QUERINI, Giacomo
QUERINI, Giacomo. – Terzogenito – lo precedettero nella nascita Michiel (1615-1673) e Vincenzo (1618-1668) e lo seguì Giovanni (1625-1678) – di Francesco Querini (1585-1660) di Michiel e di Paolina di Giacomo Minotto, nacque a Venezia il 4 novembre 1619. Da non confondere con gli omonimi, anche in fatto di padre, Giacomo Querini (1607-1658) di Francesco di Vincenzo e di Elena di Ludovico Contarini, e Giacomo Querini (1635-1683) di Francesco di Giacomo e di Maria di Paolo Dandolo.
Nel 1643-44 era al seguito di Alvise Contarini a Münster, donde – come precisò lo stesso Contarini nella relazione del 26 settembre 1650 – passò in Francia e Spagna «per rendersi più capace con la cognitione degl’interessi di quelle due gran monarchie di meglio servire la patria». Al rientro, nel 1645 fu savio agli Ordini e nel 1647 governatore di galea. Eletto, il 29 aprile 1651, savio di Terraferma e, il 20 giugno, ambasciatore in Spagna, avuta la commissione il 17 febbraio 1652, partì a fine mese arrivando – dopo quattro mesi di «faticoso» e difficoltoso viaggio – a metà giugno a Madrid. Costretto a letto dalla gotta che lo tormentò per l’intera sua esistenza, solo il 12 agosto poté salire a cavallo per portarsi, scortato da gentiluomini, alla reggia e presentarvi le credenziali.
Rappresentante della Serenissima presso una monarchia senza «denaro», con cronica scarsità di «contante», «debole e mal armata», era suo compito auspicare la pace tra le Corone di Francia e Spagna sì che entrambe potessero soccorrere Venezia che stava fronteggiando «il più fiero et acanito nemico della christianità» sempre più necessitando di «continuate vigorose assistenze». Pel momento quel che Querini riuscì a ottenere dal segretario di Stato Pedro Colonna fu il contributo annuo di 150.000 reali, faticando poi per il suo effettivo inoltro. Comprensivo, almeno a parole, con le difficoltà di Venezia Luis Méndez de Haro, il primo ministro che «gode intieramente» della «grazia regia». Ma non sfuggì a Querini che, nel frattempo, lo zio di questi, il conte di Castrillo Garcia de Haro y Avellaneda – «ministro vecchio», già «nutrito e documentato dal fu conte duca», ossia Caspar de Guzman de Olivares (Querini non ignora che quest’ultimo, nel 1642, è stato scalzato da Castrillo, ma ritiene costui prosecutore della pratica, a quello risalente, che mira, sia pure occultamente, alla riconciliazione ispano-ottomana) – stava tramando il contrario. Perciò, anche se ufficialmente la Corona era attestata sulla condivisone della lotta antiturca di Venezia, Querini sospettava che Castrillo si stesse adoperando addirittura per il perseguimento dell’«amicitia con la casa ottomana».
Ancorché autorizzato al rimpatrio già il 10 luglio 1655, la partenza fu rinviata a metà aprile del 1656, ad avvenuto insediamento del successore Domenico Zane. Di nuovo a Venezia, il 16 gennaio 1659 fu eletto savio alle Acque, il 24 luglio fu, per la seconda volta, destinato alla corte madrilena quale ambasciatore straordinario. Non appena avuta la commissione del 27 agosto, Querini, all’inizio di settembre, si mise in viaggio. Ben 58 giorni travagliati da «straordinaria rigidezza della staggione», si lamentò una volta arrivato. «Piena di giubilo e contento», riscontrò la corte per la pace, del 7 novembre, dei Pirenei. E Querini se ne felicitò con re e ministri, nel contempo insistendo a che gli esborsi spagnoli per la guerra con il turco di Venezia si facessero più consistenti e, in ogni caso, fossero almeno solleciti e tempestivi. E, nell’insistere, non mancò di prospettare a Filippo IV e, più ancora, a de Haro l’opportunità di un intervento attivo, degno della «real grandezza» del re Cattolico analogo al «considerabile aiuto» francese. L’armata cristiana – sottolineò Querini – conta «al presente nelle forze del pontefice», del re Cristianissimo, di Malta, di Firenze tutte validamente a fianco di quelle veneziane. Un peccato, ripete sospirando, «non poter nominare quelle di Spagna», i cui «regni», fa presente, di Napoli e di Sicilia, nella malaugurata ipotesi del «naufraggio» di Candia, sarebbero i «primi esposti alla fierezza dell’ottomana tirannide». Ma puntualmente senza presa, senza riscontro siffatte pressioni di Querini. Sicché, ogni volta scoraggiato dalla mancanza d’un cenno di risposta positivo, ripiegò nel rammentare «le promesse» di «soccorsi» pecuniari, nel sollecitare i relativi versamenti. Comunque – questo l’avvertimento bisbigliato, il 22 dicembre 1660, in tutta «confidenza», a mo’ di «secreto» svelato sul quale mantenere il «silentio», da de Haro all’inviato marciano – la Serenissima dovrebbe far più conto sul contributo, sia pure parsimonioso, in denaro spagnolo che sul sostegno armato pontificio. Forse che Alessandro VII non aveva richiamate le proprie galere quando le «militie» erano sul «punto di sbarcar […] alla Suda»? Impensabile, si sdegna il primo ministro, «attione più indegna». Epperò spiegabile con il fatto che, in realtà, il papa dei «mali successi» di Venezia si rallegra, sin apprende con «contento» le sue «disgratie», quasi «ne ricevesse sicurezza». Tant’è che «poco pensiero danno al Santo Padre» gli stessi «acquisti e le vittorie» turchi mentre ancor lui studiava d’acquistare per il fratello Mario Chigi e i nipoti, ossia Flavio di questi figlio e Agostino, figlio d’un altro fratello del papa, Augusto. Magari è una constatazione che circola anche a palazzo ducale, a bassa voce, più retropensiero da introiettare che convinzione da poter enunciare. A ogni buon conto cifrato – nel dispaccio, del 22 dicembre, di Querini – il passo relativo al colloquio con il primo ministro. E decifrato, l’11 febbraio 1661, il passo all’arrivo del dispaccio, ma subito segretato con la disposizione «non sia letto» in Senato.
Lasciata, il 14 maggio 1661, Madrid, con il decorante titolo di cavaliere, per Venezia, in questa Querini il 2 settembre presentò la propria relazione: quivi la diagnosi riscontrante nella monarchia ispanica l’avvitamento patologico della «decadenza» personale del sovrano – sempre più malandato fisicamente, senza «sanità» e senza maestà incutente «rispetto» nei «vassalli» – e di quella generale del Regno, accentuata dall’«infelice successo» della «sconfitta de’ castigliani» nella «battaglia di Portogallo». E di ciò la Francia «gode», sottolinea preoccupato: è evidente che in prospettiva lo strapotere di quella, sempre meno arginato dalla monarchia rivale, condizionerà sempre più la neutralità veneta. Non a caso, in una rassegna anonima, del 1675, delle principali personalità politiche veneziane, Querini fu giudicato «di genio più spagnuolo che francese».
Eletto, ancora il 13 settembre 1662, ambasciatore a Roma con la provisione mensile di 400 ducati e il donativo di 2000, Querini vi giunse il 16 novembre 1663 ricevuto, già il 21, in pubblica audienza, seguita di lì a un mese dal solenne pubblico ingresso. E, pochi giorni dopo, il 29 dicembre, si recò, «con numeroso corteggio di carrozze», al palazzo Riario alla Lungara, a omaggiarvi Cristina di Svezia – che, con il consenso del papa, a Roma continuava ad atteggiarsi a regina, disponendo d’una corte personale –, a sua volta «honorato nella forma istessa pratticata con gl’ambasciatori di teste coronate». Per 42 mesi, il grosso della sua prolungata residenza romana, Querini – che così lamentò nella relazione del 22 febbraio 1668 – fu costretto a valorizzare la Serenissima agli occhi di Alessandro VII, «papa solo di nome», privo della «vivacità di spirito», della prontezza di decisione, della «facilità d’espressione», già suoi tratti connotanti sinché porporato. Riluttante a occuparsi di affari di Stato, restio alla fatica del «negotio», incline a scaricare «il peso grave» su «parenti et inferiori ministri», il papa, aggrappato «al solo pensiero di vivere» indisturbato nel guscio protettivo della «quiete dell’animo». Sorta di «beneficio semplice» fruibile «ad commodum unius privatae domus», a mo’ di personale e familiare rendita di posizione per papa Chigi il ritrovarsi vicario di Cristo. Un «uso del pontificato», dunque, durante il quale Querini si adoperò a perorare la causa della difesa veneziana di Candia, ancor più a rischio dopo la pace stabilita tra turchi e imperiali. Sempre caldeggiante Querini la «speditione in Levante» della squadra pontificia affidata al comando del priore Giovanni Bichi, che il pontefice concede ma non senza farlo pesare ché, come confidò a Querini il cardinale Pietro Ottoboni, il futuro Alessandro VIII, ritiene i veneziani sin molesti con il loro «sacco» sempre aperto – e mai riempibile – a ricevere i soccorsi e mai disposti a ricambiare a loro volta con chi, come la S. Sede, è con loro generoso. Irritato papa Chigi dal pretendere aiuto a titolo gratuito, senza concessioni sul terreno giurisdizionale. E carico di rancore Alessandro VII nei confronti della Repubblica la quale – recriminò apertamente nell’udienza del 5 giugno 1666 con Querini – negli «accidenti passati con la Francia» non aveva mai osato «aprire la bocca per dire una parola al re Cristianissimo a suo favore».
Divennero sempre più rade le udienze papali a mano a mano che s’aggravavano le condizioni di salute del papa. «Invisibile» questi a causa dell’«assalto» del male e non per «omissione volontaria», ammise Querini, pressoché all’inizio del 1667. Una liberazione, il 22 maggio, la morte che – riconosce l’ambasciatore – pose fine ai «duri stenti del suo lungo martirio». E nello stesso giorno, annunciò Querini, venne spiegato lo «stendardo di Santa Chiesa» a favore della Serenissima. Dal porto di Civitavecchia uscirono cinque galee pontificie al comando di Bichi e di conserva tre napoletane, con l’appendice della tartana con il «biscotto et altre provigioni». Anche con quest’aiuto Venezia continua a resistere alla mezzaluna. E, intanto, a Roma fu aperto il 4 giugno il conclave donde sortì, il 20, il nuovo pontefice. Per Querini – i cui «spiriti» si «alternano» e il cui «animo» assai «si perturba» a ogni notizia da Candia e su Candia che, purtroppo, conferma «non esservi altro in quella piazza che ferro e fuoco» – il metro di misura è quello della solidarietà con Venezia. E, con questo criterio, implicitamente positivo il giudizio su Clemente IX quando, il 15 ottobre, annunciò che stava partendo, dono tempestivo del nuovo pontefice, un carico di «cento migliara di polvere […] metà fina da moschetto e l’altra grossa da cannone».
Rientrato a Venezia, Querini vi fu consigliere per il sestiere di Dorsoduro dal 25 novembre 1668 al 24 luglio 1669 e savio del Consiglio dal 29 marzo al 12 agosto 1670 essendo poi, il 16 novembre, eletto bailo a Costantinopoli. Imbarcato, il 24 agosto 1671, in una galea, toccando Lesina, Corfù, Zante, l’Argentiera, arrivò a destinazione in 87 giorni, di cui 30 quelli di effettiva navigazione e i «restanti consumati in vari porti dell’isole e nelle acque di Tenedo e de Dardanelli» a causa del tempo avverso. Di per sé un amarissimo dovere la rappresentanza della civilissima Venezia nella capitale dell’impero del male, tutto «perfidie» e «inganni», intreccio «torbido» di «contaminata religione» e di «depravati costumi» istituzionalizzato da «un governo mostruoso e tirannico». Ma sin rasserenante, per Querini, il bailaggio sperimentato avendo per interlocutore Köprülüzade Ahmed pascià, il gran visir «in Divano capo del consiglio». Con questi – così nel riferire, il 6 giugno 1676, a palazzo ducale Querini –, ancorché «turco infedele», instaurò un rapporto positivo, sulla base della fiducia reciproca, del mutuo «dar fede». Ciò era possibile poiché il visir sinceramente «brama» la pace veneto-ottomana sia «con tutti li mezzi convalidata e sicura». E ben per questo che il bailo – il quale riconosce ad Ahmed una statura auspicabile «da qual si sia ministro in cristianità» e, sottintende, purtroppo non da lui riscontrata né a Madrid né a Roma – ebbe modo di adoperarsi proficuamente per la liberazione degli schiavi, contro gli «oltraggi in Golfo» da parte di legni turcheschi, per le garanzie di sicurezza alla ripresa dei commerci dei mercanti veneti, per la riduzione dei dazi gravanti sul negozio in via di riattivazione dopo la pace ratificata nel maggio del 1670. Diplomatico che si era identificato nella causa del mantenimento della Corona del regno di Candia – imprescindibile per la Serenissima e, di riflesso, per la cristianità –, il Querini bailo constata che Venezia può sussistere anche senza l’isola puntando sulla rianimazione dei traffici con il Levante, sulla navigazione mercantile.
Arrivato, il 5 ottobre 1675, il successore Giovanni Morosini, il 22 Querini con una galea partì per Cerigo e Zante, donde, salito sulla nave Sole d’oro, proseguì il proprio viaggio. A Venezia all’inizio di dicembre, dal 22 dicembre 1675 al 24 maggio 1676 fu consigliere per il sestiere di Castello. Quindi, dal 2 agosto in Senato.
Il 12 gennaio 1677 morì «da gotta et febre e apoplesia», nella sua dimora a S. Maria dei Miracoli, senza aver potuto coronare, come aspirava, la propria carriera con la dignità di procuratore di S. Marco.
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