VARAGLIA, Giaffredo (Goffredo)
– Nacque a Busca, cittadina del Cuneese, nel 1507, da Giaffredo, ufficiale dell’esercito sabaudo, e fu battezzato nella chiesa dedicata a S. Martino di Tour.
Il nome della madre non è noto e il padre viene ricordato da Gerolamo Miolo (Historia breve..., 1587, a cura di E. Balmas, 1971) per la sua partecipazione alla campagna di repressione delle comunità valdesi nel 1488: «un certo capitano di Busca chiamato Giafredo Varaglia [...] fu capital nimico di quei poveri d’Angrognia il quale finalmente morì essendo stato attossicato in una gioncata o sia ricotta di latte da quelli che l’odiavano per la sua superbia» (pp. 94 s.). Poco si sa della famiglia paterna, probabilmente tra le notabili del borgo, il cui nome è legato alla costruzione di un canale – il Varaglia – che irrigava e rendeva coltivabile un’ampia zona di terreni incolti; Miolo aggiunge che con il guadagno della guerra il padre costruì a Busca una Torre di Varaglia, che egli vide ma di cui attualmente non vi è traccia.
Nel 1520 Giaffredo entrò nell’Ordine dei francescani nel convento di S. Maria degli Angeli a Busca e l’anno successivo prese i voti; ignoriamo però il nome che assunse. Iniziò subito un percorso di formazione in vista dell’ordinazione, dapprima nel suo monastero (1522-25) e in seguito in uno degli Studi generali della provincia di Genova (Genova, Torino, Pinerolo, Asti e Pavia), a cui il convento di Busca apparteneva (1525-28). Lo Studio scelto fu probabilmente Torino: nella sua seconda lettera, alla vigilia della condanna, Varaglia accenna alla sua permanenza in città ricordando al presidente della Corte Girolamo Porporato la loro amicizia che risaliva al 1525 (S. Lentolo, Historia delle grandi e crudeli persecutioni..., 1595, a cura di T. Gay, 1906, p. 108). Nel 1528 fu ordinato sacerdote nel duomo di Torino e pochi mesi dopo aderì al giovane ramo dell’Ordine, i cappuccini.
L’Ordine dei frati minori cappuccini, una delle tre famiglie dell’Ordine francescano, si formò in seguito al movimento dell’Osservanza (metà del XIV secolo) che insistette per un ritorno alla regola originaria. Fu promosso da alcuni fratelli dell’Osservanza, Matteo Bascio, Paolo da Chioggia, Ludovico Tenaglia e il fratello Raffaele, che ottennero il riconoscimento della loro iniziativa da Clemente VII con la bolla Religionis zelus del 1528. Il nuovo Ordine sembrò rispondere alle aspirazioni di molti confratelli e le adesioni furono numerosissime, tanto da inquietare i superiori dell’Osservanza. Nonostante le polemiche e le accuse che nel 1534 convinsero Clemente VII a ordinare a tutti gli osservanti entrati nel nuovo Ordine di tornare nei loro conventi di origine (Pastoralis Officii), Bernardino Ochino, vicario generale dell’Osservanza e predicatore tra i più famosi del tempo, aderì ai cappuccini proprio in quell’anno, insistendo molto presso i confratelli perché aumentassero l’impegno nella predicazione per contrastare la Riforma.
La documentazione sugli inizi dell’Ordine è molto scarsa e per quel che riguarda Varaglia la fonte principale è costituita dalle sue dichiarazioni ai giudici nel corso degli interrogatori svoltisi a Torino tra il 13 dicembre 1557 e il gennaio del 1558, e nelle lettere che spedì ai fedeli di Bibiana dalla prigionia.
Gli atti originali del processo sono andati perduti, ma alcuni fratelli di fede ne avevano avuto una copia e l’avevano trasmessa al pastore Scipione Lentolo (o Lentulo), che risiedeva a Ginevra e che nel 1561 aveva informato Teodoro Beza di essere impegnato nella stesura di un’opera sulle vicende dei valdesi (Fiume, 2003). Lentolo tradusse gli atti dal latino in italiano e li inserì nella sua Historia delle grandi e crudeli persecuzioni fatte ai tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte, rimasta manoscritta fino al 1905. Le carte processuali erano però giunte anche in mano di Jean Crespin, che le tradusse in francese e le inserì nell’edizione del 1563 del suo martirologio: tranne minimi particolari i due testi corrispondono.
Nel corso del processo Varaglia non precisò in quale convento avesse vissuto tra il 1528 e il 1535; interrogato, si limitò a rispondere «qu’autrefois il avoit esté de la religion des Cappucins, iadis compagnon de frere Bernardin de Sienes, deputé avec luy, et douze autres Freres pour aller prescher» (J. Crespin, Geffroy Varagle, 1563, p. 401). La missione evangelizzatrice di cui parla era stata promossa nel 1535 e Varaglia la svolse soprattutto in Piemonte, dove la Riforma era già ampiamente penetrata, ma predicò anche altrove e a Roma, assai apprezzato come «sommo teologo e dottore del papa» (G. Miolo, Historia breve..., cit., pp. 95). La fuga di Ochino nel 1542 ebbe come conseguenza il divieto immediato della predicazione itinerante e l’apertura di un’indagine approfondita sull’Ordine, in particolare sui frati che erano stati scelti per quel compito. Anche Varaglia fu convocato a Roma, presumibilmente nel corso del 1542 , esaminato e dopo l’abiura condannato a cinque anni di reclusione nel convento romano.
Nel 1547, allo scadere della pena, fu espulso dall’Ordine e ridotto allo stato di sacerdote secolare; nel testo edito da Lentolo avrebbe precisato di avere da allora «lasciato di dir messa conoscendo in quella molti errori» (S. Lentolo, Historia delle grandi e crudeli persecutioni..., cit., p. 88.) Egli rimase comunque a Roma, riprese il suo nome e continuò a muoversi all’interno degli ambienti ecclesiastici con evidente tranquillità se nel 1556 lo stesso pontefice che lo aveva condannato lo indicò come cappellano del cardinale nipote, Carlo Carafa.
Nel maggio del 1556 seguì il cardinale Carafa inviato come legato pontificio presso Enrico II con lo scopo ufficiale di sollecitare il sovrano a più decise azioni nei confronti dei riformati e favorire le trattative di pace con la Spagna; segretamente avrebbe dovuto spingere la Francia alla rottura con la Spagna e alla guerra contro l’Impero. Varaglia ebbe così la possibilità di conoscere la realtà riformata di Parigi e soprattutto di Lione, città che ospitava una numerosa colonia di riformati italiani. Parlandone agli inquisitori egli dichiarò che «havea buon salario, oltre alcuni beneficij, che mi rendeano assai bene: nondimeno non potendo resistere a gli stimoli della coscientia, ritornandosene il mio Padrone in Italia, a Lione mi licentiai di lui, e me ne andai a Geneva» (ibid.).
Nella comunità italiana ginevrina la colonia piemontese era la più numerosa numericamente e la più varia dal punto di vista delle professioni. In essa si distinguevano due diversi gruppi: i piemontesi emigrati per motivi legati alla loro attività ben prima degli anni Trenta del Cinquecento, i cui discendenti erano ormai cittadini ginevrini, e quelli giunti per motivi di coscienza. I registri ginevrini parlano di circa duemila piemontesi immigrati dalla metà degli anni Trenta. Il decennio 1551-61 fu quello che registrò il maggior numero di profughi. In quel periodo la Riforma in Piemonte raggiunse il culmine dei suoi successi; di contro il Parlamento francese di Torino intensificò l’attività contro i riformati e dal 1559 Emanuele Filiberto rientrato in possesso dei suoi domini si impegnò a fondo nella ricattolicizzazione del territorio.
Ochino aveva predicato nel 1542 agli italiani emigrati religionis causa, ma solo da poco essi avevano un proprio locale di culto. Varaglia giunse in città nel settembre del 1556: aderì subito alla Chiesa italiana, guidata dal bresciano Celso Martinengo, e per approfondire la sua preparazione si iscrisse alla scuola organizzata dalla Venerabile Compagnia dei pastori: lì conobbe Giovanni Calvino e ne ascoltò le lezioni e le predicazioni; seguì i seminari di esegesi insieme ai numerosi studenti italiani, acquistò molti libri e si preparò al ritorno in patria come pastore. Un ritorno che per una serie di coincidenze avvenne in tempi molto rapidi.
La scelta e l’invio dei pastori per le comunità italiane e francesi era uno dei compiti più impegnativi della Venerabile Compagnia. Nonostante le numerose richieste delle comunità e l’esiguo numero di predicatori disponibili, la selezione era severa e teneva conto di diversi fattori: la preparazione teologica, la capacità di esporre con chiarezza, l’abilità nella controversia, le condizioni fisiche, l’integrità morale, la consapevolezza dei pericoli che comportava l’ingresso clandestino nei singoli Paesi. La Compagnia si faceva inoltre carico della preparazione del viaggio – dalle lettere di accompagnamento alla indicazione del percorso più sicuro – e dell’assistenza ai familiari che avrebbero potuto rimanere soli anche per periodi molto lunghi. L’aspetto più delicato era quello del rapporto con il Piccolo Consiglio: Calvino trasmetteva le decisioni prese dalla Venerabile Compagnia, ma il Consiglio non doveva assolutamente apparire ufficialmente coinvolto per non compromettere i rapporti particolarmente delicati con la Francia. Tutto doveva dunque svolgersi nella massima segretezza, anche a tutela della incolumità dei pastori e delle comunità a cui erano destinati.
Nel marzo del 1557 il Parlamento di Torino diffuse nelle valli valdesi l’editto di Enrico II che condannava la loro confessione di fede e imponeva agli abitanti di consegnare alle autorità i predicatori, pena la vita e la confisca dei beni. Le comunità non ottemperarono e inviarono a Ginevra la richiesta di nuovi pastori: il 26 maggio Varaglia giunse in Piemonte con l’incarico di occuparsi delle comunità di Angrogna e Luserna San Giovanni. Egli dispiegò subito un’intensa attività, partecipò al sinodo riunitosi a Villar Pellice e si spinse fino in pianura per predicare ai fedeli di Carignano. Saputo del suo ritorno, i concittadini riformati di Busca gli chiesero di sostenerli in un confronto con il noto polemista francescano Angelo Malerba, anch’egli nativo di Busca. Il dibattito si svolse il 9 novembre e il 17, sulla strada del ritorno, Varaglia fu arrestato a Barge.
Dopo un primo interrogatorio da parte del priore dell’abbazia di Staffarda che appurò la sua eresia, fu affidato a un nobiluomo di Barge in attesa del trasferimento a Torino, dove giunse circa tre settimane dopo. Fu rinchiuso nelle carceri del Parlamento e il processo iniziò il 13 dicembre, dopo diversi tentativi di ottenere da lui un’abiura.
Nel corso degli interrogatori Varaglia ebbe modo di delineare il suo percorso e di esporre ciò che aveva insegnato e ciò che contestava della dottrina della Chiesa di Roma dando prova di una profonda preparazione teologica e di una notevole chiarezza espositiva, le doti che Ginevra aveva apprezzato e che gli erano state riconosciute anche quando vestiva il saio cappuccino (S. Lentolo, Historia delle grandi e crudeli persecutioni..., cit., pp. 88-108). Tra i membri del Parlamento egli poté contare su diversi, discreti amici che gli trasmisero una lettera di Calvino (datata 17 dicembre) e fecero arrivare ai fedeli di Bibiana le sue due lettere, del 12 gennaio e del 18 febbraio.
La sentenza di morte fu emessa il 14 febbraio e il 16 Varaglia fu condotto nel duomo e ridotto allo stato laicale. Gli amici che lo avevano sostenuto fino ad allora cercarono disperatamente di impedire l’esecuzione: mossero Calvino, Guillaume Farel, Beza, Guillaume Budé e soprattutto un influente personaggio bernese, celato sotto lo pseudonimo di Brocardo Cateleri, il quale riuscì a ottenere un rinvio. Il timore che questo potesse portare all’annullamento della pena di morte sollecitò Roma a insistere per l’esecuzione della sentenza.
Il 29 marzo 1558 Varaglia salì sul patibolo montato in piazza Castello a Torino e dopo che ebbe pronunciato un’appassionata confessione di fede fu strangolato e il suo corpo dato alle fiamme.
Il 21 ottobre 2000 la città di Torino e la Chiesa valdese gli resero omaggio inaugurando una targa in piazza Castello: «In memoria del pastore valdese Goffredo Varaglia impiccato e arso sul rogo in questa piazza il 29 marzo 1558».
Fonti e Bibl.: Storia delle persecuzioni e guerre contro il popolo chiamato valdese (1562), a cura di E. Balmas - A. Theiler, Torino 1975, pp. 92 s.; J. Crespin, Geffroy Varagle. Piedmontois, in Id., Cinquiesme partie du Recueil des martyrs, Genève 1563, pp. 398-423; J. Foxe, Rerum in Ecclesia gestarum [...] Commentarii, a cura di H. Pantaleon, Basileae 1563, pp. 334 s.; G. Miolo, Historia breve et vera de gl’affari de i Valdesi delle Valli (1587), a cura di E. Balmas, Torino 1971, pp. 94 s.; S. Lentolo, Historia delle grandi e crudeli persecutioni fatte ai tempi nostri in Provenza, Calabria e Piemonte: contro il popolo che chiamano valdese e delle gran cose operate dal Signore in loro aiuto e favore (1595), a cura di T. Gay, Torre Pellice 1906, pp. 87-113; Registres de la Compagnie des Pasteurs de Genève au temps de Calvin, a cura di R.-M. Kingdon - J.-F. Bergier, II, Genève 1962, p. 74.
P. Gilles, Histoire ecclésiastique des Eglises Réformées, recueillies en quelques Valées de Piedmont, et circonvoisine autrefois appelées Eglises Vaudoises, Genève 1644, pp. 65 s.; J. Jalla, Storia della Riforma in Piemonte fino alla morte di Emanuele Filiberto. 1517-1580, Firenze 1914, pp. 94-96; E. Fiume, Scipione Lentolo 1525-1599. «Quotidie laborans evangelii causa», Torino 2003, pp. 231-237; C. Papini, Il processo di G. V. ( 1557-58) e la Riforma in Piemonte, Torino 2003; M. Fratini, L’annessione sabauda del Marchesato di Saluzzo. Tra dissidenza religiosa e ortodossia cattolica nei secc. XVI-XVIII, Torino 2004 , pp. 11-14, 219, 287; R. Giuliani, Una vita e un martirio da non dimenticare. G. V. e le missioni evangeliche in Italia (1532-1558), Mantova 2007.