante la quaresima di recarsi ad Albenga a visitare il suo gregge. Tornò a Roma il 29 agosto del 1559 per prendere parte al conclave seguito alla morte di Paolo IV, nel quale sostenne la candidatura di Ercole Gonzaga. Pio IV si avvalse immediatamente della sua esperienza, affidandogli hnportanti incarichi e anno verandolo fra i suoi più fidati consiglieri, soprattutto per le questioni attinenti al concilio.
"Onnipotente" in Curia lo ritenevano gli ambasciatori genovesi venuti a congratularsi con il neoeletto pontefice e questa posizione di primo piano veniva riconosciuta, sia pure negativamente, da Pasquino, secondo il quale Pio IV non poteva essere che mal ispirato, avendo per consiglieri un Saraceno, una Cicala e un Gelso.
Deciso ad avviare seriamente la riforma e a riprendere il concilio, Pio IV nominò il C. tra i membri della commissione per la riforma dei costumi (12 genn. 1560), designandolo anche nella commissione (15 nov. 1560) cui affidò la redazione della bolla di convocazione dei concilio di Trento AdEcclesiae regimen, in cui, contro la tesi del C. che si trattava di convocare un nuovo concilio, prevalse quella del cardinal Puteo della prosecuzione del vecchio. Con il C. Pio IV trattò anche della revisione e della mitigazione dell'Indice deilibri promulgato da Paolo IV: per un'analisi approfondita della questione il C. si rivolse al Seripando (gennaio-marzo 1561). Membro della commissione istituita (27 apr. 1561) per sorvegliare che i titolari di chiese in deterioramento provvedessero al loro restauro, il 6 dic. del 1561 fu deputato, insieme con il Vitelli, con il Doria e con il Verallo, nella commissione per la riforma della Camera e della Penitenzieria con l'istruzione di delimitarne le competenze. Continuò a fare parte del tribunale dell'Inquisizione anche quando Pio IV ridusse il numero dei cardinali inquisitori.
Nella primavera del 1563, quando le.divergenze sulla questione dello ius divinum della residenza dei vescovi tra i legati conciliari a Trento apparvero insanabili e parve estremamente indebolita la posizione del Simonetta - sostenitore della tesi che il primato pontificio sarebbe stato leso dalla proclamazione dell'origine divina del dovere della residenza -, il pontefice prese in serio esame la possibilità di allargare il collegio dei legati con l'invio di almeno due legati fidati, in prima linea il, C. cui, per rango, sarebbe spettata la presidenza del concilio al posto di Ercole, Gonzaga e che avrebbe difeso più efficacemente del Simonetta gli interessi curiali. Da questo progetto - che era stato accolto molto negativamente a Trento, dove la scelta del C. era parsa ad alcuni il miglior mezzo per mandare in rovina la Chiesa - Pio IV fu distolto dalle pressioni di Carlo Borromeo, assecondato da Francesco Gonzaga, nipote del cardinale Ercole.
Il 17 ag. 1563 il C. fu nominato membro della commissione incaricata di controllare che le bolle sulle varie riforme emanate dal papa fossero rispettate.e che doveva vietare "annonae et monopoliis". Nel settembre, sulla questione dei rapporti fra tribunali diocesani di prima istanza e competenze giurisdizionali di Roma, si oppose al cardinale Morone in difesa delle prerogative dei tribunali della S. Sede. Il 30 dicembre fu designato insieme con il Morone, con il Simonetta, con il Borromeo e con il Vitelli nella commissione per l'applicazione e l'esecuzione dei decreti tridentini, la stessa che sanzionò, il 21 genn. 1564, l'"imbraghettamento" dei nudi del Giudizio di Michelangelo. Nel concistoro del 26 genn. 1564 in cui i cardinali furono concordi nel ritenere che i decreti tridentini dovessero essere confèrmati incondizionatamente, il C. e il Ghislieri si dichiararono contrari alla disposizione conciliare che conferiva ai vescovi la facoltà di assolvere i casi di coscienza riservati al papa.
Durante il pontificato di Pio IV, il C., che nella veste di cardinale protettore della nazione genovese svolse sempre un ruolo di mediatore tra Roma e Genova nelle questioni attinenti alla religione (intervento dei vescovi genovesi al concilio, riforma del convento di S. Agostino, repressione dell'eresia, ecc.), fu al centro delle trattative fra la Repubblica e la S. Sede per una soluzione ai tentativi di rivolta dei Corsi, capeggiati da Sampiero.
Tenace difensore degli interessi di Genova, egli fu prezioso collaboratore della Signoria alla corte pontificia, mantenendola informata sulle cause e gli sviluppi della ribellione in Corsica, sull'efficienza della Signoria nel domarla e soprattutto sui pericoli che essa rappresentava per l'intera cristianità. Non fu ovviamente informato del piano proposto dalla Francia alla S. Sede nell'estate del 1564 - e di cui furono a conoscenza solo il pontefice, il nunzio pontificio in Francia Prospero Santacroce e i cardinali Carlo Borromeo e Tolomeo Galli - in base al quale la S. Sede avrebbe dovuto sostituirsi ai Genovesi. nel governo dell'isola. Conscio che tale piano non avrebbe mai trovato Filippo II consenziente e posto di fronte alla minaccia di un'incursione turca nell'isola, nel marzo del 1565 Pio IV, in seguito all'intervento del C., autorizzò la Repubblica di Genova ad assoldare truppe nello Stato pontificio.
Alla morte di Pio IV (9 dic. 1565) il C. fu raccomandato da Cosimo I all'imperatore come candidato al papato, e fra i papabili lo annoverava il 5 genn. 1565 l'ambasciatore spagnolo Requesens in un dispaccio a Filippo II: nelle votazioni del 31 dicembre e del 1°gennaio il cardinale aveva infatti raccolto 13 e 10voti, rispettivamente. Appena eletto, Pio V volle nominarlo, insieme con il Gambara e con il Niccolini, sovrintendente al governo e alla giustizia criminale di tutto lo Stato pontificio. Rimase a fare parte dei tribunale della Segnatura quando con la riforma promulgata il 15 febbr. 1566 il numero dei cardinali e dei referendari fu ridotto. Ma, nonostante la benevolenza mostratagli dal nuovo pontefice, il C. fli tra coloro che Pio V, nel concistorodel 4 giugno 1567, accusò di tramare per succedergli: è l'ultima notizia che abbiamo di lui. L'8 apr. 1570 si spense a Roma e fu sepolto nella tomba dei Della Rovere, nella cappella di S. Lucia in S. Maria del Popolo.
Anche se partecipe, ed in posizione emergente, dei complessi dibattiti e delle alterne vicende del concilio, il C. appare sostanzialmente estraneo alla problematica ecclesiologica e sordo alle istanze di rinnovamento delle strutture e della attività pastorale. Deciso difensore dei privilegi e delle prerogative della centralizzazione romana - con cui sembra identificarsi -, egli è un tipico esponente di quel singolare rafforzamento della burocrazia ecclesiastica che fu uno degli elementi più caratterizzanti della Controriforma. Detentore di vari benefici, non solo non risulta abbia mai risieduto nelle rispettive sedi, ma, seguendo la prassi combattuta dai riformatori tridentini, continuò ad amministrarli come patrimonio personale trasferendone la titolarità ai propri congiunti. La solida preparazione canonistica e l'esperienza amministrativa ne fecero uno strumento indispensabile della politica di restaurazione ed un elemento di primo piano nei momenti più critici del rapporto fra il Papato e l'assemblea conciliare.
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