MARACCO, Giacomo (Iacopo)
Nacque nel Veronese, forse a San Bonifacio, intorno al 1511 da Giovanni Matteo, membro di una famiglia legata da interessi a quell'area territoriale e probabilmente alla locale famiglia comitale, nei confronti della quale il M. conservò un profondo vincolo.
Si formò a Verona, a diretto contatto con il vescovo Gian Matteo Giberti, forse nella cosiddetta schola acholytorum, e conobbe in quegli anni personaggi di spicco come Reginald Pole. Perfezionò gli studi a Padova intorno al 1535 e poi a Bologna, dove si laureò in utroque iure nel 1542. Nell'ambiente bolognese, che ricordò sempre con nostalgia, il M. strinse legami importanti, tra gli altri con Gabriele Paleotti, trovando impiego nel 1542 nel ruolo di vicario del vescovo di Rieti, Mario Aligero, e restò in quella sede otto anni grazie all'amicizia di due nipoti del presule, suoi compagni di studio.
Nel 1550 tornò a Bologna, dove fu vicario del vicelegato Girolamo Sauli, vescovo di Genova, delegato a seguire alcune cause presso il locale tribunale del S. Uffizio.
Non sono note testimonianze di questa attività, che dovette costituire un'occasione per farsi conoscere e apprezzare dall'inquisitore Michele Ghislieri, il futuro Pio V, ricevendo come strumento per la sua attività futura l'autorizzazione a fare e a conservare una copia completa della delazione di Pietro Manelfi, documento che descriveva la rete dell'anabattismo italiano e che lo accompagnò per tutta la vita.
Nel 1551 fu vicario presso il vescovo di Rimini, Giulio Parisano; in quel ruolo affinò ulteriormente l'esperienza di governo, venendo anche nominato, nel 1553, giudice apostolico e rappresentante del cardinale Ranuccio Farnese, arcivescovo di Ravenna, per tutelare gli interessi ravennati nella diocesi riminese. Fu anche creato protonotario apostolico.
Il 7 giugno 1557 il M. fu nominato vicario del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani. Questi, infatti, per recuperare credibilità, considerati il suo autentico interesse per i temi religiosi, la vicinanza a personaggi ritenuti sospetti e le simpatie per idee ormai pericolose, su consiglio forse dello stesso Ghislieri scelse di sostituire il vicario generale e optò per il M., la cui preparazione pastorale e inquisitoriale lo rendeva quanto mai indicato a supplire all'ordinario e ad assumere la gravosa gestione della diocesi.
Il patriarcato abbracciava territori posti sotto due domini in perenne tensione tra loro: Venezia e l'Impero. Se la Serenissima era riuscita a tenere saldamente sotto controllo le nomine a patriarca di Aquileia, gli Asburgo si opponevano a ogni riconoscimento prestato dai sudditi all'autorità patriarcale, e alla presenza nei propri domini di tribunali dell'Inquisizione. Il vicario doveva dunque rispettare le direttive del patriarca e tutelarne gli interessi, mentre da Roma gli si chiedeva di mettere mano alla riorganizzazione della diocesi e di rispondere prima di tutto alle attese della S. Sede. Queste difficoltà furono accresciute dagli sviluppi del caso di G. Grimani (una incauta lettera sulla giustificazione inviata dallo stesso patriarca per difendere un predicatore aveva sollevato dubbi e problemi nella diocesi) e dalla personalità del presule, che non sempre seppe, o volle, condividere con il suo vicario gli indirizzi di governo, cercando di mantenere una certa forma di controllo diretto sulla diocesi.
Il M. fece l'ingresso solenne a Udine il 6 ag. 1557, ma aveva iniziato a presenziare in curia già il 21 giugno.
Emanò subito un documento di indirizzo a tutto il clero con un forte richiamo a un nuovo stile disciplinare e pastorale. Fin dagli inizi si preoccupò di dare maggiore efficienza agli uffici della curia, trovando in alcuni cancellieri un validissimo supporto. In particolare fu assai stretta la collaborazione con il notaio Maffeo Dalla Porta, amico e fiduciario in molteplici incarichi, anche molto delicati. Non è stato ancora individuato invece un altro collaboratore, autore del coevo copialettere del M. a noi pervenuto.
Il governo fu improntato a una decisa centralizzazione. Poco dopo il suo ingresso venne così a un primo scontro con il luogotenente veneto a Udine, sede normalmente del governo diocesano, in conseguenza del quale fece spostare tutta la curia a San Daniele, dominio del patriarca, da cui rientrò dopo avere ottenuto una qualche forma di soddisfazione. Le promozioni agli ordini sacri furono riorganizzate con una commissione, non sempre efficace, e furono creati i relativi registri, in modo da rendere evidente l'attività svolta e da controllare più facilmente le possibili irregolarità. Sovente nell'epistolario affiorano le preoccupazioni per la scarsità di clero preparato e religiosamente motivato. Le zone della diocesi poste sotto il controllo imperiale non facevano riferimento al M. nemmeno per le ordinazioni, avvalendosi della possibilità concessa al vescovo di Lubiana di ordinare undique accedentes; né era facile intaccare gli usi consolidati di investitura del clero in cura d'anime. Dalle lettere emerge lo sconforto del M., consapevole di affrontare un compito quasi impossibile: mantenere una rete di sacerdoti in cura con un numero irrisorio di persone preparate e adatte. Auspicava l'arrivo a Gorizia dei gesuiti e la costituzione di un seminario a Udine, ma non poté vedere realizzata nessuna delle due iniziative.
Un tema particolarmente difficile su questo fronte era quello della residenza e del collegato divieto di cumulo dei benefici, disposizioni che dopo Trento divenne obbligatorio far rispettare. Il M. da una parte ribadì che spesso si rischiava di richiamare alla residenza preti ben poco adatti, e che sarebbe stato meglio colpire gli assenteisti con multe e con l'obbligo a farsi sostituire da persone preparate, quindi pagando di più i vicari; d'altra parte il problema coinvolgeva moltissimi membri del clero, compresi G. Grimani e il M., che deteneva alcuni benefici ai quali rinunciò solo con grande riluttanza.
Il M. si avvalse fin dal 1557 delle visite pastorali per supportare la propria azione di governo e per stabilire un rapporto diretto con clero e fedeli. Dopo il concilio di Trento egli svolse un'attività ancora più intensa e attenta, spingendosi in zone prima non raggiunte e tentando anche di superare gli ostacoli frapposti dagli Asburgo, per rispondere in particolare alle critiche romane verso il governo patriarcale. In un'occasione, infatti, passò senza autorizzazione il confine e visitò il territorio di Villaco (Villach), mentre in un'altra occasione delegò il Dalla Porta, che svolse per lui indagini riservate e recapitò libri e documenti nelle zone interdette.
Il M. trovò da subito un ostacolo nelle molte giurisdizioni esenti, tra le quali in particolare le abbazie e i capitoli. Le due abbazie di Rosazzo e Moggio erano affidate in commenda, per cui poté soltanto operare attraverso pressioni indirette, vegliando in tal modo sui territori loro sottoposti. Lo scontro con i capitoli fu molto più esplicito, lungo e duro. Solo con quello di Udine sembrò comporsi abbastanza presto ogni tensione. A Cividale, invece, il decano era abituato a esercitare un largo controllo sull'intera giurisdizione, visitando e investendo il clero, e mal sopportò, quindi, l'arrivo di un personaggio deciso ad accentrare il controllo sulla diocesi. Alcuni canonici andarono fino a Roma, provocando una reazione durissima da parte della Serenissima, preoccupata di difendere l'autorità di G. Grimani e contraria a qualsiasi ricorso presso la Curia pontificia da parte dei sudditi. Dopo lungo tergiversare e dopo aver messo ulteriormente in cattiva luce il patriarca, i delegati dovettero rientrare: tutto sembrò acquietarsi, ma il M. poté stabilire con definitiva chiarezza la propria autorità solo con un'azione di lungo periodo. I contrasti con il capitolo di Aquileia, poco presente nella città ormai decaduta, furono invece saltuari.
Il M. rispettò attentamente le prerogative del clero regolare, intessendo e mantenendo rapporti con i responsabili dei vari ordini mendicanti, intervenendo con diplomazia ogni volta che si evidenziavano problemi. Solo l'arrivo dei cappuccini fu vissuto da lui con qualche difficoltà, che portarono a un aperto contrasto: non ne apprezzò, infatti, il forte profilo pauperistico e il successo conseguito tra il popolo con la pratica delle Quarant'ore. Le diffidenze però vennero ben presto a cadere ed egli mostrò di saper apprezzare i religiosi di quest'Ordine, per l'entusiasmo e la preziosa opera di catechesi.
Protestò di non gradire molto la disposizione conciliare che sottoponeva al vescovo i monasteri e i conventi femminili per sottrarli al controllo dei rispettivi ordini maschili, anche se fin dalla sua prima visita il M. si preoccupò di porre mano alla loro riforma. Ben consapevole della reale situazione di queste istituzioni, e abbastanza diffidente nei confronti delle donne, visitò e tentò di riformare e riuscì via via a far accettare e rispettare l'obbligo della clausura. La resistenza più decisa venne dai monasteri di Aquileia, che poterono rimanere fuori dal controllo patriarcale fino alla soppressione settecentesca, e da S. Chiara a Udine, con il quale si aprì un contrasto insanabile e pericoloso.
Un confronto non facile con gli ordini religiosi si sviluppò inoltre intorno al controllo spettante all'ordinario sui confessori, specialmente quelli dei conventi femminili, e sui predicatori. Questi ultimi costituivano un problema sia sul fronte disciplinare sia su quello del controllo dottrinale. Occasioni di scontro aspro con le comunità locali, che invitavano i frati per i cicli di predicazione, si ebbero nel 1564 a proposito di un cappuccino, Girolamo Calabrese, che fu sospeso nel 1568, allorché la città di Udine chiamò un personaggio da tempo sospetto, Andrea Ghetti da Volterra, e il M. fu oggetto di durissime contestazioni da parte di cittadini influenti; ancora nel 1570, a causa del francescano Geremia Bucchio, già indagato.
Per la sua opera, più volte il M. dovette fronteggiare le ire dei capitoli e delle comunità, ma fu protetto da G. Grimani, che nel marzo 1565 riuscì anche a sventare una pericolosa accusa di sodomia mossa al M.: il governo veneziano ordinò di distruggere l'incartamento che lo coinvolgeva e il patriarca respinse quanti premevano su di lui contro il Maracco. Altre volte il M. subì attacchi e si tentò di avanzare sospetti sulla sua moralità, che lo amareggiarono assai.
Nel 1565 il M. riunì un sinodo generale ad Aquileia. Optando per tale sede, cercò di coinvolgere l'intero territorio diocesano, sperando di vedere superate le difficoltà solitamente frapposte dagli Asburgo e di contare sulla partecipazione numerosa del clero. Tutto fu organizzato con cura, sull'esempio di altre diocesi importanti, e furono scelti oratori destinati a trasmettere con efficacia i nuovi indirizzi tridentini. Nelle norme approvate furono riprese disposizioni del precedente patriarca di Aquileia, Marino Grimani, integrate e aggiornate alla luce dei risultati delle visite. Ma le fasi successive di applicazione furono lunghe e tormentate e sorsero difficoltà anche con Roma, da dove si tardò a inviare l'approvazione necessaria per attuare le disposizioni sinodali.
L'impossibilità a svolgere un'attività pastorale al di là del confine fu uno dei crucci del M., che non sopportava, tra l'altro, di vedere misconosciuta la propria autorità. Pur continuando ad accettare le designazioni veneziane alla carica patriarcale e a mostrare diffidenza verso le scelte di politica religiosa degli Asburgo, da Roma periodicamente ci si lamentava che metà della diocesi rimanesse abbandonata dall'ordinario e si invitava il vicario ad agire. Anche in occasione del sinodo emersero i consueti ostacoli frapposti dai rappresentanti dell'arciduca e il M. dovette mettere in campo ogni sforzo per interagire con le zone oltreconfine. In particolare egli cercò di rinsaldare i rapporti con gli arcidiaconi di quei territori e con il pievano di Gorizia, dove si giunse infine, nel 1574, a erigere un nuovo arcidiaconato. Mantenne buoni rapporti con il goriziano Vito di Dornberg, potente personaggio di quella contea, cattolico, ma fedele al suo imperatore e desideroso di vedere riconosciuta l'autonomia religiosa per la sua città. Per risolvere l'eterno contenzioso, il M. tentò anche di ottenere da G. Grimani il permesso di alternare la sede della sua curia tra Udine e Aquileia, essendo questa sotto il controllo imperiale. Aveva già fatto riattare il palazzo patriarcale, quando il patriarca intervenne proibendogli questo passo. Nel 1570 da Roma fu inviato un visitatore apostolico per la parte della diocesi soggetta agli Asburgo: il M. protestò irato, rimarcando di avere più volte chiesto un'autorità apostolica per visitare quelle zone senza ostacoli e che solo un ordinario poteva efficacemente svolgere quel compito; né apprezzò che fosse stata sottolineata la necessità di intervenire a causa della cattiva gestione di quella parte della diocesi. Non volle presenziare all'apertura della visita ad Aquileia, contestando anche la scelta come visitatore di un uomo che egli stimava poco dal punto di vista pastorale, Bartolomeo da Porcia, abate commendatario di Moggio (Udine), appoggiato dall'arcivescovo di Milano Carlo Borromeo e ben attento a non scontentare né la Curia romana né la corte arciducale.
Per quanto riguarda l'attività inquisitoriale, il M. si era premurato di organizzare la sua azione grazie all'esperienza maturata, ma fu posto subito in una difficile posizione. Stava cercando di impostare gli indirizzi generali del suo governo e doveva contrastare le resistenze di Udine e di Cividale, quando nella primavera del 1558 giunse nell'area l'ex vescovo di Capodistria Pietro Paolo Vergerio il Giovane, già accusato di luteranesimo, che viaggiò incontrastato, incontrò persone, distribuì libri e si spinse fino a Duino, dove fu visitato da parenti e amici capodistriani. Il fatto fu letto come una plateale dimostrazione dell'incapacità di governo della curia patriarcale, che dovette quindi dare prova di sollecitudine ricercando libri e sostenitori di Vergerio. Fu fatta la debita inchiesta e si avviarono alcuni procedimenti, ma con una cautela forse legata ai complessi equilibri in atto. Per rafforzare la sua autorità, il M. ricevette anche il titolo di commissario specialmente delegato per l'Inquisizione, fin dal giugno 1558, e durante gli anni del suo governo restò sempre evidente la sua preminenza nel tribunale, accompagnata da rapporti di scarsa fiducia prima di tutto verso il suffraganeo Luca Bisanti e da molta cautela nei confronti di alcuni inquisitori francescani che si succedettero in questa sede, mentre ebbe la più grande considerazione e amicizia per il domenicano Santo Cittinio, che a metà degli anni Sessanta fu chiamato a partecipare ai lavori del tribunale ed ebbe il titolo di commissario suddelegato. Nel 1566, con il secondo arresto dell'eretico Bernardino della Zorza, il S. Uffizio acquisì molti elementi che indicavano il profondo e continuo coinvolgimento di alcune clarisse del monastero di S. Chiara a Udine con il movimento anabattista. Le protezioni delle famiglie e dell'Ordine impedirono ogni passo ulteriore, e quando il M. - reso edotto già dai costituti del Manelfi delle simpatie delle suore - nel gennaio 1572 rifiutò la sepoltura religiosa alla badessa sospettata e il riconoscimento della nuova eletta, si aprì un confronto durissimo che lo spinse ad abbandonare Udine e a trasferirsi a Cividale, dove restò dal 1572 al 1575; il patriarca dovette nuovamente resistere alle pressanti richieste di sostituzione.
Ritornato a Udine, il M. vi trascorse l'ultimo periodo ormai anziano, debilitato dalla malaria che da anni lo tormentava, e amareggiato per non aver potuto conseguire quella promozione a vescovo che riteneva il giusto compenso per una vita spesa al servizio della Chiesa. Non aveva mai amato molto la sede friulana, e i legami stabiliti con amici, letterati e famiglie importanti non gli impedirono di sentirsi isolato rispetto al contesto locale, al patriarca e alla Curia pontificia.
Il M. morì a Udine intorno al Natale del 1576.
Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca arcivescovile, Mss., 139: Maracco, Lettere manoscritte, 1563-1576; è in corso di pubblicazione Le lettere di Giacomo Maracco, vicario generale del patriarca di Aquileia, 1557-1576, a cura di G. Paolin; P. Paschini, Eresia e riforma cattolica al confine orientale d'Italia, Romae 1951; G. Paolin, Le visite pastorali di Iacopo M. nella diocesi aquileiese nella seconda parte del XVI secolo, in Ricerche di storia sociale e religiosa, XIII (1978), pp. 169-193; Id., L'eterodossia nel monastero delle clarisse di Udine nella seconda metà del Cinquecento, in Collectanea Franciscana, L (1980), pp. 119-124; Id., Note in margine alla biografia di fra Geremia Bucchio, in Ricerche religiose del Friuli e dell'Istria, III (1984), pp. 87-109; S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia (1520-1580), Torino 1987, pp. 210 s., 312; G. Paolin, La visita apostolica di Bartolomeo da Porcia nel Goriziano (1570), in Riforma cattolica e Controriforma nell'Austria interna, 1564-1628. Atti del Convegno…, Lubiana… 1992, a cura di M. Dolinar et al., Klagenfurt 1994, pp. 133-142; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 97 s., 200; L'Inquisizione nel patriarcato e diocesi di Aquileia (1557-1559), a cura di A. Del Col, Trieste-Montereale Valcellina 1998, ad indicem.