CASALI, Giambattista (Battista)
Figlio di Michele e di Antonia Caffarelli, nobile romana, nacque probabilmente a Bologna poco prima del 1490.
La sua famiglia era infatti originaria di Bologna, ma il padre si trasferì a Roma, non sappiamo esattamente quando. Alcuni storici (l'Amayden, il Tomasino, il Doglioni, il Litta) confondono il C. col Battista Casali, nato a Roma nella seconda metà del XV secolo, appartenente al ramo romano di questa famiglia, e ne sovrappongono i dati biografici. Ma si tratta certamente di due personaggi distinti: il C. infatti morì nel 1536, l'altro nel 1525.
Sulla vita del C. fino al 1525, anno in cui iniziò l'attività diplomatica, sappiamo con sicurezza soltanto che fu protonario e referendario apostolico.
Forse è da identificarsi con lui quel "Baptista Casalius, Romanus, scholaris laicus", il quale, come racconta il Burchard, il 9 febbr. 1502, mercoledì delle Ceneri, pronunciò l'omelia nella cappella papale: portava i capelli lunghi e il papa Alessandro VI ne fu tanto irritato che minacciò il maestro di palazzo di destituzione se in futuro avesse ammesso a predicare gente di quel genere.Nel gennaio 1525 il C. ebbe la sua prima missione diplomatica. Si combatteva allora la prima delle guerre tra Carlo V e Francesco I, e con l'imperatore erano alleati fra gli altri Enrico VIII e Clemente VII. Quest'ultimo però il 12 dic. 1524 aveva stipulato un trattato di alleanza con Francesco I, perché preoccupato dalla riconquista francese del Milanese e dalla spedizione su Napoli, che lo minacciava direttamente, ed insieme - o soprattutto - perché premuto dai capi del partito francese nella Curia. Clemente VII ritenne comunque opportuno giustificare il suo voltafaccia per non alienarsi i due principali alleati, ed appunto con questo scopo nel gennaio del 1525 inviò il C. a Londra. Probabilmente la scelta cadde su di lui perché il fratello Gregorio era già da tempo ambasciatore, inglese a Roma. Non conosciamo i particolari di questa breve missione (il C. fu di ritorno a Roma già nel luglio di quell'anno): del resto l'esito della battaglia di Pavia (24 febbraio) sconvolse i piani diplomatici del papa. Comunque il C. dovette fare una buona impressione negli ambienti inglesi, perché nel dicembre 1525 Enrico VIII lo nominò suo ambasciatore a Venezia, carica che avrebbe ricoperto per circa nove anni.
Il 25 genn. 1526 il C. giunse a Venezia, e tre giorni dopo presentò le credenziali al doge. Le sue prime udienze non gli guadagnarono molta stima: il 6 febbraio il Sanuto lo giudicava "molto inepto e non pratico di Stato".
In quel periodo erano al centro dell'attività diplomatica europea le trattative per la conclusione d'una lega anti-imperiale, che infatti venne stretta a Cognac il 22 maggio tra Francesco I, Clemente VII, Venezia e il duca di Milano Francesco Sforza. Il C. non ebbe a svolgere compiti di rilievo: agiva soprattutto in stretto contatto col fratello Gregorio dal quale riceveva istruzioni e lettere che comunicava al Senato veneto, ed inviava a Londra dispacci informativi dettagliati e spesso acuti. Ebbe un primo incarico di un certo impegno nel marzo 1527, quando si recò a Ferrara per convincere il duca Alfonso d'Este ad abbandonare il campo imperiale e ad unirsi alla lega: fu una trattativa laboriosa e lunga, che si concluse fruttuosamente nel dicembre. Nel maggio intanto, appena ricevuta la notizia del sacco di Roma, di sua iniziativa si recò in Senato insistendo sulla opportunità che le forze della lega attaccassero subito le truppe imperiali che occupavano la città. Il Senato mandò effettivamente ordini in tal senso al duca di Urbino, comandante dell'esercito della lega, che però non si mosse.
Nel 1527 il C. venne eletto vescovo di Belluno: da qui ebbe origine una spinosa controversia, della quale egli non riusci mai a venire a capo.
Il 3 ott. 1526 Clemente VII, su istanza del Senato veneto, aveva concesso a Giovanni Barozzi, patrizio veneziano e cameriere papale, un placet nel quale gli prometteva l'investitura del vescovato di Belluno quando fosse morto il vescovo Galeso di Nichesola, ormai decrepito. Questi infatti morì il 2 ag. 1527, e pochi giorni dopo Antonio Barozzi, fratello e procuratore di Giovanni, prendeva possesso del vescovato. Tuttavia il 18 settembre in concistoro venne eletto vescovo il Casali. Pare che questi avesse persuaso il papa, allora a Viterbo prigioniero degli Imperiali, che il Barozzi era morto. Non si può affermare con certezza il dolo da parte del C., forse si trattò di un equivoco o di precipitazione: il Barozzi era infatti gravemente ammalato di peste, ma guarì.
Toccava a questo punto al Senato veneto assegnare il possesso del vescovato. È da notare che in quel momento i rapporti tra la Serenissima e la Santa Sede erano piuttosto tesi, sia per l'occupazione veneziana di Ravenna e Cervia, sia più in particolare per il problema delle nomine vescovili. La questione venne discussa il 24 e il 27 marzo 1528, e ci fu un violento scontro tra il doge Andrea Gritti, che sosteneva le ragioni del C., anche perché voleva evitare altri dissapori col papa, e il consigliere Alvise Mocenigo, fautore del Barozzi, che accusò il doge di voler favorire uno straniero (quale era appunto il Casali). Alla fine prevalse a larga maggioranza il parere del Mocenigo.
Il C. ricorse a Roma, e il 15 luglio 1529 ottenne in concistoro una sentenza in proprio favore. Ma il Senato veneto non cambiò parere, e rimase anche in seguito sordo ad ulteriori sollecitazioni da parte di Roma. A Belluno si venne così a creare una situazione assurda. Da una parte il Barozzi (che vi si stabilì nel 1531), percepiva le rendite della mensa vescovile, dall'altra il C., forte del fatto che il capitolo non riconosceva il suo avversario, prese possesso spirituale della diocesi, e nominò un vicario per esercitare questa giurisdizione. Ripetutamente chiese udienza in Senato per far valere i suoi diritti, ma il più delle volte non venne ricevuto, con pretesti più o meno futili, ed anzi venne rimproverato per aver preso il possesso spirituale senza autorizzazione. Visti vani i suoi sforzi, dopo che la vicenda si era trascinata per anni, il C. chiese ed ottenne dal papa Paolo III l'interdetto, che colpì Belluno nel marzo del 1535. Ma neppure questa gravissima misura fece recedere il Senato dal suo appoggio al Barozzi; così questa condizione di stallo fu sbloccata solo dalla morte del Casali. Infatti il suo successore, Gaspare Contarini, ottenne senza difficoltà l'investitura da parte del Senato: il Barozzi sparì senza rumore dalla scena, e l'interdetto venne tolto.
Nell'ottobre del 1528 il C. si era recato a Roma in sostituzione del fratello, che era ammalato, per trattare col papa la soppressione di un certo numero di conventi inglesi, con le cui rendite Enrico VIII e il cardinale Wolsey intendevano costruire nuove cattedrali e collegi. Il C. ottenne in breve tempo due bolle di autorizzazione, ma il Wolsey non ne fu molto soddisfatto, perché esse non gli lasciavano carta bianca, come aveva sperato. Poiché il fratello era sempre ammalato, il C. restò a Roma fino alla fine dell'anno per trattare col papa anche il problema della bolla decretale.
Questo fu uno dei primi episodi della trattativa per il divorzio di Enrico VIII, aperta già dall'anno prima, ed anche uno dei meno chiari. Il Wolsey aveva strappato dopo molte insistenze a Clemente VII una bolla, nella quale, a quanto si può supporre, il papa dava ampi poteri al cardinale nella questione del divorzio, con l'impegno però che la bolla restasse privata, solo come prova della benevolenza papale verso Enrico VIII. In questa forma la bolla non aveva alcun valore pratico. Il Wolsey sperava in realtà di renderla pubblica, ma il nunzio Campeggi, che aveva avuto l'istruzione di distruggerla subito dopo averla letta al re e al cardinale, frustrò il suo tentativo. Il Wolsey cercò allora di ottenere un'altra bolla nei termini della precedente. Toccò al C. insistere in questo senso presso Clemente VII, senza risultato.
Tornato a Venezia, il C. riprese la normale attività diplomatica. Si recò più volte a Bologna per partecipare agli incontri tra l'imperatore, il papa e gli altri principi italiani che ebbero luogo tra il novembre del 1529 e il febbraio del 1530, ed assistette all'incoronazione di Carlo V.
Intanto la questione del divorzio di Enrico VIII entrava in una nuova fase: il re voleva dimostrare che la bolla con cui Giulio II gli aveva concesso la dispensa per sposare Caterina d'Aragona, vedova di suo fratello, non era valida, e che quindi il suo matrimonio era nullo. Decise così di raccogliere il maggior numero possibile di pareri favorevoli a questa sua tesi consultando varie università italiane o singoli dottori. Nel gennaio del 1530 giunse a Venezia un suo segretario, Richard Croke, col compito di cercare nelle biblioteche i codici di alcuni Padri greci che potevano corroborare la tesi del re, e di collaborare col C. nel procurare - soprattutto con laute somme di denaro - pareri favorevoli.
Secondo le istruzioni ricevute, nell'aprile il C. chiese al Senato di potersi rivolgere all'università di Padova per avere un parere ufficiale. Ma gli agenti imperiali a Venezia fecero subito presente al doge che l'imperatore non avrebbe gradito un fatto del genere, per cui il Senato decise di negare il permesso al C.; invero a questo fu consentito di rivolgersi ai dottori dell'università in forma privata, ma in realtà il Senato proibì segretamente a costoro di esprimere anche pareri privati.
Malgrado queste difficoltà il C. e il Croke si adoperarono molto per raccogliere scritti, dichiarazioni e firme a sostegno della tesi del re, non solo a Venezia e a Padova, ma anche a Vicenza, Bologna, Mantova, Milano, Pavia, Torino. Ebbero qualche successo soprattutto tra i francescani e i domenicani e fra i dottori ebrei, ma in sostanza, i risultati furono piuttosto deludenti. Fra l'altro i rapporti tra i due divennero ben presto pessimi. Il Croke prese ad accusare presso il re il C. di sabotare l'operazione e di disapprovare - così come suo fratello Gregorio - il comportamento del re. Queste accuse sono molto circostanziate, e certamente contengono almeno un fondo di verità, come testimoniano anche le fonti di parte imperiale, in cui l'atteggiamento del C. appare imbarazzato ed ambiguo. Particolarmente interessante a questo proposito è la relazione che l'ambasciatore imperiale a Venezia, Rodrigo Niño, fece all'imperatore su un lungo colloquio da lui avuto col C. l'11 luglio 1530, in occasione di un pranzo presso l'ambasciatore francese. Dopo alcune contestazioni il C. aveva finito per dichiarare che sia lui che suo fratello avevano disapprovato gli ordini ricevuti dal re, ma che dovevano eseguirli, ed aveva ammesso che la condotta del re nel cercare pareri favorevoli alla sua causa era scorretta; ma aveva scongiurato il Niño di conservare il segreto su quanto egli aveva detto, perché se ciò si fosse risaputo il re avrebbe certamente fatto mettere a morte lui e il fratello.
Enrico VIII invece non sembra aver dato peso ad accuse così gravi, anzi proprio in quell'anno chiese al papa il cardinalato per il C. e per un altro suo ambasciatore, il Ghinucci, peraltro insistendo soprattutto in favore di quest'ultimo. Gli agenti imperiali a Roma riuscirono però a far fallire l'elezione.
Nel 1534 Enrico VIII decise di inviare il C. come ambasciatore presso Giovanni Szapolyai, voivoda della Transilvania e pretendente al trono d'Ungheria. Questi era da anni in guerra contro il re dei Romani Ferdinando, che cingeva la corona d'Ungheria: in quel momento era in corso una laboriosa trattativa di pace, ma intanto egli cercava aiuti presso altri Stati europei, in particolare la Francia e l'Inghilterra. Compito del C. era assicurare al voivoda l'appoggio inglese e persuaderlo a riprendere le ostilità. La missione sarebbe dovuta restare segreta, perché il C., per raggiungere il voivoda, doveva attraversare i domini di Ferdinando, e questi voleva impedire che agenti stranieri si recassero dal voivoda e turbassero le trattative. Ma gli agenti imperiali in Italia sorvegliavano le mosse del C., sicché egli venne facilmente catturato nell'aprile del 1535, poco dopo la partenza da Venezia, non lontano da Zagabria, insieme al segretario del voivoda, Andrea Corsini, che lo accompagnava. Fu rinchiuso nel castello di Neustadt, vicino Vienna, e tenuto nel più completo isolamento.
Suo fratello Gregorio sollecitò immediatamente l'intervento di Enrico VIII perché venisse liberato; ma questi non mostrò la minima preoccupazione per la sua sorte, anzi, nell'evidente tentativo di riparare ad una mossa falsa, il suo segretario Cromwell dichiarò all'ambasciatore imperiale a Londra, Eustace Chapuys, che il C. non era affatto autorizzato a condurre trattative con il voivoda, e che pertanto il re si disinteressava della sua sorte. Ad interessarsi del C. rimase solo papa Paolo III. Attraverso il nunzio a Vienna, Vergerio, fece ripetutamente pressione su Ferdinando perché il C. venisse rilasciato, o per lo meno perché la prigionia fosse resa meno dura. Solo a Natale del 1535 poté ottenere che egli ricevesse la visita di un servitore con denaro, indumenti e libri.
La detenzione del C. durò fino al maggio 1536. Tornato a Bologna, contava di recarsi in Inghilterra per rendere omaggio al re, ma la morte lo colse prima, tra il settembre e l'ottobre del 1536. Venne seppellito a Bologna, nella chiesa di S. Domenico.
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