MATTEOTTI, Giacomo
MATTEOTTI, Giacomo. – Nacque a Fratta Polesine, presso Rovigo, il 22 maggio 1885, da Girolamo e da Elisabetta Garzarolo.
Il padre, originario di Comasine in Val di Pejo, a venti anni s’era stabilito a Fratta, dov’era riuscito a mettere insieme una discreta fortuna. Morì nel 1902 e a sostituirlo nell’attività commerciale fu la moglie Elisabetta, una donna energica che riuscì ad accrescere il già cospicuo patrimonio familiare.
Secondo di tre figli, il M., dopo aver conseguito la maturità a Rovigo, frequentò la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna, dove si laureò nel 1907 con una tesi sulla recidiva.
Influenzato da Matteo, il fratello maggiore, il M. s’iscrisse al Partito socialista italiano (PSI) intorno al 1900. I primi segni della sua presenza in seno a esso si ebbero dal 1904, quando ne La Lotta, il periodico socialista di Rovigo, venne indicato come l’elemento di riferimento del PSI per la zona di Fratta. Sino al 1908 le testimonianze di un suo impegno politico furono alcuni articoletti apparsi nelle colonne de La Lotta, nel cui comitato di redazione entrò nel maggio 1908. L’anno successivo s’impegnò attivamente nella campagna elettorale per le elezioni politiche a favore della candidatura di I. Bonomi.
Tra il 1909 e il 1910 i suoi due fratelli, Matteo e Silvio, morirono per tisi. La tragedia familiare gli provocò un’acuta crisi, che lo indusse a ritirare la sua candidatura alle elezioni provinciali suppletive del luglio 1910. Seguì un lungo viaggio di studio in Inghilterra, da dove il M. rese nota ai compagni di partito la sua rinuncia a occupare la carica di consigliere provinciale per il mandamento di Occhiobello, dov’era riuscito eletto malgrado non avesse condotto la campagna elettorale. La crisi non dovette durare a lungo, poiché già nell’ultimo scorcio del 1910 fu tra i protagonisti della vita politica di Rovigo.
Avvalendosi della legge elettorale, che consentiva di presentare la candidatura in ogni Comune dove si possedevano terre, il M. ricoprì contemporaneamente la carica di sindaco di Villamarzana e di consigliere di diversi altri Comuni della zona.
Fu tra i più risoluti avversari della guerra libica, tanto che al congresso nazionale del PSI tenutosi a Reggio Emilia nel luglio 1912 prese le distanze dall’ala socialriformista turatiana, esitante nel condannare l’impresa libica, per unirsi ai massimalisti.
Alle elezioni provinciali del febbraio 1915 è legata una sua clamorosa gaffe, che comportò la sua decadenza dalla carica di consigliere provinciale. Si discutevano in Consiglio i ricorsi dei socialisti contro tre consiglieri del blocco cattolico-liberale, la cui elezione era ritenuta incompatibile con le cariche che costoro ricoprivano nella esazione dei tributi comunali nella provincia di Rovigo. L’arringa del M. era stata particolarmente severa. Senonché il consigliere cattolico U. Merlin rivelò come il M. si trovasse nella stessa condizione dei tre inquisiti, poiché risultava fideiussore della Banca del Polesine per il servizio di esazione dei tributi del Comune di Badia Polesine. La vicenda si concluse male per il M.: nell’agosto del 1916, quando ormai era stato chiamato alle armi, venne dichiarato decaduto dal Consiglio provinciale.
Al congresso socialista di Ancona del 1914 il M. si trovò per la prima volta ad affrontare B. Mussolini. Entrambi avevano presentato due distinte mozioni che sanzionavano l’incompatibilità della doppia iscrizione al PSI e alla massoneria. Ma mentre quella di Mussolini imponeva l’espulsione di chi non si fosse conformato alle deliberazioni congressuali, quella del M. si limitava ad auspicare il volontario abbandono della doppia iscrizione da parte dei socialisti massoni. Tale posizione, conciliante nei confronti dei compagni massoni, ha indotto alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi, tuttavia mai documentata, dell’appartenenza del M. alla massoneria. Occorre anzi ricordare al riguardo un suo articolo antimassonico, Per la conquista del Comune e della Provincia di Rovigo (in La Lotta, 20 giugno 1914), con cui si schierava contro il blocco composto da radicali, repubblicani e socialisti riformisti, «amalgamati – scriveva il M. – dal cemento della solidarietà fratellevole delle logge».
Il M. fu un coerente antimilitarista. Allo scoppio della guerra si schierò senza esitazioni contro le posizioni interventiste di Mussolini. La sua intransigenza lo condusse al conflitto con i leader della sua stessa frazione, C. Treves e F. Turati, prudentemente comprensivi sulle ragioni della guerra, e a scavalcare a sinistra anche le posizioni degli esponenti dell’ala più estremista del PSI. Mentre questi si battevano per lo sciopero generale contro l’eventualità di un ingresso in guerra dell’Italia, il M. sostenne con decisione l’ipotesi dell’insurrezione popolare.
La sua fedeltà alla linea antimilitarista gli attirò molte accuse di simpatie per l’Austria. Durante le sedute del Consiglio provinciale venne più volte tacciato di «austriacante», ma a chi lo invitava ironicamente ad andarsene in Austria, replicava sferzante che lì almeno non si moriva di pellagra. In un burrascoso intervento al Consiglio provinciale del 5 giugno 1916, arrivò a opporsi alla proposta di un’erogazione straordinaria per i profughi della provincia di Vicenza che, incalzati dalla Strafexpedition di F. Conrad von Hötzendorf, si erano riversati in quella limitrofa di Rovigo. L’incidente al Consiglio provinciale gli valse una denuncia e la condanna a un mese di carcere, annullata in Cassazione. In effetti un suo criptotriplicismo si coglie in alcuni passaggi di una lettera del settembre 1914 a Velia Titta, sorella del baritono Titta Ruffo, in cui considerava legittimo da parte del PSI il ricorso all’insurrezione «se si volesse domani con assai poca lealtà lanciarci in una guerra contro l’Austria» (Lettere a Velia, pp. 68 s.). Nel gennaio del 1916 sposò Velia (1890-1938), dalla quale ebbe tre figli: Giancarlo (1918-2006), che fu deputato dal 1946 al 1963, Gian Matteo (1921-2000), che fu deputato e più volte ministro della Repubblica, e Isabella (1922-1994). Le origini trentine del padre e alcuni legami familiari della moglie contribuivano ad alimentare le sue simpatie per l’Austria-Ungheria. Due sorelle della moglie, Fosca e Settima, avevano sposato due fratelli di nazionalità boema, Emerich e Guglielmo Steiner. In Italia viveva inoltre un terzo Steiner, Max, il quale, allo scoppio della guerra, era stato internato in Sardegna. Infine, gli Steiner avevano altri due fratelli, ufficiali dell’esercito austro-ungarico, che stavano combattendo sul fronte italiano. Quando fu richiamato alle armi, il M. venne assegnato a un reggimento di artiglieria di campagna di stanza a Verona, ma, ritenuto «un pervicace, violento agitatore, capace di nuocere in ogni occasione agli interessi nazionali» (Roma, Arch. centr. dello Stato, Casellario politico centrale, b. 3157, f. Matteotti Giacomo), fu internato a Campo Inglese, una sperduta località della Sicilia orientale.
Congedato nel marzo del 1919, il M. riprese il suo posto nelle file del movimento socialista. Nell’ottobre del 1919 intervenne al congresso di Bologna, rappresentando la corrente dei massimalisti elezionisti che si presentava divisa. Da una parte v’erano quelli che, suggestionati dalla rivoluzione bolscevica, teorizzavano l’uso della violenza come unico mezzo per impadronirsi del potere, dall’altra v’era chi, come C. Lazzari e F. Maffi, sosteneva, contro le suggestioni del modello sovietico, che qualunque progetto rivoluzionario dovesse tener conto delle tradizioni italiane e del suo proletariato. Il M., pur schierandosi con questi ultimi, ispirò tuttavia il suo intervento congressuale a un forte richiamo all’unità del PSI, in cui, a suo avviso, dovevano avere diritto di cittadinanza «tutti coloro che vogliono sostituire il regime socialista al regime capitalista» (Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, pp. 67 s.). Egli vedeva messa in pericolo tale unità dal dibattito dei teorici. Perciò, in polemica sia con i massimalisti serratiani, «che vogliono la insurrezione come fine e non come mezzo», sia con i turatiani, «che vogliono la riforma come fine non come mezzo» (ibid.), egli, molto pragmaticamente, rivendicava il primato delle organizzazioni sindacali di classe sulla sovrastruttura partitica, e quello della lotta contro le strutture economiche del potere borghese. Al partito, libero dal mito della conquista violenta del potere politico, affidava il ruolo d’indirizzare le lotte economiche «verso il fine del socialismo». Il M. considerava quindi le leghe e le organizzazioni sindacali gli elementi dinamici e primigeni su cui far leva per la costruzione della società socialista.
Le sue erano le posizioni di un riformismo coerente, ben distinte da quelle del socialriformismo turatiano ormai dimentico, a suo dire, degli obiettivi socialistici per i quali erano nate le organizzazioni della classe operaia. Una posizione, quella del M., che ha indotto qualcuno a coniare per lui il termine, solo apparentemente antidiadico, di riformista-rivoluzionario. Se si aggiunge al primato che il M. attribuiva alle lotte sindacali l’accento da lui costantemente posto sul volontarismo e sulla preminenza dell’azione nella lotta politica, è difficile negare l’ipotesi d’una sua originale rielaborazione di alcuni capisaldi del pensiero di G. Sorel e di H. Bergson, del resto già rilevati da P. Gobetti. Il rapporto del M. con Sorel non era tanto da cogliere su un terreno immediatamente politico, quanto piuttosto su un piano intellettuale «più generale e perciò anche più profondo, che dalla comune matrice antipositivistica e volontaristica passava ora attraverso la comune avversione alla guerra e alla “borghesia patriottica”» (Carini, p. 75). Una presenza ispiratrice, quella soreliana, che spiega sia la sua mai del tutto sopita diffidenza per il latente opportunismo presente nelle posizioni turatiane, sia la sua convergenza, espressa in più occasioni, con ben definiti settori del massimalismo socialista.
Il M. era considerato dal gruppo dirigente socialista uno dei più preparati tra i leader emergenti. Erano apprezzate le sue capacità di amministratore: perciò venne chiamato, sin dal gennaio del 1916, a far parte della segreteria della Lega dei Comuni socialisti. Nelle elezioni politiche del novembre 1919 fu eletto per la prima volta deputato, per il collegio di Rovigo e Ferrara, riportando il maggior numero di preferenze rispetto agli altri cinque candidati socialisti eletti con lui.
Il biennio rosso vide il M. impegnato a dirigere le lotte bracciantili e contadine per il rinnovo dei patti agrari e a fronteggiare, dall’inizio del 1921, il nascente squadrismo fascista padano particolarmente rozzo e violento. Presente alla prima giornata del congresso del PSI del 1921 a Livorno, dove si consumò la scissione che dette origine al Partito comunista d’Italia (PCd’I), egli tuttavia lasciò anzitempo l’assise livornese per raggiungere Ferrara, dove, a seguito dei sanguinosi fatti di Castello Estense, era stato arrestato il gruppo dirigente della federazione socialista.
Sulla incombente scissione il M. aveva già espresso la sua opinione con un articolo (La Lotta, 18 dic. 1920), in cui auspicava che le divisioni dei gruppi dirigenti del partito risparmiassero almeno le organizzazioni sindacali. Aveva poi ricordato ai congressisti, con un telegramma spedito da Ferrara, le loro responsabilità sui pericoli che sovrastavano l’unità dei lavoratori. Riaffiorava la sua antica diffidenza per le dispute dottrinarie, fonti di divisioni, mentre solo l’azione e le lotte economiche rappresentavano un terreno d’intesa e di ricomposizione unitaria delle classi lavoratrici.
Il M. non tardò a comprendere il pericolo che per le organizzazioni operaie rappresentava il nascente movimento fascista. Tuttavia tendeva a spiegare l’affermarsi del fascismo come reazione alle importanti conquiste ottenute attraverso le grandi lotte contadine del 1919 e del 1920. Il fascismo era quindi la risposta violenta della borghesia agraria ai propri interessi lesi dai nuovi patti agrari. Anche se si tratta di un’analisi riduttiva del fascismo, che risente del particolare punto di osservazione da cui veniva analizzato il fenomeno, cioè il Polesine, dove in effetti l’iniziativa del fascismo appariva funzionale agli interessi degli agrari, tuttavia v’era in essa implicita la convinzione del sostegno ai valori della democrazia, contro l’illegalismo fascista, di ampi settori della borghesia, soprattutto nei ceti medi urbani. Perciò una lotta coerentemente condotta dal proletariato, svincolato dallo slogan della dittatura del proletariato, in difesa delle istituzioni democratiche, avrebbe potuto rappresentare, a suo avviso, il collante di un’alleanza tra movimento socialista e settori non trascurabili dei ceti medi e della borghesia democratica.
La lotta al fascismo favorì la maturazione politica del Matteotti. Le sue frequenti e coraggiose denunce delle violenze squadristiche lo resero un dirigente popolare, consegnandolo nel contempo all’odio del radicalismo fascista. Il 12 marzo 1921 subì una gravissima violenza dai fascisti di Castelguglielmo. Il M. tuttavia, sebbene messo al bando dalle organizzazioni fasciste polesane, partecipò attivamente alla campagna per le elezioni politiche del maggio 1921, dove riuscì eletto nel collegio Padova-Rovigo.
Ma intanto la crisi del regime liberale andava precipitando. Al governo Bonomi, caduto nel febbraio del 1922, subentrava il debolissimo governo Facta, e ciò rese più baldanzoso lo squadrismo fascista. Dalle spedizioni punitive contro i militanti socialisti o le sedi di organizzazioni operaie, si passò all’occupazione dei capoluoghi di provincia, come nel caso di Ferrara e Rovigo, invase, nel maggio del 1922, dalle squadre di I. Balbo. L’offensiva fascista accelerò la crisi interna del PSI, che non s’era sopita nemmeno con l’uscita dei comunisti.
Al congresso di Milano dell’ottobre 1921 il PSI si presentò ancora diviso. A fronteggiarsi erano la componente concentrazionista di Turati e G. Baldesi e quella favorevole all’adesione alla III Internazionale. Il M., pur dichiarando che «avrebbe voluto rappresentare la tendenza che ponesse fine alle tendenze, ammettendo tutti quei metodi che fossero compatibili con la lotta di classe» (Il PSI nei suoi congressi, pp. 190-192), alla fine aderì alla frazione concentrazionista, non tanto per una conversione al riformismo turatiano quanto piuttosto per il suo rifiuto del comunismo e del modello rivoluzionario bolscevico. Il M. cercò invano di attirare l’attenzione del congresso sulle questioni strategiche che l’ascesa del fascismo poneva al movimento operaio. Tentò di convincere una distratta maggioranza che i temi all’ordine del giorno non erano certo né l’adesione alla III Internazionale né la conquista violenta del potere, ma piuttosto la battaglia contro l’offensiva fascista, e che il fascismo non era un fenomeno transitorio da combattere con l’attendismo di Turati, ma un’emergenza da affrontare in modo deciso e organizzato.
Al congresso di Roma dell’ottobre 1922 la corrente riformista abbandonò il PSI e dette vita al Partito socialista unitario (PSU). Il M. venne chiamato a ricoprire il ruolo di segretario.
Nella sua nuova carica condusse una lotta su due fronti: verso l’esterno contro il fascismo, e verso l’interno contro le tendenze collaborazioniste manifestate nei confronti del governo Mussolini da alcuni settori del PSU. Il M. le considerava due momenti di una stessa strategia: era infatti convinto che quanto più fosse riuscito a far risaltare il carattere reazionario e antioperaio del fascismo tanto più difficile sarebbe risultata la manovra dei collaborazionisti di aggancio al ministero Mussolini.
Il periodo che va dagli inizi del 1923 fino alla sua tragica morte è quello più drammatico della vita politica del Matteotti. Frenare le spinte di Baldesi, E. Colombino, L. D’Aragona per il compromesso ministeriale significò impegnarsi in una logorante iniziativa politica per far risaltare l’antitesi inconciliabile tra fascismo e forze democratiche, per far affiorare, da dietro la facciata rispettabile del fascismo moderato e mussoliniano, la vocazione reazionaria e totalitaria del fascismo della provincia, rozzo e intransigente, fin quasi a sollecitarne le manifestazioni più torbide e violente, consapevole di esporsi personalmente alle inevitabili rappresaglie. Scaturì proprio da tali esigenze l’idea di scrivere Un anno di dominazione fascista (Roma 1924), un opuscolo con cui il M. intendeva porre in risalto il carattere sostanzialmente antiproletario dei primi provvedimenti del governo fascista. La voglia di collaborazionismo non si limitava tuttavia alla componente di destra della Confederazione generale del lavoro (CGdL). Baldesi poteva contare su un tacito avallo dello stesso Turati, il quale più volte rimproverò al M. la sua «ostilità preconcetta» nei confronti del dirigente sindacale. Quando Baldesi, all’indomani della marcia su Roma, incontrò Mussolini e G. D’Annunzio, allo scopo di esplorare l’ipotesi di una riunificazione sindacale sotto gli auspici del capo del fascismo, Turati, in una intervista a Il Mondo, garantì la copertura politica all’iniziativa di Baldesi.
Il M. non poté far altro che indirizzare al vecchio leader una lettera molto dura di protesta. Egli non si faceva illusioni sulle false aperture operate da Mussolini nei confronti delle organizzazioni proletarie: il fascismo era il vero nemico della classe operaia e per combatterlo occorreva, a suo avviso, ritrovare rapidamente l’unità del movimento socialista. Fece più volte intendere d’essere tornato a riesaminare, proprio alla luce dell’affermazione del fascismo, le ragioni che avevano condotto i riformisti alla scissione e di essere giunto a valutare le passate divergenze «tutte astratte e proiettate nel più lontano futuro», tali perciò da non autorizzare il mantenere «divisa la classe lavoratrice italiana e toglierle tutto quel lievito di speranze, di ardimenti, di consensi che soli possono permettere un’azione efficace, entusiastica e concorde nel momento attuale» (Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), Bari 1947, p. 2790). La sua intransigenza verso il fascismo, se da una parte aveva contribuito ad accrescere la sua autorità morale, aveva tuttavia finito per rendere politicamente precaria la sua carica alla segreteria del partito, poiché gli aveva inimicato ampi settori di esso, urtando personaggi, come gli organizzatori sindacali, tutti collaborazionisti, che godevano d’un indiscusso potere.
Quanto più il M. si rese conto dell’isolamento di cui soffriva in seno al PSU, tanto più egli raddoppiò gli sforzi per collegare la sua lotta al movimento socialista internazionale, quasi a sollecitare quel sostegno che sentiva mancare nel suo partito. Tra il 1923 e i primi mesi del 1924, mentre intensificava gli sforzi per mantenere il PSU unito all’opposizione, più frequenti si fecero i suoi viaggi all’estero.
Nel febbraio del 1923 si recò a Lilla, al congresso dei socialisti francesi, e il mese successivo a Parigi e a Berlino per incontrare alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Dopo quel viaggio il governo fascista gli ritirò il passaporto e vani furono tutti i suoi tentativi di riottenerlo.
Prima che s’inaugurasse la nuova legislatura, nel periodo di chiusura del Parlamento, il M. riprese a recarsi all’estero. Privo com’era del passaporto, si vide costretto a varcare la frontiera clandestinamente. Nell’aprile del 1924 si recò a Bruxelles per partecipare al congresso del partito operaio. Tra il 21 e il 22 aprile raggiunse in gran segreto l’Inghilterra e a Londra ebbe una serie di incontri con i dirigenti del partito laburista e con alcuni membri del governo di R. MacDonald. Il viaggio inglese doveva rimanere segreto e difatti il massimo riserbo circondò la presenza del M. in Inghilterra. Qualcosa del viaggio si conobbe solo dopo la sua morte. Il M. rimase a Londra sino al 26 aprile e tra l’altro prese accordi per la pubblicazione in lingua inglese di Un anno di dominazione fascista. Quel poco che si sa sul contenuto dei colloqui londinesi lo si deve a uno scarno appunto del M. di recente pubblicazione proveniente dagli archivi laburisti, il quale rivela che egli discusse con i dirigenti laburisti anche di due questioni che erano da tempo all’attenzione del governo fascista: la legalizzazione delle case da gioco e la convenzione con la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil, segnalando ai dirigenti laburisti «le vicende scandalistiche dei petroli e delle bische» come la dimostrazione della «mentalità affaristica del regime» (G. Bianco, M. a Londra, in G. M. a sessant’anni dalla morte, p. 125). Il M. era convinto che la firma della «convenzione Sinclair», cioè l’accordo stipulato tra fine marzo e i primi giorni di aprile del 1924, dopo lunghe trattative, tra il governo fascista e la compagnia petrolifera americana, con cui veniva concesso a quest’ultima il monopolio della ricerca petrolifera nel sottosuolo italiano, fosse stata accompagnata da opera di corruzione nei confronti di uomini del governo fascista. Lo affermò esplicitamente in un articolo che apparve postumo, nel luglio 1924, sulla rivista English Life, in cui si lasciava andare a un’affermazione gravida di significati. «Noi siamo già a conoscenza – scriveva – di molte gravi irregolarità riguardanti questa concessione. Alti funzionari possono essere accusati di ignobile corruzione e del più vergognoso peculato» (p. 87).
Il M. rientrò in Italia il 30 apr. 1924. Era ormai imminente l’apertura della XXVII legislatura che per l’opposizione si presentava particolarmente difficile. Al M. era stato affidato l’incarico d’illustrare le posizioni del gruppo parlamentare del PSU nella seduta del 30 maggio, in cui si sarebbero discusse la verifica dei poteri e le proposte della giunta delle elezioni. Le elezioni politiche del 6 apr. 1924 avevano premiato la posizione intransigente fatta assumere al PSU dal giovane segretario. Il partito aveva ottenuto una lusinghiera affermazione, giungendo in alcune importanti città, come Milano, addirittura primo fra tutti i partiti di opposizione. Pur avendo segnato un importante punto a suo favore, il M. tuttavia era ben consapevole che la destra collaborazionista del PSU era ancora lontana dal considerarsi definitivamente battuta. Anzi era facile prevedere che essa sarebbe tornata alla carica, soprattutto in considerazione del successo ottenuto dal «listone» governativo. Per rintuzzare i tentativi trasformistici occorreva perciò, a suo avviso, alzare ancora di più il livello dello scontro con il governo fascista.
Un momento di grande tensione vi fu il 30 maggio. La giunta delle elezioni aveva proposto la convalida in blocco degli eletti della maggioranza. Su tale proposta intervenne il M., che, dopo aver manifestato il suo dissenso per una prassi del tutto inusuale nella storia parlamentare, richiese, al contrario, l’invalidazione in blocco degli eletti, motivandola con l’irregolarità dello svolgimento delle elezioni costellato dalle violenze dello squadrismo fascista ai danni dei candidati dell’opposizione. Il suo discorso venne continuamente interrotto dalle urla provenienti dai settori della maggioranza. Fu in tale circostanza che, uscendo dalla Camera, al deputato unitario G. Cosattini che lo accompagnava, il M. disse: «Ora preparatevi a fare la mia commemorazione» (Arch. di Stato di Roma, Tribunale civile e penale di Roma, Corte d’Assise, Processo Matteotti, Testimonianza di G. Cosattini). Mussolini definì l’intervento del deputato socialista «mostruosamente provocatorio che avrebbe meritato qualcosa di più tangibile dell’epiteto di “masnada” lanciato dall’on. Giunta» (in Il Popolo d’Italia, 1° giugno 1924). Inoltre il 3 giugno si radunarono davanti alla Camera alcune migliaia di fascisti romani, che, all’uscita dei deputati, si abbandonarono a una sorta di caccia all’uomo per le vie adiacenti il Parlamento. Fedele al suo programma di non dare respiro al governo fascista, il M., il 5 giugno, portò la sua offensiva in seno alla giunta generale del Bilancio. Si doveva discutere il disegno di legge che autorizzava il governo all’esercizio provvisorio del bilancio. L’analisi delle cifre, anticipate dal presidente della giunta, consentì al M. di concludere che il bilancio ufficiale presentato dal governo alcuni giorni prima al Parlamento e al sovrano, e che prevedeva il pareggio, fosse falso, mentre il bilancio vero faceva registrare un disavanzo di due miliardi.
Sin dal suo ritorno da Londra, il M. aveva fatto richiesta del passaporto per partecipare a Vienna all’esecutivo della II Internazionale, che apriva i suoi lavori il 5 giugno, e che si sarebbe protratto per alcuni giorni. Il M., che sino ad allora s’era visto negare il rilascio, si dovette certo stupire non poco quando si vide concedere il passaporto, seppure limitato alla sola Austria. Tuttavia il M. aveva già deciso di non partire per Vienna, poiché l’11 giugno, mercoledì, alla riapertura della Camera, si sarebbe discusso l’esercizio provvisorio, e le sue competenze economico-finanziarie sarebbero risultate senza dubbio preziose al suo gruppo parlamentare.
A partire dall’8 giugno i quotidiani avevano iniziato a pubblicare la lista dei deputati che s’erano iscritti a parlare sull’esercizio provvisorio, e il M. era segnalato tra questi. Il discorso venne preparato con grande impegno. Chiunque lo cercasse in quei giorni era certo di poterlo trovare in una sala riservata della biblioteca della Camera, davanti a documenti, libri e ritagli di giornale. Le sue giornate erano scandite da lunghe permanenze alla biblioteca, che il M. raggiungeva nel primo pomeriggio e che lasciava verso sera per rientrare a casa. S’era fatta quindi strada in alcuni dei suoi colleghi l’idea che egli stesse preparando un discorso molto forte.
Il 22 maggio era giunto a Roma da Milano un gruppetto di arditi fascisti milanesi capeggiati da Amerigo Dumini e da Albino Volpi. Gli altri componenti erano Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Filippo Panzeri e Aldo Putato. A essi si unirono più tardi lo chauffeur Augusto Malacria e l’austriaco Otto Thiershald. Sin dal loro arrivo, costoro presero a pedinare il Matteotti. Il 10 giugno 1924 alle 16.30 il gruppetto degli arditi attese il M. sul lungotevere Arnaldo da Brescia, e dopo averlo tramortito lo caricò a forza su una Lancia avuta in prestito dal direttore del Corriere italiano, F. Filippelli, che venne lanciata a folle velocità verso ponte Milvio. Sicuramente egli trovò la morte durante la colluttazione seguita al sequestro, colpito a morte da un oggetto acuminato. Il cadavere venne rinvenuto due mesi dopo, il 16 agosto, lungo la via Flaminia, in località Quartarella, in una fossa scavata in una fitta boscaglia. I cinque responsabili materiali del delitto, Dumini, Volpi, Malacria, Poveromo e Viola, erano stati arrestati già nei giorni successivi al sequestro. Il ritrovamento dell’auto, il cui interno era cosparso di enormi macchie di sangue, aveva lasciato poche speranze di ritrovare il M. in vita. Il 20 agosto le spoglie del giovane deputato socialista vennero trasportate via ferrovia a Fratta Polesine, accompagnate lungo il percorso da un impressionante tributo popolare.
L’uccisione del M. e il fatto che l’identità degli assassini riconducesse direttamente a Mussolini provocarono una crisi gravissima nel governo fascista. Essa fu superata solo grazie all’abilità di Mussolini, alle divisioni dell’opposizione e alla corrività del re, che non volle «dimissionare» il presidente del Consiglio per paura del «salto nel buio».
L’istruttoria a carico degli assassini attraversò due fasi. La prima, da giugno a dicembre del 1924, condotta da due magistrati abili e determinati, M. Del Giudice e U.G. Tancredi, si svolse attorno all’ipotesi del delitto volontario e ottenne vistosi successi, che comportarono l’arresto, oltre che degli esecutori materiali del delitto, dei secondi mandanti, alti gerarchi del Partito nazionale fascista (PNF), C. Rossi e G. Marinelli, rispettivamente capo dell’ufficio stampa di Mussolini e segretario amministrativo del PNF. Merito dell’istruttoria fu l’accertamento dell’esistenza di una organizzazione criminale, una sorta di polizia segreta, la cosiddetta Ceka fascista, che rispondeva direttamente alla presidenza del Consiglio. L’istruttoria riuscì a far chiarezza su molti dei crimini di cui s’era macchiata la Ceka prima dell’omicidio del Matteotti. Ma le esitazioni dell’opposizione e la conseguente ripresa dell’iniziativa da parte di Mussolini dettero coraggio al movimento fascista e allo stesso governo, che riuscì a sottrarre l’inchiesta ai due magistrati per affidarla in mani più sicure, cioè ai magistrati N. Del Vasto e A. Albertini, i quali lavorarono a una ipotesi diametralmente opposta, cioè il delitto preterintenzionale o involontario. Il discorso di Mussolini del 3 gennaio, quasi una sfida alle opposizioni, e la successiva ripresa dello squadrismo fascista fecero il resto. Mussolini, ormai di nuovo in sella, preparò il salvataggio degli arrestati, esecutori e mandanti, promulgando il 31 luglio 1925 un decreto legge di amnistia per i reati politici, indirizzato al salvataggio degli assassini del Matteotti. La sentenza istruttoria del 1° dic. 1925, fondata sulla preterintenzionalità del delitto, consentì la scarcerazione di Rossi, Marinelli, Filippelli, Putato, Panzeri e Thiershald. Il processo celebrato a Chieti nel marzo 1926 si concluse con l’assoluzione di Malacria e Viola e la condanna di Volpi, Dumini e Poveromo a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni, dei quali 1 anno e 9 mesi già scontati in attesa della sentenza. I tre avrebbero dunque dovuto scontare ancora 4 anni e 2 mesi di carcere, ma l’amnistia, che prevedeva, nel caso di omicidio, un condono fino a quattro anni della pena, consentì a Dumini e compagni di riacquistare la libertà di lì a due mesi. Per l’omicidio del deputato socialista essi avevano scontato in totale meno di due anni di carcere.
Sul movente del delitto la ricerca storica si sta confrontando da decenni. Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che si sia trattato di una «lezione» finita tragicamente; vi è poi una versione che in realtà è un corollario della precedente ipotesi, cioè che il crimine trovi una spiegazione nella volontà di vendetta di Mussolini per il discorso del M. del 30 maggio. Vi è infine una più recente ipotesi che spiega il crimine con la necessità di Mussolini di «tappare la bocca» al M. perché convinto che il giorno 11 giugno, il deputato socialista avrebbe rivelato gravi casi di corruzione di cui si sarebbero resi responsabili Mussolini stesso e alcuni gerarchi del partito. In particolare Mussolini avrebbe concesso il monopolio dello sfruttamento del sottosuolo italiano alla compagnia petrolifera Sinclair Oil in cambio di alcune tangenti necessarie per finanziare il suo giornale e il partito fascista. Il M. sarebbe venuto a conoscenza di questa corruzione (del resto aveva cominciato a rivelare qualcosa al riguardo con l’articolo apparso postumo in English Life) e avrebbe avuto intenzione di denunciarla col suo discorso previsto per l’apertura della Camera, cioè l’11 giugno. Documenti pubblicati di recente provano che il governo si aspettava un attacco proprio sulla «convenzione Sinclair». I sicari di Mussolini sarebbero quindi entrati in azione per impedirlo.
Altri scritti del M.: La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, Torino 1910; La riforma tributaria, Milano 1919; La finanza italiana nel 1921 e alcune note economiche, ibid. 1922; Il disavanzo del bilancio italiano: le imposte dirette e la imposta sui terreni, Roma 1922; Il fascismo della prima ora, ibid. 1924; Discorsi parlamentari, I-III, ibid. 1970. A cura di S. Caretti sono, inoltre, le seguenti raccolte di scritti: Scritti sul fascismo, Pisa 1983; Sulla scuola, ibid. 1990; Sul riformismo, ibid. 1992; Scritti giuridici, ibid. 2003; La questione tributaria, Manduria-Bari-Roma 2006.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale pubblica sicurezza, Divisione Polizia politica, Fascicoli personali, bb. 28B, 61A; la documentazione dell’istruttoria del processo Matteotti è conservata in Arch. di Stato di Roma, Tribunale civile e penale di Roma, Corte d’Assise, bb. 457-467. Un quadro dettagliato delle fonti e degli studi sul M. fino al 1974 si trova in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Diz. biografico, 1853-1943, Roma 1977, III, pp. 370-384 (S. Caretti). Si veda inoltre: Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, III, 1917-1926, a cura di F. Pedone, Milano 1963, ad indicem. Successivamente sono apparsi due volumi di carteggi, entrambi curati da S. Caretti: G. Matteotti, Lettere a Velia, Pisa 1986; V. Titta Matteotti, Lettere a Giacomo, ibid. 2000. Fra i numerosi studi si vedano: A.G. Casanova, M. Una vita per il socialismo, Milano 1974; Studi e ricerche su G. M., a cura di L. Bedeschi, Urbino 1979; C. Carini, G. M. Idee giuridiche e azione politica, Firenze 1984; G. M. a sessant’anni dalla morte. Atti del Convegno di studi, Rovigo… 1984, Napoli 1985; G. M. (1885-1985). Scritti e discorsi, testimonianze, contributi, a cura di C. Modena, Roma 1985; M. dal Polesine a Montecitorio. Atti del Seminario di studi, Rovigo… 1985, Napoli 1990; M.: il mito, a cura di S. Caretti, Pisa 1994; L. Maragna, G. M. sindaco di Villamarzana (1912-1914), Ferrara 1994; E. Orlando, Il dossier Matteotti, Milano 1994; G. Capecelatro, La banda del Viminale. Passione e morte di G. M. nelle carte del processo, Milano 1996; M. Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Bologna 1997; V. Zaghi, G. M., Verona 2001; F. Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003, pp. 222, 311 s., 436 s.; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna 2004; G. Tamburrano, G. M. Storia di un doppio assassinio, Torino 2004; S. Caretti, Il delitto Matteotti. Storia e memoria, Manduria-Bari-Roma 2004; G. Mayda, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dumini, sicario di M., Bologna 2004; Omaggio a M. nell’ottantesimo anniversario della morte (1924-2004), a cura di M. Monaco, Roma 2005; Socialismi e libertà. G. M. tra antifascismo e democrazia. Atti del Convegno, Torino… 2004, a cura di W. Bonapace, Asti 2006.