CHIARAMONTI, Giambattista
Nato a Brescia il 2 marzo 1731, ricevette un'ottima educazione classica nell'ambiente familiare e poi passò a studiare filosofia e giurisprudenza nell'università di Padova; rientrato nella città natale, vi esercitò per molti anni la professione di avvocato e grazie anche alle buone condizioni economiche della famiglia si dedicò ai prediletti studi letterari e ad una severa pratica della fede cristiana. A soli ventidue anni venne ammesso all'accademia di dotti studiosi che si raccoglieva in casa del nobile Gian Maria Mazzuchelli, l'autore dell'incompiuta biografia degli Scrittori d'Italia, e vi lesse alcuni dei suoi primi lavori, tra cui una Dissertazione sopra il commercio e una Dissertazione del paterno imperio degli antichi romani (19dic. 1754); più tardi, nel 1765, raccolse e pubblicò a Brescia in due volumi tutte le Dissertazioni storiche,scientifiche,erudite scritte dagli accademici.
Del gruppo di letterati, poeti, eruditi, giureconsulti che facevano capo al dotto e illuminato cenacolo del Mazzuchelli, il C. assimilò e condivise il cauto riformismo postmuratoriano tipico della Lombardia austriaca di quegli anni, pur senza partecipare di quell'evoluzione "alle istanze liberali della scuola milanese e dei Verri" che sarà per molti, come osserva il Berengo, il logico sbocco di un intenso e appassionato impegno civile e culturale.
In quest'"aria di tipica transizione, ove un conservatorismo critico, che non è ancora incrinato dall'aperto consenso per la dottrina dei 'filosofi', si fa sempre più consapevole dell'insufficienza della vecchia cultura a racchiudere in sé lo sviluppo spirituale del mondo moderno" (Berengo, La società veneta... , p. 181), il C. fece proprie con ferma convinzione posizioni filogianseniste, nutrite di una secca antipatia per i frati, definiti "canaglia di pappalardi" e di una polemica ammirazione per Paolo Sarpi "l'unico che a' tempi suoi sapesse discoprire al suo principe le insidie, l'arti malvagie, le prepotenze e l'attività inaudite di quell'idre fatali alla Chiesa ed alla Società". Se Paolo Sarpi era stato nel '600 l'"uomo dottissimo e onestissimo oltre ogni dire, il cui maggior peccato fu quello di aver sempre detta la verità per interna persuasione e non per interesse", Giansenio aveva rappresentato nel suo secolo il simbolo di una retta e pura dottrina agostiniana: grazie a lui "il nome di giansenista è divenuto glorioso ad onta delle furie gesuitiche che lo volevano ignominioso".
Nel fittissimo epistolario che scambiò per lunghi anni con poeti, letterati, eruditi di tutta Italia, un rilievo del tutto particolare assumono le lettere ad alcuni dei più prestigiosi esponenti del giansenismo italiano, come Pietro Tamburini, Giuseppe Maria Puiati, Giambattista Rodella: di quest'ultimo tracciò anche un'intelligente biografia per il quarto tomo del Giorn. d. lett. ital. (1794, pp. 157 ss.).
Nonostante il severo impegno intellettuale e l'ampia preparazione erudita, il G. riuscì poco efficace e vigoroso negli scritti di argomento filosofico e teologico, peraltro quasi sempre occasionali e privi di un impianto robusto e meditato. In un Discorso filosofico-morale in cui si esamina l'opinione intorno alla felicità del sig. Clemente Baroni de' marchesi Cavalcabò... (Brescia 1759) combatté il tentativo di privilegiare il piacere rispetto alla virtù e prospettò come fine del "savio e cristiano filosofo" l'indagine della verità e l'ammaestramento degli idioti sotto la guida primaria della rivelazione e, quando la materia lo consente, anche della ragione "potendosi con questa ridurre a dimostrazione alcune verità della prima così nude e senza prova proposteci" (p. 77). Nella Lettera al reverendissimo p. ab. d. Angelo Calogerà monaco camaldolese (Brescia 1762) l'obiettivo polemico sono i moderni "filosofi" troppo appassionati "per la Filosofia da essi corrotta e contraffatta" e quindi del tutto lontani dalla rivelazione cui preferiscono stoltamente "il lume scarso della ragione". Un quarto di secolo dopo la sua polemica contro i "tanti moderni filosofi peggiori degli antichi" diventa ancora più pungente e risentita nel Ragionamento sull'origine,antichità e pregi del monachismo in genere e spezialmente dell'ordine cassinese (Brescia 1788), dedicato al figlio Giovanni per la sua vestizione nella Congregazione benedettina cassinese di S. Giustina di Padova il 10 sett. 1785.
I "supposti sapienti del secolo, gl'increduli filosofi", degni figli di un secolo imbevuto di insensato "orgoglio filosofico", hanno criticato la vita e l'origine stessa degli Ordini monastici; contro di loro e soprattutto contro quegli scrittori italiani che ne condividono i furori antimonastici, "spiriti leggieri portati da ogni vento, che spira da stranieri pestiferi libri" (p. 72), il C. rivendica i meriti dei monaci nei secoli bui delle invasioni barbariche e dimostra la legittimità degli stessi possedimenti temporali, frutto di normali donazioni regolarmente autorizzate dalle autorità secolari.
Una profonda ammirazione per "i greci, i latini e gli italiani i quali furono sempre i maestri di tutto l'oltramonte" (Bibl. Ap. Vat., Vat. lat. 10.020, f. 130v) ed un marcato fastidio per l'eccessivo tributo pagato alla Francia e ai suoi philosophes dalla cultura italiana di questi anni costituiscono il legame che lo tiene unito a molti eruditi italiani dell'epoca. Girolamo Tartarotti, Francesco Vigilio Barbacovi, Angelo Fumagalli; Carlo Firmian, Clementino Vannetti, Saverio Bettinelli, Appiano Buonafede, Gian Maria Mazzuchelli sono alcuni dei più celebri nomi della "repubblica letteraria" d'Italia con cui il C. intesse una fitta corrispondenza, in gran parte tutt'ora conservata, ricca di notizie, curiosità e polemiche tuttora preziose per comprendere l'inquieto panorama della cultura italiana della seconda metà del '700, in equilibrio instabile e fluido tra tenace conservatorismo erudito e classicista e fervide aperture "filosofiche" nel solco del vivace illuminismo lombardo del Verri e del Beccaria.
Di grande interesse è anche la sua corrispondenza del periodo 1763-1767 con Giuseppe Baretti, in questo periodo da poco ritornato dal suo decennale volontario esilio in Inghilterra e ormai sull'onda della celebrità per le polemiche furibonde suscitate dalla neonata Frusta letteraria.Un manipolo di ventisette lettere conservate alla Bibl. Ambrosiana (cfr. Piccioni) permette di chiarire la tormentata storia di questa breve amicizia letteraria che si aprì nell'autunno del 1763 con una richiesta al C. di interessarsi alla diffusione a Brescia delle Lettere familiari e di collaborare con recensioni alla Frusta. Tra lo spregiudicato e battagliero Baretti ed il timido e prudente C. il rapporto fu difficile sin dall'inizio: il Baretti dapprima non pubblicò una critica del C. sugli Scrittori d'Italia del Mazzuchelli, poi dette un pesante giudizio negativo di una delle più impegnative fatiche del bresciano, l'edizione postuma delle Lettere del vescovo Paolo Gagliardi, preceduta da un lungo e noioso Ragionamento... intorno agli epistolari degli uomini illustri (Brescia 1763), infine diffidò ripetutamente, ma inutilmente, il malcapitato corrispondente dal tessere le sue lodi sulla Minerva o sia Nuovo Giornale de' letterati d'Italia definita "sciocchezza" scritta da quell'"infame prete", "briccone" e "tristo" Iacopo Rebellini. Ad incrinare definitivamente l'amicizia fu senza dubbio la relazione epistolare iniziata dal C. con Appiano Buonafede, l'astioso redattore del Bue pedagogo nemico dichiarato della Frusta barettiana; dopo il suo ritorno in Inghilterra il Baretti cessò completamente lo scambio di corrispondenza col C., ma non dimenticò di menzionarlo positivamente nel suo An account of the manners and customs of Italy.
Il C. morì a Brescia il 22 ott. 1796.
Fonti e Bibl.: Numerose lettere del C. sono conservate in: Bibl. Ap. Vat., Vat. lat. 10.005; 10.020; Bassano del Grappa, Bibl. civica, mss. nn. 25, 1059; Milano, Bibl. di Brera, ms. n. 4; Trento, Bibl. comun., mss. nn. 856, 904, 920-950, 952-954; A. Brognoli, Elogi di bresciani perdottrina eccellenti del secolo XVIII, Brescia 1785, pp. 4, 24 s., 419; G. A. Moschini, Della letter. venez. del sec. XVIII sino a' nostri giorni, I, Venezia 1806, p. 90; V. Peroni, Biblioteca bresciana, II, Brescia 1818, pp. 253 ss.; G. Baretti, Gl'Italiani o sia relaz. degli usi e costumi d'Italia, in Opere, VI, Milano 1818, cap. IX; Id., Scritti scelti inediti o rari, a cura di P. Custodi, II, Milano 1822, pp. 33 ss.; P. Custodi, Mem. dellavita di G. Baretti,ibid., passim; G. B. Corniani-S. Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, II, 1, Milano 1833, pp. 448 s.; E. A. Cicogna, Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1847, pp. 385, 411, 429; G. Soranzo, Bibliografia veneziana, Venezia 1885, p. 381; L. Piccioni, Studi e ricerche intorno a G. Baretti con lettere e docum. inediti, Livorno 1899, pp. 239-339, 446 s., 455-458; E. Bertana, Alcune relazioni di G. Baretti condue suoi amici bresciani, in Studi dedicati a F. Torraca, Napoli 1912, pp. 55-64; G. Natali Il Settecento, Milano 1929, pp. 431, 562, 1141, 1185, 1192; M. Berengo, La società veneta allafine del '700, Firenze 1956, pp. 44, 181; P. Berselli Ambri, L'opera del Montesquieu nel Settecento ital., Firenze 1960, p. 125; A. Vecchi, Correnti relig. nel Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, pp. 202, 204, 469, 474, 478-481, 571, 576, 597.