SUARDO, Giacomo
SUARDO, Giacomo. – Nacque a Bergamo il 25 agosto 1883, figlio unico del conte Luigi e della nobile Giulia Scotti, ricchi proprietari di immobili e terreni.
Compì gli studi classici a Bergamo e quelli universitari tra Torino e Genova, laureandosi in giurisprudenza e aprendo successivamente nella sua città natale lo studio di avvocato. Nell’agosto del 1911 sposò la nobile Teresa Bottaini. Socialista riformista e massone, nel 1915 fu volontario sul fronte francese dell’Argonne con la legione garibaldina di Peppino Garibaldi. Con l’ingresso dell’Italia in guerra partì volontario come tenente di artiglieria, guadagnandosi due medaglie di bronzo al valor militare. S’iscrisse al fascio di Bergamo il 1° maggio 1921, e il 24 luglio 1922 ne divenne il segretario federale, carica che lasciò nel maggio del 1924 dopo essere stato eletto alla Camera dei deputati, nel collegio nazionale unico della Lombardia. Era tra i fedelissimi di Benito Mussolini, il quale, il 3 luglio 1924, nel pieno della ‘crisi Matteotti’, lo chiamò a ricoprire la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Entrò così a far parte del Gran Consiglio di cui fu membro fino al marzo del 1928. Durante le fasi politiche convulse che precedettero il discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini gli affidò la missione di convincere Vittorio Emanuele III a «firmare un decreto di scioglimento della Camera con la data in bianco». Suardo portò con sé due differenti testi di decreto: il primo prevedeva lo scioglimento della Camera e la convocazione di nuove elezioni, mentre il secondo era più radicale, poiché, con un solo articolo, dichiarava conclusa «l’attuale sessione legislativa del Senato del Regno e della Camera dei deputati» (Roma, Archivio centrale dello Stato, ACS, SPD, CR, b. 66, f. Suardo Giacomo), senza impegno alcuno riguardo a successive elezioni. Si sarebbe trattato in sostanza di un vero colpo di Stato. Suardo alla fine riuscì a convincere solo in parte Vittorio Emanuele III, che accettò di firmare – non sappiamo quale dei due testi – a condizione che Mussolini glielo chiedesse personalmente. Non se ne fece più nulla, anche perché Mussolini non insistette con la richiesta.
Nelle lettere al capo del fascismo la fedeltà di Suardo si presentava talvolta in forme così servili da risultare imbarazzanti. Alla fine del 1925 gli scrisse: «DirLe che Le voglio bene è poco, dirLe che sarò sempre una cosa sua è poco; ma è tutto» (ACS, SPD, CR, b. 66). Tali manifestazioni di fedeltà erano molto apprezzate da Mussolini, che il 2 luglio 1926 lo nominò anche sottosegretario alle Corporazioni; una carica che tuttavia ricoprì per pochi mesi, fino al 5 novembre 1926. La nomina avvenne in occasione della costituzione del nuovo ministero delle Corporazioni, nel corso della quale v’era stato un braccio di ferro tra il movimento sindacale fascista, che intendeva collocare al sottosegretariato del nuovo ministero il sindacalista Edmondo Rossoni, e la Confindustria che lo osteggiava. Mussolini andò incontro alle preoccupazioni degli industriali e decise appunto di nominare, come suo vice al nuovo ministero, Suardo, «uomo “neutro” e moderato, legatissimo a Mussolini» (De Felice, 1968, p. 276). Successivamente, le dimissioni di Luigi Federzoni da ministro dell’Interno e la decisione di Mussolini di prendere il dicastero nelle sue mani, indussero il capo del fascismo, già onusto di cariche, a portare con sé al sottosegretariato all’Interno l’alacre e fedelissimo Suardo, che perciò lasciò a Giuseppe Bottai la carica governativa alle Corporazioni. Il 6 novembre venne quindi nominato sottosegretario all’Interno, carica che ricoprì fino al 12 marzo 1928.
Tra la fine del 1927 e i primi mesi del 1928, visse un periodo di eclisse politica. Per motivi non del tutto chiari, forse anche per i forti contrasti con Francesco Giunta, Mussolini gli impose le dimissioni prima dal sottosegretariato alla presidenza del Consiglio e subito dopo da quello dell’Interno, ordinandogli nel contempo di motivarle ufficialmente, per mezzo di una lettera da consegnare alla stampa, con ragioni di salute e con la conseguente necessità di un lungo periodo di riposo. Suardo come sempre obbedì prontamente. In questo periodo si ritirò a Bergamo, nella sua roccaforte, e per contentino Mussolini lo nominò commissario governativo per la costruzione e la gestione dell’autostrada Torino-Trieste. Il suo periodo di quarantena durò un anno. Il 21 gennaio 1929 entrò a far parte del Gran Consiglio come membro di diritto a tempo illimitato: è il primo segnale di un suo imminente recupero politico. Il 24 gennaio 1929 venne infatti nominato senatore e poi il 1° marzo console generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Entrò quindi al Senato con la grande ‘infornata’ del 1928-29, quando il governo fascista, con l’obiettivo di ‘fascistizzare’ definitivamente la Camera alta, nominò ben 138 nuovi senatori. Il 7 giugno 1929 fece domanda di iscrizione all’Unione nazionale fascista del Senato (UNFS). In realtà si trattava della vecchia UNS, che aveva cambiato da pochi giorni il suo nome ed era diventata fascista, prendendo – come scriveva il suo presidente – «una denominazione più esplicita e più consona alla sua essenza» (Gentile, 2002, p. 34).
L’UNS era nata ufficialmente alcuni anni prima come gruppo di pressione costituito da senatori con l’obiettivo di operare dall’interno del Senato per favorire l’attività politica e legislativa del governo nazionale. A partire dal 1925, con le nomine a senatori di uomini politici tesserati al Partito nazionale fascista (PNF), l’Unione era stata oggetto di una progressiva infiltrazione da parte del regime fascista. La nuova denominazione, UNFS, del 1929 segnava appunto il momento della sua avvenuta fascistizzazione.
Dal 1932 al 1939 Suardo ricoprì anche la carica di presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INFAIL).
Partecipò con il grado di maggiore di artiglieria alla guerra contro l’Etiopia.
Dal 28 giugno 1938 fu vicepresidente del Senato e poi, dal 15 marzo 1939 fino alla caduta di Mussolini, presidente. Grazie a questa carica rientrò a far parte del Gran Consiglio, dal quale era uscito con la nomina a senatore. La sua azione alla presidenza risultò decisiva nell’allineamento allo Stato totalitario fascista del Senato, ridotto presto a essere un docile strumento del regime. Scrive Emilio Gentile (2002) che la sua presidenza «portò, anche esteriormente, ad una immediata accentuazione del carattere fascista della Camera vitalizia» (p. 12) e Luigi Einaudi (1956) ricorda, alludendo a Suardo, che «fu costui il quale, essendo annunciato l’arrivo del duce nell’aula, osò scendere dall’alto seggio e dare nel grido dell’Eja, eja, alalà, viva il duce, A noi! ed altrettali sconce vociferazioni» (p. 205).
Il 15 settembre 1940 e il 25 febbraio 1941 morirono – rispettivamente – la madre e la moglie: «In meno di cinque mesi sono rimasto solo», scrisse a Mussolini nel marzo del 1941; confidandogli l’angoscia che lo stava soffocando, gli ricordò di essere stato un buon soldato e chiese infine di essere inviato sul fronte albanese o in Africa orientale. Mussolini ignorò la richiesta e Suardo la rinnovò poco dopo, ma con lo stesso risultato. Mussolini gli rispose di ritenerlo più utile alla presidenza del Senato.
Il 25 luglio 1943 votò a favore dell’ordine del giorno Grandi, ma subito dopo ci ripensò e dichiarò di volersi astenere. Qualche ora prima della riunione, Dino Grandi era andato a trovarlo con l’obiettivo di acquisirlo alla sua causa. Suardo sulle prime aveva esitato, ma poi era sembrato convincersi e con le lacrime agli occhi lo aveva abbracciato, da una parte assicurando la sua adesione e dall’altra rammaricandosi di vedersi «costretto a un’azione così apertamente diretta contro Mussolini» (Grandi, 1983, p. 245). Molti anni dopo Grandi raccontò che, dopo aver votato a favore del suo ordine del giorno, Suardo si era alzato per dichiarare, «con le lacrime agli occhi, di ritirare la sua adesione all’ordine del giorno Grandi, che ha dato soltanto perché ha ritenuto che il duce e il segretario del partito l’avrebbero accettato» (p. 265). Molto più cruda la descrizione di Bottai (1989), il quale rappresenta un Suardo «singhiozzante e tremante», che «dichiara di ritirare la sua firma, e fa voti che ci s’accordi sull’o.d.g. Scorza» (p. 419). In seguito Suardo rivelò, in una lettera inviata a Mussolini durante la Repubblica sociale italiana (RSI), che, dopo avere incontrato Grandi, s’era precipitato a palazzo Venezia riferendo a Mussolini di quello che egli definiva un complotto, e che il capo del fascismo aveva minimizzato la notizia esortandolo a non essere «catastrofico» (ACS, SPD, CR, RSI, b.1, f. Suardo Giacomo). Con la nascita della RSI Suardo fece pervenire la sua lettera di dimissioni da senatore, spiegandole con l’impossibilità da parte sua «di tenere fede al prestato giuramento dopo l’ignominioso tradimento dell’alleanza con la Nazione Germanica» (ibid.). Il giorno prima aveva scritto a Mussolini una lettera con cui lo consigliava, in modo molto confuso, di prendere decisioni che in realtà andavano nella direzione opposta a quella che di lì a poco avrebbe imboccato il capo del fascismo. Intanto lo consigliava di non ricostituire il partito fascista («niente burocrazia di partito: sarebbe dannosissima»), che avrebbe a suo avviso attirato inevitabilmente i soliti opportunisti, ma di affidare le sorti del Paese a una milizia riformata, diretta non più da militari di professione, ma da convinti uomini di fede fascista. Considerava il fascismo, così come aveva dominato per venti anni, superato, e sconsigliava Mussolini soprattutto di dar vita a una repubblica, ma, al contrario, riteneva sommamente opportuno, essendo dell’avviso che la monarchia avesse ancora radici profonde nel Paese, che Mussolini tornasse alla ribalta politica rivolgendosi a tutti gli italiani e sostenendo «la dottrina della concordia, del sacrificio delle battaglie comuni». La lettera venne accolta con un commento lapidario da Mussolini che scarabocchiava a margine «un contenuto in gran parte superato» (ibid.). In effetti otto giorni dopo Mussolini proclamò la Repubblica sociale e un paio di mesi dopo costituì il Partito fascista repubblicano (PFR). Contraddicendosi riguardo a quanto aveva sostenuto solo una decina di giorni prima, Suardo si affrettava ad aderire alla RSI, dichiarando sbrigativamente che erano ormai superati «i dubbi e le esitazioni che mi assillavano» e offrendosi «di combattere la nuova santa battaglia». Tuttavia, la tessera di quel Partito fascista repubblicano, la cui costituzione aveva ritenuto in precedenza dannosa agli interessi e alle prospettive del fascismo, gli venne sempre negata. Anche se, il 19 ottobre, riuscì a farsi ricevere da Mussolini, le porte del PFR rimasero per lui sbarrate. La già citata lettera del 20 settembre indirizzata a Mussolini, il cui contenuto venne fatto circolare tra le gerarchie ‘repubblichine’, gli precluse, malgrado le missive accorate che continuò a far pervenire al duce, ogni possibile recupero politico in seno al PFR. Cercò anche di accreditarsi presso Mussolini come il fedele consigliere che ha il coraggio di dirgli la verità, come il portavoce dei vecchi fascisti «delle ore prime», i quali vogliono «veder puniti i traditori Vostri» (ibid.), ma senza esagerare, poiché sarebbero bastati pochi esempi. Ma, anche se si presentò a lui implorando senza ritegno – «Il mio cuore ha bisogno di Voi» (ibid.) – Mussolini non si sarebbe più fidato di lui e i suoi appelli sarebbero caduti sempre nel vuoto.
Dopo la liberazione di Roma venne deferito, il 7 agosto 1944, all’Alta Corte di giustizia per i reati fascisti e, il 21 ottobre 1944, dichiarato decaduto dalla carica di senatore. Con la fine della guerra venne avviato dalla Sezione speciale della Corte di assise di Roma un procedimento penale nei suoi confronti, con l’accusa di aver contribuito a mantenere «con atti rilevanti il regime fascista» (ACS, SIS, Sez. II, Reati politici, 1944-1949, b. 169), ma le sue condizioni di salute erano così gravi che venne ricoverato all’ospedale Maggiore di Bergamo, dove fu piantonato in attesa del trasporto a Roma. L’amnistia gli restituì la libertà.
Morì a Bergamo il 19 maggio 1947.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, SPD, CR, b. 66; CR, RSI, b. 1; CPC 1944-1967, b. 7; SIS, Sez. II, Reati politici, 1944-1949, b.169; Carte G. S., b. 1; Archivio storico Senato della Repubblica, Fondo Giacomo Suardo.
L. Einaudi, Ricordi e divagazioni sul Senato vitalizio, in Nuova Antologia, febbraio 1956, p. 205; R. De Felice, Mussolini il fascista, II, Torino, 1968, ad ind.; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari 1974, pp. 425 s.; D. Grandi, 24 luglio. Quarant’anni dopo, Bologna 1983, pp. 245, 265; M. Missori, Gerarchie e statuti del PNF, Roma 1986, pp. 278 s.; G. Bottai, Diario 1935-1944, Milano 1989, p. 419; A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1995, p. 160 nota 2; E. Gentile, Il totalitarismo alla conquista della Camera Alta, Catanzaro 2002, pp. 13, 34.