VENEZIAN, Giacomo
– Nacque a Trieste il 7 dicembre 1861, da Vitale, medico condotto, e da Elisa Norsa, originaria di Mantova, che ebbero altri due figli e che il giovane perdette a soli undici anni.
La famiglia, abbastanza agiata, era di ascendenza israelitica e nel corso del secolo espresse parecchi esponenti dell’élite cittadina e diversi protagonisti della vita politica italiana. Lo zio, Giacomo senior, morì nei combattimenti in difesa della Repubblica romana (1849); il cugino Felice (v. la voce in questo Dizionario), avvocato, fu in prima fila a sostegno dell’italianità di Trento e della città giuliana.
Veneziani si nutrì dello spirito cosmopolita triestino e di un forte sentimento irredentista e nazionale. Così, se da un lato fu precoce nell’imparare le lingue (tedesco, inglese), nell’aprirsi a molte curiosità, musicali e letterarie, nel costruirsi una preparazione storica, dall’altro, già in contatto epistolare con Giuseppe Garibaldi verso la fine della scuola ginnasiale italiana, fu tra gli animatori di un periodico irredentista insieme a Guglielmo Oberdan, a Salvatore Barzilai (futuro parlamentare e ministro) e ad alcuni familiari; arrestato per alto tradimento e propaganda sovversiva nell’autunno del 1878, restò in carcere per nove mesi, ma il processo si concluse a Graz con l’assoluzione.
Si immatricolò nello stesso 1879 all’Università di Bologna in giurisprudenza, conseguendo l’iscrizione direttamente al secondo anno in considerazione dei motivi patriottici che lo avevano costretto al ritardo; ottenuta la cittadinanza italiana nel 1881, decise di svolgere il servizio militare da volontario. La laurea arrivò in soli tre anni, il 20 novembre 1882, con una tesi discussa con il civilista Oreste Regnoli; il maestro più influente fu però il penalista Enrico Ferri, allora giovanissimo incaricato, che lo introdusse al metodo sperimentale con visite a istituti di correzione e pena dalle quali Venezian trasse i primi saggi (pubblicati, ancora da studente, in Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale, 1882, vol. 3). Già portato a un indirizzo critico, da allora si orientò su direttrici antimetafisiche, incline, in una ricerca continua e tormentata, a dar rilievo a ciò che chiamava i fenomeni obiettivi. Nella convinzione che l’esistenza fosse lotta perenne, secondo il leitmotiv della cultura positivistica del tempo, presto alimentò la preparazione giuridica con letture sociologiche (da qui, più tardi, le critiche di insufficiente attenzione per la dimensione giuridica).
L’elaborato preparato per la laurea, rivisto nel 1884-85 ma mai ultimato, è un unicum nel panorama della dottrina giuridica, e non solo perché distante dall’indirizzo esegetico e da quello pandettistico (l’edizione è in G. Venezian, Opere giuridiche, I, Roma 1919, pp. 1-343). Presentata in versione provvisoria nei vari concorsi cui partecipò, talvolta senza che i singoli commissari disponessero di una copia, la monografia era dedicata al danno extracontrattuale. Debitrice di suggestioni tratte dalla dottrina anglosassone e dal metodo positivistico, annullava la tradizionale separazione tra il profilo civilistico e penalistico e prospettava una concezione oggettiva: la produzione di un torto (inteso in senso ampio, come azione antigiuridica) implicava di per sé la risposta sociale, al di là dell’indagine sull’intenzionalità da parte del soggetto che lo avesse determinato. Per il risarcimento, che fungeva da sostitutivo penale, bastava provare il nesso causale tra azione e danno: esso svolgeva dunque una funzione pubblica e sociale. Era un guardare le cose dal punto di vista del danneggiato, anziché del danneggiante; e se il presupposto era l’accantonamento delle ‘sofisticherie’ sul libero arbitrio, secondo il magistero ferriano ulteriormente coltivato in quegli anni da Venezian (Cazzetta, 1991, p. 280), la conseguenza era l’azzeramento del ruolo del giudice nel valutare i profili soggettivi.
I curatori della raccolta delle opere, pubblicata postuma, accreditano un periodo di perfezionamento a Roma dopo la laurea, di cui non c’è traccia nei verbali dalla facoltà giuridica. Furono comunque anni intensi. È del 1885 il saggio, edito anonimo, Le speranze d’Italia (in G. Venezian, Opere giuridiche, III, Roma 1925, pp. 375-397), imperniato sull’idea che la nazione, comprensiva delle popolazioni trentine e giuliane, doveva ancora completarsi come Stato; inoltre, con una informata analisi economica e politico-militare, Venezian sosteneva che occorresse impedire all’Austria il dominio dell’Adriatico e quindi del Mediterraneo, per alimentare i deboli conati di espansione coloniale italiana in Africa. Nel gennaio del 1886 intraprese la carriera accademica quale incaricato di diritto civile e romano a Camerino, ove rimase fino alla fine del 1887, allorché passò a Macerata (dal 1887-88 al 1894-95: ebbe come allievo Errico Presutti). Nel 1886 aderì alla massoneria nella quale, secondo la sua tarda testimonianza (v. l’Idea nazionale dell’11 settembre 1913), cercò un appoggio per realizzare l’ideale dell’unificazione delle terre giuliane al regno d’Italia, che sembrava ormai lontano dagli interessi dei partiti e precluso dalle recenti alleanze internazionali, ma se ne distaccò verso il 1893 (Martina - Capizzano, 1992, pp. 41, 50), divenendone anzi avversario. Con la stessa finalità Venezian si impegnò per la fondazione della società Dante Alighieri che, oltre a un’attività di promozione della cultura italiana, avrebbe dovuto coagulare le istanze nazionaliste nel disegno di accorpare all’ordinamento italiano tutti i territori al di qua delle Alpi. L’iniziativa partì a Bologna proprio da Venezian nel corso del 1888, si sviluppò con la lettera indirizzata a Giosue Carducci il 21 novembre di quell’anno e si spostò poi nella capitale, crocevia del mondo della politica, della massoneria e delle istituzioni. Protagonista anche nella stesura dello Statuto (1889), in seguito il giurista mantenne però un ruolo defilato (si era deciso che gli esponenti marcatamente irredentisti non dovessero occupare cariche) per accreditare la finalità ufficiale – la tutela della cultura e della lingua italiana in Italia e all’estero – e allargare il consenso attorno all’associazione.
Accademicamente, gli esordi di Venezian furono caratterizzati da una certa stanzialità (solo due sedi nel primo decennio di insegnamento), nonostante avesse conseguito la libera docenza presso l’università romana (1887), ove la commissione deputata e il Consiglio di facoltà deliberarono seduta stante, segno che egli era ben noto ai professori della Sapienza (De Rigo, 2002, pp. 394-396, che riporta anche la relazione di merito stesa da Francesco Filomusi Guelfi, non priva di qualche critica e di diversi errori materiali). In realtà partecipò a parecchi concorsi per una cattedra civilistica, ma dopo lo slancio iniziale le pubblicazioni si fecero rade di contro all’agguerrita concorrenza. In tre occasioni (Messina 1888, Genova e Napoli 1889) si ritirò, in altre – Macerata e Messina 1886, Siena e ancora Macerata 1891 e Messina 1893 – fu classificato come eleggibile, senza però essere collocato ai primi posti in graduatoria.
A Camerino intanto Venezian strinse rapporti con l’influente possidente, deputato, avvocato e professore Giovanni Zucconi, a cui certamente dovette lo stimolo a occuparsi della proprietà collettiva e degli usi civici. La prolusione con cui inaugurò nel 1887 l’anno camerte, Reliquie della proprietà collettiva in Italia (in G. Venezian, Opere giuridiche, II, Roma 1920, pp. 1-32), ebbe un favorevole riscontro da parte di alcune commissioni concorsuali, che pure ne rilevarono la sommarietà e lo scarso approfondimento (non poteva del resto essere altrimenti, dato il tema vastissimo e l’occasione per cui il testo a stampa, pur ampliato rispetto alla versione orale, fu predisposto). Essa confermava comunque l’originalità del pensiero del giurista, che rifiutava la monolitica dimensione individuale della proprietà, criticava la rigida griglia romanistica dei diritti reali e, interessato alla sostanza economico-sociale, collegava la funzione della proprietà ai bisogni della collettività: tali bisogni si traducevano in un fascio di diritti e di doveri consuetudinariamente innervati nella vita della comunità (Grossi, 1977, p. 383). Le Reliquie costituiscono anche l’addio accademico a Camerino, che rimase però territorio d’elezione per Venezian. Il 24 ottobre 1889 il giurista sposò la giovanissima contessa Emma De Sanctis, che era nipote di Zucconi, e la casa di campagna della moglie gli offrì spesso un rifugio di riposo e di riflessione. In precedenza – e pare anche per togliere ogni ostacolo al matrimonio – Venezian si era convertito al cattolicesimo, dopo un breve ritiro di meditazione a Perugia (secondo una testimonianza diretta, sembra che muovesse da posizioni agnostiche e non dalla religione ebraica: Polacco, 1916, p. 11). Dal matrimonio sarebbero nati cinque figli, uno dei quali, Giusto, morì piccolo; tra i superstiti – Sergio, Maria, Silvia, Lisa – quest’ultima andò sposa a un allievo del padre, Giuseppe Osti, che da studente ne raccolse anche le lezioni bolognesi e che più tardi ascese alla cattedra civilista già del suocero.
Venezian affrontò intanto un altro tema – La causa nei contratti (Macerata 1890; ma vi fu una versione con finalità concorsuale già nel 1889, oggi irreperibile) – ove confermò lo spirito controcorrente; di nuovo, lasciò però l’impressione di un lavoro incompiuto anche nella ulteriore edizione ampliata (Roma 1892). Di contro alle teorie sulla efficacia obbligatoria dell’accordo, Venezian faceva proprie le suggestioni della cultura positivista sulla formazione della volontà, metteva al centro la funzione sociale del contratto e utilizzava la nozione di consideration dell’esperienza anglosassone: i motivi delle parti venivano a obiettivizzarsi e in quanto tali l’ordinamento li riconosceva, in un nesso inscindibile tra motivi e causa. L’accoglienza fu buona, ma persino un estimatore come Filomusi Guelfi, presente in tutte le commissioni che ebbero a giudicarlo, rilevò che il testo mancava di approfondimento giuridico.
Seguì un’opera in due volumi che impegnò Venezian a lungo: Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione (I, Napoli 1895, e II, Napoli-Torino 1912). I contemporanei la salutarono come «il lavoro massimo del Venezian» (Dusi, 1922, p. 11; giudizio unanime e condiviso dalle due commissioni concorsuali che la valutarono), mentre secondo un autorevole e recente avviso, pur manifestando sicure capacità di costruzione giuridica, essa non contiene «quel seme proiettato verso il futuro» che si coglie in altri lavori cosiddetti minori (Grossi, 2013, p. 2030). In effetti l’architettura robusta e senza concessioni al lettore – i due volumi furono pubblicati in seno a un prestigioso trattato curato da Pasquale Fiore e non contenevano alcuna esposizione di metodo o avvertenza introduttiva – dà l’impressione di una sistemazione simile a tante altre allora circolanti sui vari istituti; e tuttavia almeno il primo volume, basilare per la trattazione, esprime appieno la capacità di ripensare dinamicamente la materia, con risultati di certo originali. Rilevata, quanto alla funzione economico-sociale, la distinzione tra beni produttivi di una utilità semplice e beni di utilità ripetuta, Venezian disegnava una figura generale di usufrutto da ricondurre alla categoria amplissima della proprietà, ovviamente come forma di dominio limitato. Un tale approdo travalicava le consuete distinzioni tra usufrutto e quasi usufrutto e tra diritti reali e personali e si valeva di uno scelto ricorso alla storia e alla comparazione. Fu il libro della sua consacrazione, grazie al quale vinse i concorsi di Messina (1895) e di Bologna (1899).
Complessivamente, nella crisi attraversata dalla scienza civilistica sul finire del secolo, Venezian ebbe una posizione di spicco: andò alla ricerca di fondazioni nuove (da qui l’incompiutezza di diversi suoi lavori, quasi fossero sperimentazioni) e seppe proporre soluzioni inedite che si comprendono solo come tentativo di una ricollocazione della sfera civile entro l’ordinamento complessivo. La sua non fu semplicemente una visione critica del paradigma liberal-individualistico: alieno dalle declamazioni provò in sostanza a dare effettivo ingresso al ‘sociale’ nell’ambito di un modello da rivedere nelle sue basi (v. ulteriormente la sua teoria dell’aspettativa).
Da ordinario insegnò a Messina fino al 1899. Venuta meno l’eccessiva presenza localistica dei primi decenni postunitari, l’università siciliana era allora un importante punto di incontro di energie intellettuali. Collega di Gino Segrè e di Alfredo Ascoli, Venezian allargò le sue relazioni (profonda l’amicizia con Giovanni Pascoli) ed ebbe diversi allievi di valore (su tutti Francesco Ferrara senior). L’ultima tappa della carriera, dall’anno accademico 1899-1900, si svolse a Bologna, dopo aver prevalso su un nutrito gruppo di concorrenti. Oltre che per la tradizione, l’Alma mater attirava per la qualità dei suoi professori, ora che veniva sostituita la generazione dei giuristi risorgimentali. Nella sua città di adozione il giurista unì al magistero universitario (tra i suoi allievi si distinsero Enrico Finzi e il menzionato Osti, ma lo riconobbe come maestro anche Giuseppe Messina) l’attività da avvocato e l’impegno politico, che si espresse nel Gruppo nazionalista bolognese (di cui fu vicepresidente) e nel Consiglio comunale (nelle elezioni amministrative del giugno del 1914 fu eletto nella lista clerico-moderata, all’opposizione rispetto alla vincente lista socialista). L’impressione è quella di un attenuarsi del lavoro di ricerca, come indica il lungo periodo (oltre una dozzina di anni) intercorso per completare il secondo volume sull’usufrutto, in parte già consegnato ai commissari concorsuali nel 1899; non venne comunque meno l’originalità delle riflessioni, al solito non disgiunte dal suo operare nella vita civile. Così se nel 1911 fu «anima a Bologna della propaganda nazionalistica per la guerra di Tripoli» (Cianferotti, 1984, p. 55), pubblicò poi due saggi dedicati a Proprietà fondiaria in Libia (1912) e Il tapu nel diritto ottomano (1913). Convinto della missione di civiltà della nazione italiana, il giurista si preoccupava di divulgare le informazioni essenziali, storiche e di diritto vigente, sul regime agrario, senza risparmiare critiche al recente decreto del 26 gennaio 1913, per l’ignoranza della situazione che inficiava l’obiettivo di accertamento dei diritti fondiari (in Opere giuridiche, cit., III, p. 344).
Nel nuovo clima nazionalistico degli anni Dieci riprese la lotta attiva per il ‘completamento’ del Risorgimento. Già in un discorso tenuto a Messina nel 1898 aveva sottolineato che i compiti della Dante Alighieri non erano solo culturali giacché, nel propugnare ideali e interessi della nazione italiana, essa era «una società essenzialmente politica» (ibid., p. 404). A maggior ragione ripropose la necessità del cambio delle alleanze alla vigilia della prima guerra mondiale. Nelle manifestazioni dell’inverno-primavera del 1915 infiammò i giovani (suo l’articolo Alla svolta della storia, pubblicato il 6 febbraio 1915 in una rivista studentesca interventista: ibid., pp. 419 s.) e prese parte all’organizzazione di un battaglione, insistendo per essere accolto quale volontario in guerra nonostante l’età ormai avanzata. Non pago dei compiti di giudice per episodi di disobbedienza o indisciplina militare, chiese e ottenne di essere impiegato come ufficiale in trincea. Promosso maggiore, già ferito il 16 novembre 1915, cadde colpito a morte pochi giorni dopo, il 20, a Castelnuovo del Carso durante una ricognizione condotta in prima fila. Fu decorato con la medaglia d’oro al valor militare.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Archivio generale, Università e istituti superiori, I serie, 1882-1890, bb. 434, 770, 921, 930 (f. e sottof. ad nomen negli inventari); ibid., III serie, 1896-1910, b. 249; Roma, Società Dante Alighieri, Archivio storico, f. 1889; Gazzetta ufficiale, 6 novembre 1893, 28 dicembre 1895; V. Polacco, G. V., in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1916, vol. 14, parte 1, pp. 1-17; L. Barassi, Danno e risarcimento fuori dei contratti, ibid., 1918, vol. 16, parte 1, pp. 560-575; G. Brini, Commemorazione di G. V., Bologna 1919 (in estratto); B. Dusi, L’opera scientifica di G. V. e di Gian Pietro Chironi, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1922, vol. 20, parte 1, pp. 1-22; S. Barzilai, Luci ed ombre del passato. Memorie di vita politica, Milano 1937, pp. 8-16; P. Grossi, ‘Un altro modo di possedere’. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano 1977, pp. 214-216, 257-271, 382 s., 388-390; G. Cianferotti, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli, Milano 1984, pp. 55-59; G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico (1865-1914), Milano 1991, pp. 265-300; G. Martina S.J. - E. Capizzano, G. V., Camerino 1992; M.C. De Rigo, I processi verbali della Facoltà giuridica romana 1870-1900, Roma 2002, pp. 394-396; M. Brutti, Vittorio Scialoja, Emilio Betti. Due visioni del diritto civile, Torino 2013, pp. 76-79; P. Grossi, V., G., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 2029-2032. Si omettono gli scritti celebrativi dell’eroe morto sul Carso, abbondantissimi tra la guerra e il fascismo (sono comunque citati nei testi indicati).