BASILE, Giambattista
Nato a Napoli nel 1575, fu soldato a Venezia (1604-1607 circa); tornò poi a Napoli (1608), donde si recò a Mantova alla corte di Ferdinando Gonzaga (1612-13), da cui fu nominato cavaliere e conte palatino. Salvo poi (1614) a ritornare definitivamente nell'Italia meridionale e ricoprire via via l'ufficio di governatore feudale di varie terre, ultima delle quali fu Giugliano dove morì repentinamente il 23 febbraio 1632.
Se egli si fosse contentato di comporre la parte, per così dire, ufficiale della sua produzione letteraria, e cioè le sue molte opere italiane, che soleva bensì firmare col proprio nome, cognome e titoli, ma nelle quali non poneva nulla o quasi della sua anima, sarebbe restato forse un semplice satellite, e non dei più luminosi, di Giambattista Marino. Il suo non arcigno moralismo, pronto sì all'ammonizione e all'invettiva, ma ancora più al sorriso canzonatorio e al ritratto satirico; la sua adorazione per la bontà, la probità e l'ingenuo candore; il suo affetto per la città natale, per le sue vecchie costumanze e per le sue antiche canzoni; il suo interessamento, tra sentimentale e curioso, per le fiabe, i proverbî e i motti popolari; la sua ereditaria passione per la musica, che gli appariva come l'armonia delle cose, e in cui ritrovava la sanità dell'uomo; tutti gli elementi, insomma, dell'animo suo, tendente in fondo alla tristezza e talora perfino al pessimismo e al fastidio delle cose umane, avrebbero trovato, nella forma convenzionale, aulica, cortigianesca della sua produzione italiana, un ostacolo quasi invincibile alla loro oggettivazione artistica. Fortunatamente, o per bizzarria di letterato e studioso di lingua o, ch'è più probabile, invogliato dall'esempio del suo antico compagno di scuola e quasi fratello Giulio Cesare Cortese, che aveva preso a innalzare il dialetto napoletano a dignità d'arte, gli venne desiderio (ma nascondendosi sotto lo pseudonimo anagrammatico di Gian Alesio Abbattutis) di entrare nel medesimo arringo. E, dopo aver premesso alla Vaiasseide del Cortese (Napoli 1614 e molte ristampe) cinque componimenti scherzosi in forma epistolare (due in verso, tre in prosa), che gli riuscirono, a dir vero, opera più da vocabolarista che da artista, sentendosi sempre più a suo agio in quel dialetto patrio, che non gl'imponeva obblighi letterarî, gli venne fatto di comporre le Muse napolitane e il Cunto de li cunti tutti e due pubblicati postumi e molte volte ristampati; e il secondo tradotto in italiano, in dialetto bolognese, in tedesco e in inglese. In quelle - dette Muse napolitane, perché formate da nove "egloghe" o dialoghi in verso, intitolate ciascuna col nome d'una musa - sono disegnati altrettanti quadri, a sfondo moralistico-satirico, di vita napoletana (notevoli, anche dal punto di vista storico, la quinta egloga: Talia overo lo Cerriglio, ricca di notizie su quella famosa taverna della Napoli cinque-secentesca; e la nona: Calliope overo la museca, recante, tra l'altro, i capoversi, e per una l'intero testo, di molte antiche villanelle). Le fiabe popolari che correvano per Napoli sono poi raccolte, come in un dimezzato decamerone o "pentamerone", nel Cunto de li cunti: la prima, in ordine di tempo, di ricchezza di contenuto e di valore artistico, fra quante sillogi del genere siano state pubblicate in tutta Europa. Raccolte, ma non ripetute meccanicamente dal Basile, a guisa di folklorista o demopsicologo; anzi rielaborate artisticamente e trattate con la superiorità del letterato di professione, e del letterato secentista, che, pur compiacendosi di quegli ingenui racconti, ne aveva sempre presenti la tenuità e l'umiltà, e perciò vi scherzava intorno, adornandoli capricciosamente con veri fuochi di fila di bisticci e sinonimie scherzose e delle più impensate metafore barocche (p. es. l'aurora, il tramonto, la notte, ecc., sono descritte centinaia di volte e sempre in modo diverso). Per una gherminella d'una mora, il principe di Camporotondo, anziché la bellissima Zoza, che lo aveva liberato da un incantesimo, è costretto a sposare essa mora, nella quale, tuttavia, con l'aiuto d'un dono fattole da una fata, Zoza riesce a suscitare un desiderio così intenso d'ascoltare fiabe, che il principe deve pur convocare nei suoi giardini dieci vecchie bruttissime (graziosa parodia delle amabili novellatrici del Decameron), le quali, dopo divertimenti e giuochi d'ogni sorta (tutti in uso nella vita napoletana del tempo, e quasi tutti conosciuti soltanto attraverso il Basile), raccontano via via, in cinque giornate (chiuse, ciascuna delle prime quattro, da un'egloga) quarantanove fiabe. Se non che, alla fine della quinta giornata, Zoza che, travestita, ha preso il posto d'una delle raccontatrici, narra, sotto forma di fiaba (la cinquantesima) la propria storia, svela l'inganno della mora, messa subito a morte, e sposa il principe. Entrare in particolari non è possibile, e basterà ricordare tra le fiabe più belle o più famose: Peruonto, imitata poi dal Wieland nel componimento poetico di pari titolo; Zezolla, ch'è la Cenerentola del Perrault; La cerva fatata, versificata nel secondo cantare del Malmantile riconquistato del Lippi, che anche altrove (come del resto altresì il Rosa e il Menzini) tolse non poco dal Basile; La vecchia scorticata, mirabile per realismo descrittivo; Cagliuso, che ricompare con mutamenti nello Chat botté del Perrault e nel Gatto con gli stivali del Tieck; Lo scarafaggio, il topo e il grillo, d'una vis comica irresistibile; Il cuorvo, trasferita di peso da C. Gozzi nel suo Corvo; Le tre cetre, rifusa dallo stesso Gozzi nell'Amore delle tre melarance; Sole, Luna e Talia, ch'è la fiaba francese della Belle au bois dormant e la tedesca di Dornröschen, e via.
Bibl.: Primo tentativo di studio critico sul B. fu quello, assai sfavorevole, di F. Galiani (Dialetto napoletano, Napoli 1779; e cfr. ediz. Nicolini, Napoli 1923); né indovinata è l'apologia del Cunto de li Cunti, che, in risposta al Galiani, L. Serio inserì a sua volta nel Vernacchio (Napoli 1780). Ma già nel 1822 (terzo volume dei Kinder- und Hausmärchen) il valore del capolavoro basiliano era rivelato dai fratelli Grimm, uno dei quali (Jacob) tornò sull'argomento nella sua prefazione alla traduzione del Liebrecht. Vedere inoltre, fra i tanti, G. Ferrari nella Revue des deux mondes del 1840; V. Imbriani, nel Giorn. nap. del 1875; la monografia premessa dal Croce alla sua ediz. del Cunto de li cunti (Napoli 1891), rist., con abbr., nei Saggi sulla lett. it. del Seicento, Bari 1911; 1922, 2ª ed.; il saggio critico aggiunto dallo stesso Croce alla sua vers. ital. (Bari 1925), rist. in St. dell'età bar. in It. Bari 1929.