BIFFI, Giambattista
Nacque a Cremona il 27 ag. 1736 dal conte Giovanni Ambrogio, secondo del nome, e da Teresa Maria Pozzi. I Biffi, di nobiltà recente (patrizi decurionali dal 1625, conti dal 1694), avevano avuto figure di rilievo: Orazio (1648-03), rettore dell'Archiginnasio bolognese, Bernardino (1673-26), procuratore generale degli eremitani di s. Gerolamo.
Il B. fu oggetto di cure amorevoli da parte del padre, pittore dilettante, e di severe restrizioni da parte dello zio Stefano, cadetto scapolo capo di casa. Educato nel collegio dei nobili a Milano (1746-56), credette di essere chiamato alla vita religiosa; dissuaso da Federico Maria Pallavicino, gesuita amico di famiglia, passò a Parma, ove completò gli studi giuridici (1756-60) ed entrò in dimestichezza con il Condillac, G. M. Pagnini, A. Mazza, P. Manara, A. Turchi. In quegli anni conobbe anche l'Algarotti, che venerò poi sempre come "genio sovrano, l'onore d'Italia". Frequentò gli ambasciatori di Francia, Spagna, Napoli, e gli incaricati d'affari d'Austria e di Sardegna; godette i favori del Du Tillot e dell'infante Filippo di Borbone. Confermata la laurea a Pavia il 1º luglio 1760, tornò (fra la fine del '60 e i primi del '61) a Milano.
La cultura europea assimilata nell'"aurea Parma", la prontezza dell'ingegno, la mitezza del carattere gli guadagnarono molte amicizie. Da un lato frequentò casa Litta, cui rimase poi sempre legatissimo, ed entrò nelle grazie del Firman e di Francesco III d'Este; d'altro lato fu intimo del Baretti, e fu coi fratelli Verri e col Beccaria fra i primissimi di quel gruppo di amici che sarà detto poi Accademia dei Pugni.
Durante una breve assenza da Milano, nell'inverno 1761-62, il Beccaria gli scrisse una lettera che ben delinea un B. appassionato lettore della Nouvelle Héloïse, fresca di stampa, e "imitatore" dell'amante di Julie. Altri tratti rousseauiani, di "vertu raisonnée", di "enthousiasme", di "être trop sensible", vengono riconosciuti come caratteristici del B. nelle numerose lettere inviategli a Cremona negli anni successivi dal Beccaria (fino al 1770), dal Baretti (fino al 1773), da Pietro Verri (fino al 1777). Negli epistolari del Beccaria, del Baretti, del Verri, queste lettere al B. sono tra le più vive e interessanti; e il B. resta un personaggio notevole del carteggio tra Pietro e Alessandro Verri.
Quando già il Firmian gli aveva procurato una nomina a segretario di ambasciata, lo zio Stefano interruppe, nell'estate del '62, la carriera diplomatica alla quale il B. teneva molto, costringendolo a rientrare definitivamente a Cremona. Di qui egli non si mosse più se non per sporadici, brevi viaggi.
A Cremona (pur attraverso momenti di grave sconforto, come in un forzato esilio) il B. dispiegò una multiforme attività nell'ammodernamento teresiano e giuseppino dell'amministrazione locale. Giureconsulto collegiato, esercitò il compito di censore politico della stampa, appellandosi all'autorità centrale contro lo zelo chiesastico delle altre autorità cremonesi; favorì l'attività del più importante editore e libraio cremonese, L. Manini; "preside degli studi in tutta la provincia cremonese" dal 1775, si occupò particolarmente della biblioteca e delle scuole (sottratte ai gesuiti nel 1774), costituendo il primo nucleo dell'attuale Libreria Civica; membro della Camera degli artigiani, vicario di provvisione, direttore di grandi opere idrauliche (1779-81), delegato al governo del collegio di S. Carlo delle nobili lombarde canonichesse (1783), assessore alle vettovaglie (1786), fu stimatissimo dall'arciduca Ferdinando e da Giuseppe II. Ricevette il titolo di ciambellano e (1796) la croce di cavaliere commendatore dell'Ordine di S. Stefano.
Figura di rilievo nella massoneria, ebbe rapporti stretti con gli ufficiali stranieri della guarnigione; col nome di "Ab arce antiqua" succedette nel 1778 al colonnello Paolo conte di Bethlen nel governo della loggia cremonese. Abolite da Giuseppe II le logge provinciali nel 1786, il B. non entrò nella loggia centrale milanese, anche se, come pare, conservò rapporti con massoni torinesi.
Patì gravi fastidi durante l'occupazione francese (1796-99). Sembra si riaffacciasse alla vita pubblica nella fugace restaurazione del 1799. Manca poi ogni notizia su di lui fino alla morte, avvenuta il 9 maggio del 1807.
I frutti della sua cultura giuridica, filosofica, artistica, letteraria rimasero sempre tutti anonimi o inediti. Tentò inutilmente, pur sollecitato da Pietro Verri, di collaborare al Caffè, proponendo temi, come quello delle monacazioni forzate, che il direttore del periodico giudicò inopportuni (1764). Ad altri lasciò illustrare il mosaico che scoprì nel 1770 nel sotterraneo della sagrestia del duomo. Certe sue traduzioni dall'inglese (1770), da Epitteto (1774), del Figlio naturale del Diderot (1774) e dell'Esprit dell'Helvétius rimasero manoscritte, benché quella del Figlio naturale fosse già preparata per la stampa. Sotto nome di altri fece pubblicare (1774) una guida artistica di Cremona, che suscitò vivaci reazioni polemiche. Ebbe parte certa, ma difficilmente misurabile, nella pubblicazione del repertorio pittorico dello Zaist (1774). Il suo nome non figura nell'edizione delle opere dell'Algarotti (1778-83) che diresse e curò redazionalmente. Una serie di contributi sulle belle arti alla Enciclopedia Italiana di Alvise Zorzi risultò vana per la morte di quest'ultimo e il troncamento dell'opera (1779). Certi suoi testi pedagogici ai quali si interessò (1781-82) F. Melzi d'Eril sono da ritenere perduti. Per una collaborazione di aggiunte alla sua Storia lo ringraziava solo privatamente (1786) il Tiraboschi. Non è chiaro se pubblicasse alcunché, e quando, e come, delle ricerche condotte in chiave latomistica sui Templari e sui loro "successori". Raccolse un insuperato corpus di iscrizioni cremonesi, ma lo lasciò pubblicare (1796) a A. T. Vairani. Una sua monumentale Storia degli artisti cremonesi (elemento non trascurabile nel quadro degli studi pre-lanziani) rimase allo stato di schede sparse. Non è certa la sua collaborazione all'Estratto della letteratura europea.
A contatto con una cultura provinciale in cui non erano ancora del tutto spenti gli stimoli di una tradizione gloriosa, la formazione di stampo europeo, più inglese che francese, ricevuta dal B. a Parma e a Milano, diede, oltre ai frutti caduchi o imperfetti sin qui accennati e a ben altri ancora (non mancano tra le sue carte un paio di sonetti), qualche frutto che mantiene una certa vitalità.
Vanno ricordate in primo luogo le lettere che scrisse ad amici cremonesi (e che provvide a raccogliere in ordinati manoscritti, autografi o apografi) durante alcuni viaggi: da Venezia (1773), da Genova (1774), dal Piemonte e dalla Francia meridionale (1776), da Ferrara (1777). In questi scritti il B. si mostra osservatore attento; le preoccupazioni politiche, economiche, filosofiche si accompagnano a un interesse sempre più prevalente per le arti e i costumi, per le testimonianze del passato regionale italiano.
Il suo scritto più organico e più vivo è un diario, tenuto tra il 1ºott. 1777 e il 24 ott. 1781. Compiuta testimonianza delle preoccupazioni e degli interessi già testimoniati dalle lettere, l'opera è l'ultima e la più alta pagina della letteratura municipale cremonese; costituisce un singolare documento psicologico; documenta una tappa non trascurabile della letteratura di "linea lombarda", chiaramente contemporanea alla fase "grottesca" del Giorno pariniano, con puntuali anticipazioni del gusto che sarà poi riconosciuto caratteristico del Dossi e del Gadda. Particolarmente notevoli le pagine ironiche e disperate che esprimono, in una precoce crisi dei valori illuministici, nello sfacelo del mondo aristocratico, il rimpianto preromantico per "quella bonomia dell'ignoranza che caratterizzava i vecchi lombardi", non senza una particolare attenzione per certa cronaca nera (vista attraverso schemi che derivano dal Richardson) e per la problematica del suicidio.
Ultimo dei Biffi, lasciò erede universale, con testamento del 30 maggio 1796, Serafino Sommi (1768-1857), che aggiunse al nome della propria casata quello dei Biffi. Dal 1816, però, quando i figli di Serafino, Gerolamo e Antonio Sommi Biffi, furono nominati eredi universali dai gemelli Giuseppe e Ottavio Luigi, ultimi dei Picenardi, la casata si chiamò non Sommi Biffi Picenardi, bensì solo Sommi Picenardi. Nella villa alle Torri de' Picenardi furono allogate la sua biblioteca e la sua pinacoteca; altra fine ebbero la raccolta di pietre incise e cammei, la camera d'armi, la gipsoteca. Tutto andò completamente disperso attraverso le generazioni; solo alcuni manoscritti pervennero nel 1887 alla Libreria civica di Cremona, dove sono custoditi, sommariamente catalogati sotto titoli arbitrari.
Il ricordo della figura del B. fu coltivato localmente da A. Dragoni (1810), da C. G. Scotti (1812), da V. Lancetti (1820) e fu rinverdito da F. Novati (1887) e da G. Sommi Picenardi (1912-14). L'importanza della sua attività e delle sue opere è stata riscoperta e definitivamente riconosciuta da F. Venturi, che per primo ha pubblicato parte delle lettere e del diario.
Bibl.: Biblioteca Governativa di Cremona, aa. 5. 35, A. Dragoni,Mem. per servire all'elogio del conte G. B. B.; C. G. Scotti,Elogio del signor G. B. B., Cremona s.d. (ma 1812); V. Lancetti,Biografia cremonese, II, Milano 1820, pp. 284-356; F. Novati,Otto lettere di Tito Pomponio Attico a Publio Cornelio Scipione, Ancona 1887; G. Sommi Picenardi,Lettere ined. di P. Verri, ... di G. Baretti a G. B. B., ... di Frisi a G. B. B., ... di F. Melzi d'Eril,di G. B. Giovio,di C. Denina e di G. Tiraboschi a G. B. B., in Rass. naz., 1º giugno e 1º sett. 1912, 16 gennaio, 1º giugno e 16 luglio 1914; F. Venturi,Un amico di Beccaria e di Verri: profilo di G. B. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV (1957), pp. 3776; Illuministi italiani, III,Riformatori lombardi piemontesi e toscani, a cura di F. Venturi, Milano Napoli 1958, pp. 386-390; G. Dossena,Tra gli antenati del Dossi, in Paragone XVI (1965), n. 186, pp. 126-35; Id., Per il diario del Biffi, in Studia Ghisleriana, s. 2, III (1968), pp. 1-93.